CAPITOLO SECONDO

Il mattino successivo lo trovò seduto su un barilotto di birra, sul ponte di una delle navi mercanti, con gli occhi fissi sulla scia le cui onde s’allargavano a misurare Hed come le aste di un compasso. Accanto al barilotto giaceva una sacca di indumenti che Tristan aveva riempito innanzi a lui e senza cessare un attimo di discutere, cosicché nessuno dei due avrebbe più potuto dire cos’altro conteneva, insieme alla corona. Era bislaccamente rigonfia, quasi che nel parlare ella vi avesse ficcato dentro tutto ciò che s’era trovata fra le mani. Eliard non aveva quasi aperto bocca. Dopo un poco era uscito dalla camera del fratello. Morgon lo aveva ritrovato nella fucina presso la stalla, che martellava su un ferro di cavallo arroventato.

Rivangando i suoi pensieri del giorno prima, aveva detto: — Ieri stavo quasi per acquistarti uno stallone sauro di An, con la corona.

Ed Eliard aveva scaraventato nell’acqua le pinze surriscaldate e il ferro, e agguantando Morgon per le spalle lo aveva inchiodato contro la parete, con un grido: — Non credere di potermi comprare con un cavallo! — Il che risultò privo di senso per Morgon e, dopo un momento, anche per Eliard. Gli aveva tolto le mani di dosso, chinando il capo con una smorfia triste e perplessa.

— Scusami. È solo che vederti partire mi spaventa, adesso. Credi che qui le piacerà?

— È quel che vorrei sapere.

Tristan, seguendolo nel salone col mantello sulle braccia, mentre lui stava per uscire, s’era fermata a fissarlo con un volto che gli era apparso stranamente nuovo e vulnerabile. La fanciulla aveva lasciato vagare lo sguardo sui muri disadorni, rustici e spogli, spingendo una sedia al suo posto contro un tavolo. — Morgon, spero che lei sia capace di ridere — aveva sussurrato.

La nave accelerava sotto la spinta del vento; Hed rimpiccioliva, si offuscava in distanza. L’arpista del Supremo era venuto ad appoggiarsi alla murata, e il suo mantello grigio svolazzava dietro di lui come una bandiera. Gli occhi di Morgon indugiarono sul suo volto senza rughe, intoccato dal sole. La sua mente fu sfiorata dalla sensazione che in lui ci fosse qualcosa d’incongruente e di paradossale, un enigma che plasmava la chioma argentea e il fine profilo di quel volto.

L’arpista si volse, incrociando il suo sguardo.

Incuriosito Morgon domandò: — Qual è la vostra patria?

— Non ho patria. Sono nato a Lungold.

— La città dei maghi? Chi vi ha insegnato a suonare l’arpa?

— Molte persone. Ho ricevuto il mio nome dall’arpista del Morgol Cron, Tirunedeth, che mi insegnò le canzoni di Herun. Gli chiesi di averlo, prima che morisse.

— Cron — mormorò Morgon. — Ylcorcronlth?

— Sì.

— Lui governava Herun seicento anni fa.

— Io nacqui — disse tranquillamente l’arpista, — non molto dopo la fondazione di Lungold, un migliaio d’anni fa.

Morgon era immobile, a parte le lievi oscillazioni con cui il suo corpo si adeguava al rollio del vascello. Lievi tracce di luce si riflettevano e si spezzavano sul mare, oltre il volto che lo fissava con distacco. Sussurrò: — Non mi meraviglia che sappiate suonare così. Avete avuto mille anni per imparare sull’arpa ogni canzone del reame del Supremo. Non sembrate affatto vecchio. Mio padre appariva più anziano di voi, prima di morire. Siete figlio di un mago? — Poi abbassò lo sguardo sulle sue mani, poggiate sulle ginocchia, e aggiunse: — Scusatemi, non sono affari miei. Ero soltanto…

— Curioso? — L’arpista sorrise. — Voi avete curiosità molto insolite per un Principe di Hed.

— Lo so. È per questo che mio padre si decise a mandarmi a Caithnard… stavo cominciando a far troppe domande. Lui non sapeva come prendere la faccenda. Ma era un uomo saggio, e comprensivo, così mi lasciò andare. — Tacque, bruscamente, e la sua bocca s’increspò in un tremito.

L’arpista si volse a osservare la costa del continente, che si avvicinava. — Io non ho mai conosciuto mio padre. Nacqui senza un nome, nei sobborghi di Lungold, in un’epoca durante la quale i maghi, i Re e perfino lo stesso Supremo talora visitavano la città. E poiché non ho nessun legame con la terra e nessun talento per la magia, ho rinunciato da moltissimo tempo a far congetture su chi poteva essere mio padre.

Morgon tornò a fissarlo, con aria speculativa. — Danan Isig era vecchio quanto una pietra anche a quei tempi, e così Har di Osterland. Nessuno sa quando i maghi siano nati, ma se voi siete figlio di uno di loro oggi non c’è nessuno che possa contestarvelo.

— Non è importante. I maghi se ne sono andati; io non debbo niente a nessuno dei sovrani viventi a parte il Supremo. Al suo servizio io ho un nome, un posto, libertà di movimenti e di pensiero. Sono responsabile solo verso di lui, e lui mi tiene in considerazione per la mia musica e la mia discrezione, entrambe doti stagionate dagli anni. — Sfiorò le corde della sua arpa, che s’era messo a tracolla. — Non manca molto ad arrivare in porto.

Da lì a poco Morgon lo raggiunse, poggiandosi alla murata. La città mercantile di Caithnard, coi suoi moli, le locande e gli empori, era distesa innanzi a loro a semicerchio, terra fra due terre. Vascelli dalle vele arancio e oro dei mercanti di Herun stavano scendendo dal nord verso le ampie banchine. Sulla sommità del promontorio che formava uno dei corni della baia a mezzaluna c’era un insieme di edifici scuri, le cui pesanti mura di pietra e le cui stanze minuscole Morgon conosceva bene. L’immagine del volto magro e scherzoso del fratello di Raederle balenò nella sua mente. Strinse con forza la balaustra.

— Rood. Devo parlargli. Mi domando se sia ancora alla Scuola. Non ci vediamo da un anno.

— Ho parlato con lui soltanto due notti fa, quando pernottai alla Scuola, prima di fare la traversata per Hed. Ha appena preso la Toga d’Oro di Maestro Intermedio.

— Allora può darsi che sia tornato a casa sua per un poco. — La nave beccheggiò un’ultima volta sulle onde prima di addentrarsi nelle acque più lisce della baia, quindi la velocità diminuì mentre i marinai ammainavano le vele gridandosi istruzioni l’un l’altro. La voce di Morgon si assottigliò: — Mi chiedo cosa lui ne dirà…

Gli uccelli marini ondeggiavano sulle acque immobili come foglie che si lasciassero trasportare dal vento. I moli oltre cui la nave scivolava erano pieni di mercanzie che attendevano il loro turno, o in via di carico: rotoli di stoffa, casse, legname, vino, pellicce, animali. I marinai gridavano saluti ai colleghi a terra, i mercanti si chiamavano l’un l’altro.

— La nave di Lyle Orn salperà per Anuin con la marea, al tramonto — disse un mercante a Deth e a Morgon, prima che sbarcassero. — Potrete riconoscerla dalle vele gialle e rosse. Volete il vostro cavallo, signore?

— Andrò a piedi — disse Deth. E mentre il gruppo scendeva per la rampa davanti a loro si volse a Morgon. — C’è un enigma senza risposta nell’elenco dei Maestri, alla Scuola: Chi ha vinto la gara di enigmi con Peven di Aum?

Morgon si gettò la sacca su una spalla. Annuì. — Darò loro la risposta. Venite anche voi su alla Scuola?

— Più tardi.

— Ci vediamo quando sale la marea allora, signori — ricordò loro il mercante mentre scendevano a terra.

I due si separarono sulla strada di ciottoli di fronte al molo, e Morgon, svoltando a sinistra, riprese familiarità con quartieri in cui si era aggirato per anni. Era mezzogiorno, e le stradine tortuose della città brulicavano di mercanti, marinai provenienti dalle terre più diverse, suonatori ambulanti, cacciatori di pelli, studenti dalle toghe ampie i cui colori vividi ne indicavano il rango, uomini e donne di An dalle ricche vesti, forestieri di Ymris e di Herun. Con la sacca che gli oscillava dietro le spalle Morgon s’incamminò fra la folla, senza far caso al bailamme di voci e alle gomitate. Nei vicoli oltre il quartiere portuale trovò più quiete. La strada in cui infine girò tagliava la periferia, lasciandosi indietro le botteghe e le taverne, e saliva verso il promontorio che si stagliava sull’azzurro del mare.

Ogni tanto gruppi di studenti diretti in città lo incrociavano, e le loro chiacchiere vivaci aventi per oggetto gli enigmi, gli riuscirono gradevoli e rassicuranti. Il percorso fece una svolta brusca, alla sommità del colle tornò orizzontale, e l’antica Scuola costruita in pietra scura e massiccia quanto la roccia di cui sembrava far parte fu davanti a lui, silente nella placida cornice degli alberi appena smossi dal vento.

Bussò alla familiare porta a due battenti di spessa quercia. Il portiere, un giovane lentigginoso nella Toga Bianca dei Maestri Inferiori, aprì e gettò un’occhiata fredda su Morgon e sulla sua sacca, quindi proclamò verbosamente: — Bussate e vi sarà aperto. Se avete desiderio di conoscenza, qui verrete ricevuto e ascoltato. I Maestri stanno esaminando un candidato per il Rosso dell’Apprendistato, e non possono essere disturbati se non dalla morte o dal fato. Affidatemi il vostro nome.

— Morgon, Principe di Hed.

— Oh! — Il portiere si grattò la nuca e sorrise. — Entrate. Andrò a cercare il Maestro Tel.

— No, non interromperli. — Entrò e si guardò attorno. — Rood di An è qui?

— Sì, la sua stanza è al terzo piano, sul lato opposto della biblioteca. Vi accompagno io.

— Conosco la strada.

L’oscura penombra dei corridoi a volta era ravvivata soltanto alle estremità da finestre piombate, che si aprivano nei muri esterni spessi tre piedi. Su ogni lato c’erano file di porte chiuse e silenziose. Morgon trovò quella che recava il nome di Rood, inciso su un’elegante targhetta di legno dov’era raffigurato a sbalzo il profilo di un corvo. Bussò, ricevette in risposta un brontolio incomprensibile, ed aprì la porta.

Il letto di Rood, che occupava un quarto della piccola stanza di pietra, ospitava una quantità di libri, un mucchio di vestiti da cui spuntavano oggetti vari, e il Principe di An. Egli sedeva a gambe incrociate in mezzo a quel disordine, mezzo ricoperto da una toga dorata nuova di zecca, con un calice di cristallo quasi pieno di vino in una mano e nell’altra una lettera, che stava leggendo. Alzò lo sguardo, e al secco e orgoglioso moto con cui gli vide sollevare la testa, Morgon ebbe la sensazione che il tempo stesso, e non solo la sua memoria, fosse tornato indietro di un anno. Oltrepassò la soglia.

— Morgon! — Rood si raddrizzò del tutto e scese dal letto, trascinandosi dietro una cascata di libri e di stoffa. Lo abbracciò senza lasciare né la lettera né il calice di vino che aveva fra le mani. — Ah, Morgon! Unisciti a me. Sto celebrando. Sai che mi sembri quasi uno sconosciuto senza la tua toga? Ma già, dimenticavo: adesso sei un coltivatore della terra. È questo che ti ha riportato a Caithnard? Sei venuto per vendere il tuo grano, o il vino, o qualcos’altro?

— Non abbiamo vigneti decenti a Hed. Produciamo solo birra.

— Quale sventura! — Fissò Morgon con occhi un po’ arrossati, curiosi e tristi al tempo stesso. — Ho saputo dei tuoi genitori. I mercanti ne parlavano molto, in primavera. Mi spiace ho provato una gran rabbia.

— Perché?

— Perché questo ti ha incatenato a Hed, ha fatto di te un contadino indaffarato, coi pensieri pieni soltanto di uova e maiali, birra e semenze e aratri. Non tornerai mai più qui, e io sento la tua mancanza.

Morgon poggiò la sacca in un angolo, sentendo la presenza della corona nascosta all’interno come il peso di una colpa. Il sorriso gli riuscì stentato. — Sono venuto a… ho qualcosa da dirti, e non so bene da dove cominciare.

Rood lo lasciò e fece con decisione un passo indietro. — Niente discorsi seri, in un giorno come questo. — Riempì un secondo calice di vino e glielo porse. — Ho ricevuto l’Oro due giorni fa.

— L’ho saputo. Congratulazioni. Da quanto tempo stai qui a celebrare?

— Non me lo ricordo. — Riuscì a ficcare il calice in mano a Morgon, malgrado i tremiti che gli avevano fatto colare il vino lungo l’avambraccio. — Colui che vedi dinnanzi è uno dei figli di Mathom, i cui antenati furono Kale e Oen. Una discendenza in cui anche la strega Madir mise lo zampino. Soltanto un altro uomo in tutta la storia è riuscito a prendere l’Oro in meno tempo di quello occorso a me. Soltanto un altro. E costui se n’è tornato a casa per fare lo zappaterra!

— Rood…

— Hai già dimenticato tutto ciò che imparasti qui? Tu eri bravo a svelare gli enigmi come si aprono le noccioline. Tu avresti dovuto assurgere al rango di Maestro. Tu hai un fratello, avresti dovuto lasciare a lui l’eletto compito di governare le zolle e i pascoli opimi.

— Rood — disse paziente Morgon, — sai bene che era impossibile. E sai anche che io non ero venuto qui per prendere il Nero. Non l’ho mai voluto. Cos’avrei dovuto farmene? Indossarlo per potare le siepi? — La voce di Rood lo interruppe con una veemenza che lo sorprese.

— Rispondere agli enigmi! Tu avevi questo dono, questo talento, questo acume! Una volta dicesti che volevi vincere quella gara. Perché non hai mantenuto la tua parola? Invece te ne sei andato a casa a bollire la birra nei tini, e perciò ecco che è stato un altro uomo, sconosciuto di nome e di faccia, a conquistare e vincere i due più ambiti tesori di An! — Agitò bellicosamente la lettera, che s’accartocciava nella stretta delle sue dita. — E adesso chi può dire cosa lei deve attendersi? Un uomo come Raith di Hel, con una faccia lustra quanto una maschera d’oro ma un cuore simile a un dente cariato? O Thistin di Aum, debole come un pargolo e così vecchio che non riesce a salire sul letto senza aiuto? Se lei fosse costretta a sposare un individuo di questo genere, io non potrò perdonare mai né te né mio padre. Lui perché ha fatto quel dannato voto, e tu perché in questa stessa stanza facesti una promessa che non hai mantenuto. Vuoi sapere una cosa? Quando te ne andasti da qui feci un voto anch’io: giurai che avrei tentato di vincere io la gara di enigmi contro Peven, per liberare Raederle dalla sorte che mio padre le gettò addosso. Ma io non avevo nessuna possibilità. Non ho mai avuto neppure la speranza di una possibilità.

Morgon alzò una mano, scostandosi. — Rood! Vuoi smetterla di urlare e ascoltarmi un momento? Come posso parlare se non fai altro che gracchiare come un corvo ubriaco? Tu credi che Raederle si adatterebbe a vivere in una fattoria? Io devo saperlo.

— Non insultare i corvi; alcuni dei miei antenati erano corvi. È ovvio che Raederle non potrebbe vivere in una fattoria. È una delle due donne più belle delle tre regioni di An. Come puoi supporre che vorrebbe abitare fra i maiali e… — S’interruppe, immobile al centro della stanza, e d’improvviso scoccò a Morgon uno sguardo così penetrante che bastò a ricacciargli in gola quel che stava per dire. — Perché lo chiedi?

Morgon trasse a sé la sacca, e ne allargò l’apertura con dita che tremavano un poco. Mentre ne estraeva la corona, la massiccia gemma frontale, trasparente e cristallina, s’infiammò selvaggiamente di tutti i colori della stanza, sprizzò i riflessi aurei della toga di Rood e balenò di raggi luminosi come un piccolo sole. Abbacinato da quello scintillio Rood trattenne il fiato, poi mandò un urlo che fece vibrare i vetri della finestra.

Morgon depose la corona sulla sacca, sedette coi gomiti sulle ginocchia e si nascose la faccia fra le mani. Agli orecchi gli giunse il tonfo della bottiglia di vino che cadeva sul tavolo, qualcosa s’infranse al suolo con rumore di cocci, la porta della stanza fu sbattuta rumorosamente.

Nel lungo corridoio esterno ci furono grida di protesta, e una voce brontolò qualcosa circa il chiasso e la maleducazione. Morgon, col sangue che gli pulsava forte nelle tempie, raddrizzò il capo e si tolse le dita dagli occhi. — Non era necessario urlare così — mormorò. — Prendi la corona e portala a Mathom. Io me ne torno a casa. — Si alzò in piedi, ma Rood gli afferrò i polsi in una stretta che gli fece scricchiolare le ossa.

— Tu!

Restò immobile. Rood lo lasciò andare, passò alle sue spalle e girò la chiave nella serratura come tutta risposta a coloro che stavano bussando indignati al battente. La sua faccia aveva un’espressione stranita, quasi che l’urlo gli avesse schiarito la mente dall’ebrezza lasciando al suo posto un immenso stupore. Con voce un po’ rauca disse: — Siediti. No, non posso farlo. Morgon, perché non… perché non mi hai detto che andavi a sfidare Peven?

— L’ho fatto. Te lo dissi due anni fa, quando trascorremmo una nottata intera a proporci enigmi l’un l’altro, mentre studiavamo per prendere il Blu degli Aspiranti Inferiori.

— Ma come hai potuto… lasciare Hed senza dir niente a nessuno, passare da Caithnard senza parlare con me, aggirarti invisibile come lo spettro del fato nella terra di mio padre, e affrontare la morte in quella sinistra torre che imputridisce nel vento dell’est? Non sei neppure venuto a dirmi che avevi vinto. Avresti potuto degnarti di farlo. Qualsiasi nobile di An l’avrebbe portata ad Anuin fra uno sventolio di stendardi e squilli di trombe.

— Non era mia intenzione dare delle preoccupazioni a Raederle. Semplicemente, ignoravo tutto del voto di tuo padre. Tu non me ne avevi mai parlato.

— Be’, che ti aspettavi che facessi? Ho visto non pochi grandi nobili partire da Anuin diretti a quella torre, per sciogliere il voto di mio padre, e nessuno di loro ha più fatto ritorno. Credi che volessi dare proprio a te un incentivo per tentare l’impresa? E perché hai voluto cimentarti, se non è stato per conquistare lei, o per l’onore di incedere nella sala del trono portando quella corona. Non è certo stato perché eri orgoglioso della tua sapienza… non lo hai neppure detto ai Maestri.

Morgon prese la corona e se la rigirò fra le mani. Fissò la gemma frontale, ancora impolverata, che rifletteva il verde della sua tunica. — Ho dovuto farlo perché dovevo. Per nessun’altra ragione che questa. E non l’ho detto a nessuno perché era una specie di faccenda privata… e perché non sapevo più, quando all’alba tornai fuori vivo da quella torre, se io fossi un grande Maestro degli Enigmi o un grandissimo idiota. — Gettò uno sguardo a Rood. — Che cosa ne dirà Raederle?

Gli angoli della bocca di Rood s’incresparono in un sorrisetto improvviso. — Non ne ho idea. Morgon, tu hai provocato in An un clamore che non s’era mai visto da quando Madir rubò i branchi di maiali di Hel e li lasciò liberi nei campi di grano di Aum. Raederle mi ha scritto che Raith di Hel le ha promesso di rapirla e di sposarla segretamente, se lei vuole. E che Duac, il quale è sempre stato vicino a nostro padre come la sua ombra, è furioso per il suo voto e in tutta l’estate non gli ha quasi rivolto la parola. I nobili delle tre regioni sono indignati con lui, e insistono che egli non rispetti il voto. Ma è più facile fermare il vento soffiandoci contro, che far mutare l’incomprensibile volontà di nostro padre. Raederle scrive anche di aver fatto dei sogni spaventosi, incubi nei quali un truculento straniero senza faccia e senza nome cavalcava verso Anuin con la corona di Aum in testa, per reclamarla in sposa e portarla via in una ricca ma infelice terra fra le montagne o sotto il mare. Mio padre ha spedito emissari in tutta An alla ricerca dell’uomo che ha preso possesso della corona. Ha mandato messaggeri qui alla Scuola, e ha incaricato i mercanti di indagare ovunque nei loro viaggi nel reame del Supremo. Non gli è venuto in mente di fare ricerche a Hed. E non ci ho pensato neppure io. Ma avrei dovuto. Avrei dovuto immaginare che non si trattava di qualche tremendo personaggio da incubo… ma di qualcuno ancor più imprevedibile. Ci saremmo aspettati chiunque salvo te.

Morgon accarezzò col polpastrello una perla, candida come il dente di un neonato. — Io saprei amarla — sussurrò. — Pensi che conti qualcosa!

— Tu che ne dici?

Morgon raccolse la sacca, nervosamente. — Non lo so, e non lo sai neppure tu. Sono terrorizzato al pensiero dell’espressione che ci sarà sulla sua faccia, quando vedrà che a portare ad Anuin la corona di Aum sono io. Sarà costretta a vivere ad Akren. Dovrà… dovrà familiarizzare col mio guardiano dei porci, Snog Nutt, che viene a far colazione con noi tutte le mattine. Rood, questo non le andrà giù. Lei è nata per lo sfarzo e i privilegi di An, e ne rimarrà inorridita. E questo vale anche per tuo padre.

— Ne dubito — disse Rood con calma. — I nobili di An forse, ma ci vorrebbe il giorno del giudizio per far inorridire mio padre. Per quel che ne so, quando fece quel voto diciassette anni fa aveva appena conosciuto te. La sua mente è una specie di palude e nessuno, neppure Duac, sa quanto sia profonda. Non so cosa ne penserà Raederle. So solo che non vorrei perdermi questa scena neanche se fossi certo che ad Anuin mi aspetta la morte. Comunque, io sto andando a casa per un po’ di tempo. Mio padre ha mandato una nave a prendermi. Tu verrai con me.

— Ho preso accordi per partire su un vascello dei mercanti che salpa questa sera; dovrò informarli. Con me c’è Deth.

Rood inarcò un sopracciglio. — Saprà rintracciarti. Quell’uomo riuscirebbe a trovare la cruna di un ago nella nebbia. — Sentendo che qualcuno bussava alla porta alzò la voce, seccato: — Andatevene! Qualunque cosa io abbia rotto, là fuori, mi dispiace!

— Rood! — La fragile voce del Maestro Tel era incrinata da una nota d’inconsueta severità. — Hai fatto cadere i libri di magia di Nun, e ne hai spaccato le serrature!

Rood si alzò con un gemito e andò ad aprire la porta. Alle spalle dell’anziano Maestro, una piccola folla di studenti irritatissimi accolse la sua comparsa con una cacofonia di proteste e di commenti, simile al gracchiare di un branco di corvi. La voce di Rood battagliò invano contro le loro.

— Oh, insomma! So che il Grande Urlo è proibito, ma è una questione di impulsi piuttosto che di premeditazione, e io ero sopraffatto da un impulso. Per favore, state zitti!

D’improvviso tutti tacquero. Morgon s’era fatto accanto a Rood con in mano la corona, la cui gemma frontale rifletteva il nero della toga del Maestro Tel, e senza dir parola fronteggiò lo sguardo dell’anziano individuo.

Il Maestro Tel, sul cui volto liscio come vecchia pergamena l’irritazione aveva lasciato il posto allo sbalordimento, ruppe quel repentino silenzio col tono di chi propone un enigma: — Chi ha vinto la gara di enigmi contro Peven di Aum?

— L’ho vinta io — disse Morgon.

Più tardi egli fece un resoconto dell’accaduto ai principali studiosi della Scuola, seduti nella biblioteca fra gli scaffali alti fino al soffitto dove riposavano intere collezioni di testi antichi. Gli otto Maestri lo ascoltavano con calma, avvolti nelle loro toghe nere, mentre Rood spiccava fra essi col suo brillante abito dorato. Nessuno disse parola finché egli non ebbe terminato. Poi il Maestro Tel si agitò sulla sua poltroncina e mormorò con meraviglia: — Kern di Hed!

— Come potevi saperlo? — chiese Rood. — Come hai fatto a sapere che dovevi proporgli quell’enigma?

— Non sapevo niente — puntualizzò Morgon. — Mi è venuto in mente di proporlo soltanto quando ero ormai così stanco che non riuscivo a pensare a niente altro da domandargli. Credevo che tutti quanti conoscessero quell’enigma. Ma quando Peven ha urlato: «Nessun enigma è mai venuto da Hed!» ho saputo che avevo la vittoria in pugno. Non fu un Grande Urlo il suo, ma mi resterà impresso nella mente finché vivrò.

— Kern! — La bocca di Rood si curvò in un lieve sorriso. — Da questa primavera i nobili di An si stanno ponendo due domande sole: chi sposerà Raederle, e qual è l’enigma a cui Peven non è stato capace di rispondere. Re Hagis di An, il nonno di mio padre, morì nella torre di Peven perché non era al corrente di quell’enigma. I nobili di An avrebbero dovuto prestare maggiore attenzione alla tua piccola isola. Adesso lo faranno.

— Proprio così — disse pensosamente il Maestro Ohm, un uomo magro e quieto la cui voce non mutava mai di tono. — Forse, nella storia del reame, si è sempre prestata troppo poca attenzione a Hed. Tuttavia c’è ancora un enigma privo di risposta. Se Peven di Aum ti avesse proposto quello, malgrado la tua notevolissima erudizione oggi non saresti qui.

Morgon lo fissò negli occhi, grigi come la nebbia e incolori quanto la sua voce. — Senza una risposta e un’interpretazione, esso non sarebbe stato valido.

— E se Peven avesse conosciuto la risposta?

— Come poteva conoscerla? Maestro Ohm, voi ci aiutaste nelle ricerche per un intero inverno, il primo anno, quando venni qui per avere una risposta a quell’enigma. Peven ha tratto la sua erudizione dai libri di magia che erano appartenuti a Madir, e prima di lei ai maghi di Lungold. E in tutte le loro opere, che voi avete qui, non c’è neppure un accenno alle tre stelle. Io non saprei dove cercare una risposta. E io non… ma quell’enigma non m’interessa più.

Rood si tese verso di lui. — E questo è l’uomo che ha gettato la sua conoscenza su un piatto della bilancia e la sua vita sull’altro? Guardati dagli enigmi senza risposta!

— La sola è questa: non esiste risposta. E per quel che mi riguarda esso non ha bisogno di una risposta.

Rood ebbe un gesto violento che fece fluttuare la manica della sua toga. — Ogni enigma ha una risposta. Anche tu ti stai nascondendo dietro le sette porte chiuse della tua mente, contadino testardo. Da qui a cento anni, gli studenti col Bianco dei Maestri Inferiori si gratteranno la zucca cercando di rammentare il nome di un oscuro Principe di Hed che, come un altro oscuro Principe di Hed, ignorò la prima e ultima regola dei Maestri degli Enigmi. Credevo che tu avessi più buonsenso.

— Tutto ciò che io voglio — disse pacatamente Morgon, — è andare ad Anuin, sposare Raederle, e poi tornare a casa mia a piantare il grano e a fare la birra e a leggere libri. È così difficile da capire?

— Sì! Perché vuoi chiuderti in questa ottusità? Proprio tu, fra tutti quanti?

— Rood — disse il Maestro Tel con gentilezza. — Tu sai bene che una risposta alle stelle che ha sul volto venne cercata, sospirata, ma non fu mai trovata. Cos’altro vorresti suggerirgli di fare?

— Io suggerisco — disse Rood, — che lui la chieda al Supremo.

Il breve silenzio caduto sui presenti fu rotto dal fruscio della toga del Maestro Ohm, che alzò le mani. — Il Supremo, infatti, dovrebbe conoscere la risposta. Tuttavia presumo che dovrai fornire a Morgon ben altro incentivo che la semplice brama di conoscenza, prima che egli affronti un così lungo e duro viaggio in una terra lontana dalla sua.

— Non ce n’è bisogno. Presto o tardi, lui stesso verrà indotto a recarsi là.

Morgon sospirò. — Vorrei che tu fossi più ragionevole. Io desidero andare ad Anuin, non al Monte Erlenstar. Non voglio proporre altri enigmi a nessuno. Sudare un’intera notte, dal tramonto all’alba, in una torre desolata e putrida, a spremermi il cervello in cerca di domande e di risposte, mi ha tolto per sempre la voglia delle gare e degli enigmi.

Dal volto di Rood era scomparsa ogni traccia di allegria. Lo fissò con durezza. — Questo luogo ti renderà onore, e il Maestro Tel ha detto che ti verrà conferito il Nero oggi stesso, per essere riuscito in ciò che costò la vita perfino al Maestro Laern. Andrai ad Anuin, e i nobili di An, e mio padre e Raederle ti mostreranno quindi il rispetto dovuto alla tua erudizione e al tuo coraggio. Ma se tu accetterai il Nero, sarà un’impostura. E se offrirai la tranquillità di Hed a Raederle, anche questa sarà un’impostura: una promessa che tu non potrai mantenere, perché c’è una domanda a cui non avrai risposto. E allora scoprirai, come Peven, che è l’unico enigma a te sconosciuto, non le migliaia che conosci, quello che ti distruggerà.

— Rood! — protestò Morgon a denti stretti. Le sue mani si contrassero sui braccioli della sedia. — Cosa cerchi di dimostrare? Cosa stai tentando di fare di me?

— Un Maestro… per la tua stessa salvezza. Come puoi essere così cieco? Come puoi ignorare così ostinatamente, delittuosamente, che tutto ciò che hai appreso è vero? Come puoi lasciare che loro ti chiamino Maestro? Come puoi accettare da loro il Nero dei Maestri, quando chiudi gli occhi alla verità?

Morgon sentì il sangue affluirgli alle guance. Rigido, mentre il volto di Rood diveniva all’improvviso l’unico volto nella sala, dichiarò: — Io non ho mai voluto il Nero. Ma pretendo il diritto di fare le mie scelte di vita. Cosa siano queste stelle sulla mia fronte, io non lo so, e neppure voglio saperlo. È questo che volevi farmi ammettere? Tu hai ereditato gli occhi che tuo padre, e Madir, e il cambiaforma Ylon ti hanno dato, ed ora esplori con fredda decisione il tuo personale cammino verso la verità. E quando prenderai il Nero io verrò a festeggiarlo con te. Ma tutto quel che voglio io è la tranquillità.

— La tranquillità — disse gentilmente il Maestro Tel, — non è mai stata una delle tue caratteristiche, Rood. Noi possiamo giudicare Morgon soltanto in base ai nostri princìpi, e secondo questi egli ha meritato il Nero. In quale altro modo potremmo rendergli onore?

Rood si alzò in piedi, poi si sciolse i lacci della toga e la lasciò cadere al suolo, restando mezzo nudo dinnanzi agli sguardi sbalorditi dei Maestri. — Se voi gli darete il Nero, io non indosserò mai più una toga da Maestro!

Un muscolo si contrasse sul volto rigido di Morgon. Si appoggiò indietro alla spalliera, lasciando i braccioli, e la sua voce suonò fredda: — Rimettiti la toga, Rood. Ho dichiarato che non voglio il Nero, e non intendo accettarlo. Occuparsi di enigmi non è cosa per un contadino di Hed. D’altra parte, quale onore potrebbe essere per me indossare la stessa toga che Laern indossava e perse in quella torre, e che adesso è portata da Peven?

Rood raccolse con una mano il suo abito dorato, e si mosse verso la sedia di Morgon. Vi si piegò sopra, appoggiando le mani ai braccioli, mentre il suo volto magro ed esangue fronteggiava quello di lui. Poi sussurrò: — Per favore. Pensaci!

I suoi occhi trattennero quelli di Morgon, così come la tensione del suo corpo immobile sembrava trattenere e congelare il silenzio nel salone. Infine si raddrizzò e si volse, dirigendosi all’uscita. Solo allora le membra di Morgon si rilassarono, come se quello sguardo oscuro le avesse prosciugate di ogni energia. Sentì la porta chiudersi e chinò il capo, passandosi una mano sugli occhi.

— Mi spiace — sussurrò. — Non intendevo dire ciò che ho detto di Laern. Avevo perduto il controllo.

— La verità — mormorò il Maestro Ohm — non ha bisogno di scuse. — I suoi occhi grigio-nebbia, fermi sul volto di Morgon, ebbero un lampo di curiosità. — Neppure un Maestro presume di sapere tutto… salvo che in rari casi, come quello di Laern. Accetterai il Nero? Non c’è dubbio che tu lo meriti e, come ha detto Tel, non abbiamo altro da darti per renderti onore.

Morgon scosse la testa. — Lo vorrei, e vi sono grato. Ma Rood lo ambisce molto più di me. Lui ne farà uso migliore di quanto potrei farne io, e preferisco che sia lui a riceverlo. Mi spiace aver litigato con lui qui… non so bene come sia potuto accadere.

— Parlerò io con lui — promise Tel. — Si è mostrato piuttosto irragionevole, e inutilmente aspro di propositi.

— Ha le visioni di suo padre — disse Ohm. Dopo qualche istante lo sguardo di Morgon si volse su di lui.

— Voi credete che abbia ragione?

— In linea di principio sì. E così anche tu, sebbene tu abbia scelto di non agire… il che, conformemente alla tua etica non certo ben definita, è tuo diritto. Ma io presumo che un viaggio verso la dimora del Supremo non sarebbe inutile come pensi.

— Ma io voglio sposarmi. Perché mai dovrei accollarmi il destino, qualunque esso sia, che secondo Rood è mio dovere caricarmi sulle spalle, a rischio d’esserne schiacciato? Io non vado attorno cercando il mio destino come un vitello smarrito.

Un angolo della bocca sottile del Maestro Ohm s’inarcò appena. — Chi era Ilon di Yrye.

Morgon represse un sospiro. — Ilon era un arpista alla corte di Har di Osterland. Un giorno, con una canzone, offese Har così tremendamente che fuori di sé per la paura decise di fuggire. Da solo si recò sulle montagne, senza portarsi dietro nient’altro che la sua arpa, e là visse in pace, lontano da ogni essere umano, coltivando la terra e suonando il suo strumento. In quella desolazione la sua arpa risuonava così melodiosa che essa divenne la sua voce, e le sue note dicevano le cose che egli non poteva dire rivolgendosi agli animali e agli uccelli di quella terra. E da creatura a creatura la notizia di ciò volò lontano, finché un giorno giunse agli orecchi del Lupo di Osterland, il quale era lo stesso Har, che in quella forma si aggirava nella sua terra. La curiosità lo condusse agli estremi confini del regno, e là egli trovò Ilon, che suonava sull’orlo del mondo. E allora Ilon, quando terminò la canzone e risollevò lo sguardo, dinnanzi a sé ritrovò il terrore da cui aveva voluto fuggire.

— E l’interpretazione?

— L’uomo che fugge la morte deve per prima cosa fuggire da se stesso. Ma non vedo cosa questo abbia a che fare con me. Io non sto fuggendo: semplicemente non sono interessato alla cosa.

L’enigmatico sorriso del Maestro si smorzò un poco. — Allora io ti auguro la pace del tuo disinteresse, Morgon di Hed — disse sottovoce.

Morgon non riuscì a rivedere Rood, sebbene fosse uscito sulle terrazze di roccia prospicienti il mare e lo avesse cercato in tutta la collina per metà del pomeriggio. Cenò alla mensa coi Maestri, e quando più tardi uscì nella fresca brezza del tramonto incontrò l’arpista del Supremo che risaliva lungo la strada.

Deth si fermò davanti a lui. — Mi sembri preoccupato.

— Non sono riuscito a trovare Rood. Dev’essere andato giù a Caithnard. — Si passò una mano fra i capelli in uno dei suoi rari gesti di sconforto, poi s’appoggiò con le spalle al tronco di una quercia. Sopra uno dei suoi sopraccigli luccicavano tre stelle, mute nella penombra serotina. — Abbiamo avuto una discussione; neanche adesso sono certo di sapere precisamente su che cosa. Vorrei che venisse con me ad Anuin, ma adesso si sta facendo tardi e ancora non so cosa intenda fare.

— Dovremmo imbarcarci.

— Lo so. La marea non aspetta, e se tardiamo la nave salperà senza di noi. Probabilmente è ubriaco in qualche taverna, senza nient’altro addosso che i suoi stivali. Forse preferirebbe vedermi intraprendere un lungo viaggio verso il Supremo, piuttosto che sposato con Raederle. E può darsi che abbia ragione. Lei non si adatterebbe mai a Hed, ed è questa consapevolezza che lo abbatte. Forse dovrei andar giù anch’io e ubriacarmi con lui, e poi tornarmene a casa. Non lo so. — Notò l’espressione paziente e vagamente perplessa dell’arpista, e sospirò. — Vado a prendere la mia sacca.

— Prima di partire devo parlare un momento al Maestro Ohm. Certo che, fra tutti, sicuramente Rood ti avrebbe detto chiaramente ciò che pensa di questo matrimonio.

Con un colpo di spalla Morgon si scostò dall’albero. — Suppongo che sia così — disse tristemente. — Ma non capisco perché abbia voluto mettermi tutto a un tratto sottosopra a questo modo.

Recuperò la sua sacca dal caos della stanza di Rood, e poi scese a salutare i Maestri. Il cielo si stava già riempiendo di ombre quando lui e l’arpista s’incamminarono sulla lunga strada che scendeva in città, e sulla cima dei due promontori fra cui era chiusa la baia brillavano i fuochi di segnalazione. Le piccole luci delle taverne e delle case disegnavano un firmamento di stelle sulla costa immersa nel buio. La marea saliva con onde che sciabordavano sulle scogliere, e la brezza marina soffiava sempre più forte portando l’odore di salmastro fin sui colli. Quando i due salirono a bordo il vascello dei mercanti ondeggiava vistosamente nelle acque fonde del bacino, e il vento teso faceva svolazzare una piccola vela, lasciata sciolta, come un fantasma sotto la luna. La nave salpò l’ancora. In piedi sulla poppa, Morgon restò a fissare le luci del porto finché palpitarono sulla scura distesa di onde e svanirono.

— Saremo ad Anuin domani pomeriggio, vento permettendo — gli disse un mercante dall’aria affabile, la cui barba rossiccia era tagliata da una cicatrice verticale sulla mandibola. — Potete dormire sul ponte o sottocoperta, come preferite. Piuttosto che coi cavalli che abbiamo impastoiato nella stiva, starete meglio qui al vento. E c’è un bel po’ di pelli delle vostre pecore, con cui potrete tenervi caldo.

— Grazie — rispose Morgon. Sedette su un rotolo di canapi, con un braccio sulla spalletta, e osservò la pallida scia che si incurvava in risposta al lento giro di barra del timoniere. I suoi pensieri scivolarono su Rood. Riprese i capi del loro litigio fin dal suo inizio, cercò di ricostruire la discussione, si confuse, ricominciò daccapo. Il vento gli portava le parole dei marinai intenti alla manovra, mescolandole alle voci dei mercanti che chiacchieravano delle loro merci. L’albero e i pennoni scricchiolavano sotto la spinta della velatura; la nave, appesantita dal carico ma ben bilanciata, tagliava con un beccheggio ritmico e facile le onde lunghe degli alti fondali. Il freddo vento dell’est cominciò a intorpidire le guance di Morgon, che cullato dall’ondeggiare dello scafo e dai cigolii poggiò la testa sulle braccia incrociate e chiuse gli occhi. Stava dormendo quando il vascello si scosse come se i dodici venti l’avessero assalito tutti insieme, e destandosi bruscamente sentì il frenetico cigolio del timone incustodito che girava a vuoto.

Si alzò in piedi, e il grido d’avvertimento che stava gettando gli morì in gola nell’accorgersi che il ponte era deserto. Con le vele gonfie di vento in tempesta la nave s’ingavonò a dritta, scaraventandolo contro la murata. Per restare in equilibrio dovette fare uno sforzo disperato, e imprecò. La cabina di poppa, dove i mercanti avevano acceso lampade per lavorare sui loro libri maestri, era al buio. Il vento ululava sforzando oltre ogni limite di sicurezza la velatura, e quando la nave s’ingavonò di nuovo Morgon fu investito da un’ondata che lo inzuppò da capo a piedi. Si aggrappò all’albero, a denti stretti, così sbigottito da non avvertire neppure i gelidi spruzzi che gli frustavano la faccia.

Da lì a poco vide che il boccaporto si sollevava a fatica, lottando contro la spinta del vento, e nella scarsa luce lunare riconobbe i capelli argentei della testa che ne sbucò. Si mosse in quella direzione, accecato dal salmastro e aggrappandosi a tutto ciò che si trovava fra le mani. Per farsi udire dovette gridare due volte.

— Cosa diavolo stanno combinando, là sotto?

— Nella stiva non c’è nessuno — disse Deth. Morgon lo fissò esterrefatto, incapace di dare un senso a quelle parole.

— Cosa?

Seduto sul bordo del boccaporto, Deth allungò una mano ad afferrargli un braccio. Qualcosa in quella stretta, e nello sguardo cupo che l’uomo girò sul ponte, mozzò il fiato in gola a Morgon.

— Deth…

— Sì. — L’arpista sistemò più saldamente la tracolla del suo strumento musicale.

— Deth, dove sono i mercanti e l’equipaggio? È impossibile che siano… spariti come schiuma al vento. Loro… che fine hanno fatto? Sono caduti fuori bordo?

— Se pure sono scomparsi, prima di farlo hanno pensato bene di lasciarci alle prese con tutta la velatura spiegata.

— Dobbiamo ammainare le vele!

— Credo proprio — disse Deth, — che non ne avremo il tempo. — In quello stesso istante lo scafo sussultò rigidamente dal basso in alto, facendoli cadere all’indietro. Nella stiva i cavalli nitrirono terrorizzati. Il ponte stesso parve inarcarsi sotto di loro, come se si stesse squarciando; una gomena schioccò sopra la testa di Morgon cadendo sul tavolato; il fasciame gemette e ci fu lo schianto delle assi che si spezzavano. La voce di lui suonò stridula per l’emozione:

— Siamo fermi! In mare aperto, e siamo fermi!

Alle sue spalle un’ondata aggredì il ponte e sciabordò nel boccaporto spalancato; la nave s’inclinò su un fianco. Deth si allungò ad afferrare Morgon che stava scivolando attraverso il ponte; un altro cavallone li ricoperse entrambi, ed egli si sentì soffocare dall’amara acqua salmastra che gli aveva chiuso la gola. Sputacchiando si tirò in piedi, tenne con forza Deth per un polso, ed allorché si trovò davanti l’albero vi si aggrappò circondandolo con le braccia. Col volto schiacciato contro quello dell’arpista e i piedi che slittavano sul ponte inclinato, gridò raucamente:

— Chi era quella gente?

Ma se l’arpista gli diede una risposta, egli non riuscì a sentirla. La figura di Deth venne sommersa dalla schiuma di un’ondata; l’albero si stroncò con uno schiocco che vibrò fin nelle ossa di Morgon; poi le vele lacere appesantite dal sartiame e da un pennone piombarono su di lui, con un colpo che lo strappò via dal suo sostegno e lo scaraventò in mare come un fuscello.

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