2 Vortici nel Disegno

Nell’entroterra soffiava il caldo vento notturno verso nord attraverso l’ampio delta chiamato le Dita del Drago, un labirinto sinuoso di corsi d’acqua, ampi e stretti, alcuni ostruiti da erbacoltello. Ampie pianure di canne separavano gruppi di isole basse coperte da foreste di alberi dalle radici intricate che non si vedevano da nessun’altra parte. Quindi il delta cedeva il posto alla propria sorgente, il fiume Erinin, la parte più ampia punteggiata dalle luci delle lanterne dei piccoli pescherecci. Imbarcazioni e luci sobbalzarono selvaggiamente, di colpo e inaspettatamente e alcuni anziani borbottarono di malefiche entità notturne. I giovani risero, ma issarono le reti con maggior vigore, impazienti di andare a casa ed essere fuori dall’oscurità. Le storie narravano che il male non poteva varcare la soglia di casa a meno che non lo si invitava a entrare. Questo era quanto sostenevano le storie. Ma qui al buio...

L’ultima traccia di sale nell’aria era svanita quando il vento aveva raggiunto la grande città di Tear vicino al fiume, dove le locande dal tetto di tegole e i negozi si trovavano accanto ad alti palazzi con le torri, splendenti alla luce della luna. Eppure nessun palazzo era alto come la massiccia costruzione, quasi una montagna, che si estendeva dal cuore della città ai margini dell’acqua. La Pietra di Tear, fortezza leggendaria, la più antica roccaforte del genere umano, eretta durante gli ultimi giorni della Frattura del Mondo. Mentre nazioni e imperi sorgevano e cadevano, venivano rimpiazzati e cadevano nuovamente, la Pietra resisteva. Era la pietra sulla quale gli eserciti avevano spezzato lance, spade e cuori, per tremila anni. E in tutto quel tempo non era mai caduta nella mani degli invasori. Sino a ora.

Le vie della città, le taverne e le locande erano vuote nell’afosa oscurità, la gente stava al sicuro in casa. Chi occupava la Pietra era signore di Tear, città e nazione. Era sempre stato così, e la gente di Tear lo accettava. Il giorno seguente avrebbero acclamato il nuovo signore con lo stesso entusiasmo con cui avevano acclamato il vecchio; a sera si sarebbero riuniti, rabbrividendo malgrado il caldo, con il vento che ululava sui tetti come migliaia di persone che recitano un lamento funebre. Insolite nuove speranze danzavano nelle loro teste, speranze che nessuno in Tear aveva osato esprimere per centinaia di generazioni, miste a paure antiche come la Frattura.

Il vento sferzava la lunga bandiera bianca e sembrava che cercasse di strappare la luna che splendeva sopra la Pietra. Per tutta la lunghezza della bandiera marciava una figura sinuosa, come un serpente munito di zampe, con una criniera d’oro leonina e le scaglie rosse e oro, che sembrava cavalcare il vento. La bandiera delle profezie, desiderata e temuta. La bandiera del Drago. Il Drago Rinato. Foriera della salvezza del mondo, messaggera di una nuova Frattura. Come oltraggiato da un simile disprezzo, il vento si scagliò contro le dure pareti della Pietra. La bandiera del Drago garrì, incurante nella notte, in attesa della tempesta più potente.

In una stanza nel lato meridionale della Pietra, seduto su una cassapanca ai piedi del letto a baldacchino, Perrin guardava la giovane donna dai capelli scuri camminare avanti e indietro. Nei suoi occhi dorati c’era una traccia di cautela. Di solito Faile lo prendeva in giro, facendo accenni graziosamente divertiti alle sue maniere ponderate; stasera non aveva detto dieci parole da quando aveva oltrepassato quella porta. Perrin poteva fiutare i petali di rosa che erano stati ripiegati fra gli indumenti della ragazza dopo che erano stati lavati e quel profumo che apparteneva solo a lei. E nell’accenno di pulita traspirazione, fiutava nervosismo. Faile non era quasi mai nervosa. Si chiedeva perché adesso la ragazza gli provocasse un prurito in mezzo alle scapole che non aveva niente a che vedere con il calore della sera. La stretta gonna divisa faceva un delicato fruscio mentre camminava.

Perrin si grattò irritato la barba lunga di due settimane. Era anche più riccia dei capelli e teneva caldo. Per la centesima volta pensò di radersi.

«Ti dona» osservò all’improvviso Faile, fermandosi.

Perrin, a disagio, si strinse nelle spalle appesantite dalle lunghe ore di lavoro alla forgia. A volte la ragazza sembrava sapere cosa Perrin pensava. «Mi prude» borbottò, e desiderò di aver parlato con maggior vigore. Era la sua barba; poteva raderla in qualsiasi momento.

Faile lo studiò, con la testa inclinata da un lato. Il naso forte e gli zigomi alti la facevano apparire selvaggia, in contrasto con la voce delicata con la quale stava dicendo: «Ti sta bene.»

Perrin sospirò, e si strinse nuovamente nelle spalle. Non gli aveva chiesto di tenere la barba, e non lo avrebbe fatto. Eppure Perrin sapeva che non si sarebbe rasato. Si chiese come Mat avrebbe gestito la situazione. Probabilmente con un pizzicotto, un bacio e qualche osservazione che l’avrebbe fatta ridere fino a quando non l’avrebbe convinta. Ma Perrin sapeva di non avere i modi di Mat con le ragazze. Mat non si sarebbe mai ritrovato a sudare dietro una barba perché una donna pensava che doveva avere i peli sul viso. A meno che la donna non fosse Faile. Perrin sospettava che il padre doveva rimpiangere molto la sua partenza da casa, e non solo perché era sua figlia. Era il più grande commerciante di pellicce della Saldea, così sosteneva la ragazza, e a Perrin pareva di vederla ottenere ogni volta il prezzo che voleva.

«Qualcosa ti sta preoccupando, Faile, e non è la mia barba. Di cosa si tratta?»

L’espressione della ragazza si fece attenta. Guardò da tutte le parti, tranne che verso di lui, eseguendo una panoramica altezzosa dell’arredamento.

Leoni e leopardi intagliati, falchi in picchiata e scene di caccia decoravano tutto, dall’alto guardaroba alle colonne del letto spesse come una gamba, fino alla panca imbottita davanti al freddo camino di marmo. Alcuni degli animali avevano gli occhi di granato.

Perrin aveva cercato di convincere la majhere che voleva una stanza semplice, ma non sembrava che la donna avesse capito. Non che fosse stupida o lenta. La majhere comandava un reggimento di servitori in numero maggiore dei difensori della Pietra; chiunque comandasse la Pietra, chiunque governasse le mura, lei controllava le attività quotidiane che facevano funzionare il tutto. Ma la donna guardava il mondo attraverso occhi tarenesi. Malgrado l’abbigliamento, lui doveva essere più che il giovane contadino che sembrava, perché la gente comune non veniva mai alloggiata nella Pietra, tranne i difensori e i servitori, naturalmente. Oltre a questo, apparteneva al gruppo di Rand, era un amico o un seguace o comunque vicino al Drago Rinato. Per la majhere, ciò equivaleva a porlo almeno al livello di un Signore della Terra, se non di un Sommo signore. Si era decisamente scandalizzata della stanza senza nemmeno un soggiorno; Perrin credeva che sarebbe svenuta se avesse insistito per averne una ancora più semplice. Se ne esisteva una simile oltre agli alloggi dei servitori o dei difensori. Almeno lì d’oro c’erano solo i candelabri.

Ma l’opinione di Faile era differente. «Dovresti avere qualcosa di meglio. Lo meriti. Puoi scommetterci l’ultimo centesimo che Mat ha qualcosa di meglio.»

«A Mat piacciono le cose sgargianti» rispose semplicemente.

«Tu non difendi i tuoi principi.»

Perrin non commentò. Non era la sua stanza che la faceva odorare di disagio, non più della barba.

Dopo un momento, la ragazza aggiunse: «Il lord Drago sembra avere perso interesse per te. Tutto il suo tempo adesso è impegnato per i Sommi signori.»

Il prurito fra le scapole si acuì; ora sapeva cosa la preoccupava. Cercò di assumere una voce spensierata. «Il Lord Drago? Parli come una di Tairen. Si chiama Rand.»

«È tuo amico, Perrin Aybara, non mio. Se un uomo come quello può avere amici.» Fece un respiro profondo e proseguì con un tono più moderato. «Ho pensato di lasciare la Pietra. Andare via da Tear. Non credo che Moiraine mi fermerebbe. Notizie di... di Rand hanno lasciato la città ormai da due settimane. Non può pensare di tenerlo nascosto più a lungo.»

Perrin trattenne un altro sospiro. «Nemmeno io credo che lo farà. In realtà penso che ti consideri una complicazione. Probabilmente ti offrirà del denaro per mandarti via.»

Faile piantò le mani sui fianchi e si mosse per fissarlo dall’alto in basso. «È tutto quello che hai dai dire?»

«Cosa vuoi che dica? Che voglio che resti?» La rabbia nella propria voce lo stupì. Era arrabbiato con se stesso, non con lei. Perché non lo aveva previsto, perché non sapeva come gestirlo. Gli piaceva essere in grado di ponderare sulle cose. Era facile offendere le persone senza volerlo quando eri troppo precipitoso. Lo aveva appena fatto. Gli occhi scuri di Faile erano sgranati per lo stupore. Perrin cercò di addolcire le parole. «Voglio che resti, Faile, ma forse dovresti andare via. Lo so che non sei una vigliacca, ma il Drago Rinato, i Reietti...» Non che altrove fosse davvero sicuro — ormai non per molto — eppure c’erano posti più sicuri della Pietra. Almeno per un po’. Non che lui sarebbe stato così stupido da dirglielo.

Ma non sembrava che a lei importasse come lui la metteva. «Rimanere? Che la Luce mi illumini! Qualsiasi cosa è meglio che starsene qui seduta come una roccia, ma...» si inginocchiò graziosamente davanti a lui, appoggiandogli le mani sulle ginocchia. «Perrin. Non mi piace chiedermi quando uno dei Reietti mi sbucherà di fronte da dietro un angolo, e non mi piace chiedermi quando il Drago Rinato ci ucciderà tutti. Dopotutto lo fece già durante la Frattura. Uccise tutti quelli che gli erano vicini.»

«Rand non è Lews Therin Kinslayer» protestò Perrin. «Voglio dire, è il Drago Rinato, ma non è... non farebbe...» Perrin lasciò cadere la frase, non sapendo come finirla. Rand era Lews Therin Telamon rinato; questo significava essere il Drago Rinato. Ma significava anche avere la stessa sorte di Lews Therin? Non solo impazzire — ogni uomo capace di incanalare aveva quella prospettiva davanti a sé, quindi la morte per decomposizione — ma anche uccidere tutti quelli che gli volevano bene?

«Ho parlato con Bain e Chiad, Perrin.»

Non fu una sorpresa. Faile trascorreva molto tempo con le donne aiel. Quell’amicizia le creava qualche difficoltà, ma sembrava che le donne aiel le piacessero così tanto che disdegnava le nobildonne di Tairen. Perrin però non vedeva il legame con ciò di cui stavano parlando, e lo disse.

«Dicono che Moiraine a volte chiede loro dove sei. O dov’è Mat. Non capisci? Non lo farebbe se potesse controllarti con il Potere.»

«Controllarmi con il Potere?» ripeté piano. Non lo aveva mai considerato.

«Non può. Vieni con me, Perrin. Poteremmo trovarci trenta chilometri al di là del fiume, prima che se ne accorga.»

«Non posso» rispose miseramente. Cercò di distoglierla con un bacio, ma la ragazza balzò indietro e arretrò così rapidamente che Perrin quasi cadde a faccia avanti. Non aveva senso seguirla. Aveva le braccia incrociate sotto al petto come una barriera.

«Non dirmi che hai così tanta paura di lei. So che è un’Aes Sedai e vi sta facendo ballare tutti ogni volta che tira i fili. Forse ha il... Rand... legato così stretto che non può liberarsi, e la Luce sa che Egwene, Elayne e anche Nynaeve non vogliono, ma se vuoi, tu puoi spezzare le sue corde.»

«Non ha niente a che vedere con Moiraine. È ciò che devo fare. Devo...»

Faile lo interruppe. «Non osare propinarmi tutte quelle ciance maschili su l’uomo che deve compiere il suo dovere. Conosco il dovere bene quanto te, e tu qui non ne hai. Potrai anche essere ta’veren, anche se non lo vedo, ma lui è il Drago Rinato, non tu.»

«Vuoi ascoltare?» gridò furioso, e la ragazza sobbalzò. Non aveva mai gridato con lei prima d’ora, non a quel modo. Faile sollevò il mento e spostò le spalle, ma non disse nulla. Perrin proseguì. «Credo di essere parte del destino di Rand, in qualche modo. Anche Mat. Penso che non possa fare quello che deve a meno che non compiamo la nostra parte. Questo è il dovere. Come posso andarmene se ciò potrebbe significare il fallimento di Rand?»

«Potrebbe?» C’era un accenno di domanda nella voce di Faile, ma solo un accenno. Perrin si chiese se sarebbe riuscito a gridare con lei più spesso. «Te l’ha detto Moiraine? Ormai dovresti sapere che devi ascoltare attentamente cosa ti dice un’Aes Sedai.»

«L’ho concluso da solo. Penso che i ta’veren sono attratti uno verso l’altro. O forse è Rand che attira me e Mat. In teoria Rand dovrebbe essere il più forte ta’veren dopo Artur Hawkwing, forse fin dalla Frattura. Mat non vuole nemmeno ammettere di essere ta’veren, ma comunque provi ad allontanarsi, finisce sempre di nuovo con Rand. Loial mi ha detto di non aver mai sentito di tre ta’veren della stessa età e tutti provenienti dallo stesso posto.»

Faile tirò su con il naso sonoramente. «Loial non sa tutto. Non è molto vecchio per la razza ogier.»

«Ha più di novant’anni» puntualizzò Perrin sulla difensiva, e Faile gli rispose con un sorriso teso. Per un Ogier novanta anni significava non molto più grande di Perrin. Forse più giovane. Non sapeva molto degli Ogier. In ogni caso, Loial aveva letto più libri di quanti Perrin ne avesse visti o di cui avesse sentito parlare; a volte pensava che Loial avesse letto ogni libro che fosse stato stampato. «E sa più di quanto ne sappiamo tu o io. Crede che possa avere ragione. Come anche Moiraine. No, non glielo ho chiesto, ma per quale altro motivo mi controlla? Pensi che voglia che le costruisca un coltello da cucina?»

Faile rimase in silenzio per un momento, e quando parlò, lo fece con tono comprensivo. «Povero Perrin. Io ho lasciato la Saldea per trovare l’avventura, e adesso che mi ci trovo in pieno, nella più grande dai tempi della Frattura, tutto quello che voglio fare è andare altrove. Tu vuoi solo essere un fabbro, e finirai nelle storie, che tu lo voglia o no.»

Perrin distolse lo sguardo, anche se il profumo di Faile ancora gli riempiva la testa. Non credeva che ci sarebbero state storie su di lui, a meno che il suo segreto non si diffondesse ben oltre i pochi che già ne erano al corrente. Faile pensava di sapere tutto ciò che lo riguardava, ma si sbagliava.

Un’ascia e un martello erano appoggiati contro la parete di fronte, entrambi semplici e funzionali, con il manico lungo quanto il suo avambraccio. L’ascia era un’atroce lama a mezzaluna bilanciata da uno spesso puntale, creata per la violenza. Con il martello poteva creare oggetti; ne aveva creati, alla fucina. Il martello pesava più del doppio dell’ascia, ma era la seconda che sembrava più pesante ogni volta che la prendeva in mano. Con l’ascia aveva... si accigliò, non voleva pensarci. Faile aveva ragione. Tutto ciò che voleva era essere un fabbro, andare a casa, vedere nuovamente la sua famiglia e lavorare alla fucina. Ma non sarebbe accaduto; lo sapeva.

Si alzò per raccogliere il martello, quindi si sedette nuovamente. Impugnarlo gli dava una sensazione confortante. «Mastro Luhan dice sempre che non puoi allontanarti da ciò che dev’essere fatto.» Sì sbrigò a chiudere la frase perché si era accorto che era un po’ troppo vicino a ciò che Faile aveva chiamato ciance maschili. «È il fabbro giù a casa, l’uomo da cui ero apprendista. Te ne ho parlato.»

Con sorpresa di Perrin, Faile non colse l’opportunità di riprenderlo. Non disse nulla. Si limitò a guardarlo, aspettando qualcosa. Dopo un momento gli venne in mente.

«Allora stai andando via?»

Faile si alzò sistemandosi la gonna. Rimase a lungo in silenzio, come se stesse ponderando la risposta. «Non lo so» disse alla fine. «Mi hai infilata in un bel caos.»

«Io? Che cosa ho fatto?»

«Be’, se non lo sai, non sarò di certo io a dirtelo.»

Grattandosi la barba fissò il martello nell’altra mano. Probabilmente Mat sapeva con certezza cosa intendeva. O anche il vecchio Thom Merrilin. Il menestrello dai capelli bianchi dichiarava che nessuno capiva le donne, ma quando era uscito dalla sua piccola stanza nel cuore della Pietra, si era ritrovato immediatamente con una mezza dozzina di ragazze, abbastanza giovani da poter essere sue nipoti, che sospiravano e lo ascoltavano suonare l’arpa, mentre raccontava grandi avventure e storie romantiche. Faile era la sola donna che Perrin voleva, ma a volte si sentiva come un pesce che cercava di capire un uccello.

Sapeva che Faile voleva che lui le facesse qualche domanda. Questo lo sapeva. Poi lei poteva o meno rispondere, ma lui doveva chiedere. Ostinatamente tenne la bocca chiusa. Stavolta intendeva aspettare che parlasse lei per prima.

Fuori nell’oscurità un gallo cantò.

Faile rabbrividì e si strinse nelle spalle. «La mia nutrice usava raccontarmi che significa una morte imminente. Non che io ci creda, naturalmente.»

Perrin aprì la bocca per concordare che era una sciocchezza, ma anche lui rabbrividì e voltò la testa nell’udire un rumore graffiante e un tonfo. L’ascia era caduta in terra. Ebbe solo il tempo di aggrottare le sopracciglia, chiedendosi cosa poteva averla fatta cadere, quando si mosse nuovamente, quindi guizzò verso di lui.

Roteò il martello senza pensarci. Il rumore del metallo contro il metallo soffocò le grida di Faile. L’ascia volò attraverso la stanza, rimbalzò sulla parete più distante e sfrecciò nuovamente verso Perrin, con la lama in avanti. Perrin credette che ogni pelo del corpo cercasse di rizzarsi.

Quando l’ascia prese velocità e le passò accanto, Faile balzò in avanti e afferrò il manico con entrambe le mani. L’arma si divincolò nella sua presa, lanciando fendenti verso il viso dagli occhi sgranati della ragazza. Perrin scattò appena in tempo, lasciando cadere il martello per afferrare l’ascia, solo per tenere lontana la lama a mezzaluna dalla carne della ragazza. Pensò che sarebbe morto se l’ascia — la sua ascia — avesse fatto del male alla ragazza. La strappò con tale forza che il grosso puntale quasi gli si conficcò nel petto. Sarebbe stato uno scambio equo per impedire all’ascia di farle del male, ma con un sentimento di crescente tristezza pensò che forse non era possibile.

L’arma si dibatteva come un essere vivente, con una volontà maligna. Voleva Perrin — lo sapeva come se glielo avesse gridato — e combatteva con astuzia. Quando tirò via l’ascia, lontano da Faile, sfruttò il suo stesso movimento per accettarlo; quando Perrin la portò a forza davanti a sé, l’arma cercò nuovamente di raggiungere Faile, come se sapesse che lo avrebbe fatto smettere di spingere. Non importava con quanta forza Perrin impugnasse il manico, questo gli roteava fra le mani, minacciandolo con il puntale o con la lama. Le mani già gli dolevano per lo sforzo, e le robuste braccia erano distorte, i muscoli tesi. Il sudore gli grondava sul viso. Non era certo di quanto tempo sarebbe trascorso prima che l’ascia si liberasse dalla sua presa. Questa era una follia, pazzia pura, senza tempo per pensare.

«Esci» mormorò a denti stretti. «Esci dalla stanza, Faile!»

Il volto della ragazza era pallidissimo, ma scosse il capo e combatté l’ascia. «No! Non ti lascerò!»

«Ci ucciderà entrambi!»

Faile scosse nuovamente il capo.

Ruggendo gutturalmente lasciò la presa con una mano — il braccio gli tremò nello sforzo di impugnare l’arma solo con l’altra; l’attrito della rotazione gli aveva ustionato il palmo — e spinse lontano Faile, che gridava mentre Perrin la conduceva a forza verso la porta. Ignorando le sue grida e i pugni contro di lui, la pressò contro la parete con una spalla fino a quando riuscì ad aprire la porta e a spingerla nel corridoio.

Sbatté la porta alle spalle della donna e vi poggiò contro la schiena, rimettendo il chiavistello con un fianco mentre impugnava nuovamente l’ascia con entrambe le mani. La lama pesante, rilucente e affilata, tremò a pochi centimetri dal viso di Perrin. A fatica, la spinse lontano alla distanza di un braccio. Le grida sorde di Faile passavano dalla porta spessa e poteva anche sentirla battere contro di essa, ma era appena consapevole della presenza della ragazza. Gli occhi gialli sembravano risplendere, come se riflettessero ogni minimo barlume di luce della stanza.

«Adesso siamo solo io e te» ringhiò contro l’ascia. «Sangue e ceneri, come ti odio!» Interiormente una parte di lui scoppiò quasi in una risata isterica. È Rand quello che in teoria dovrebbe impazzire, mentre eccomi che parlo con un’ascia! Rand! Che tu sia folgorato! pensò.

Con i denti snudati per lo sforzo, sentì l’arma vibrare, lottando per raggiungere la carne; Perrin poteva quasi assaporare la sete che aveva l’arma del suo sangue. Con un ruggito tirò di colpo la lama verso di sé, e si lanciò indietro. Se l’ascia fosse stata davvero un essere vivente, era certo che avrebbe sentito un grido di vittoria mentre gli sfrecciava verso la testa. All’ultimo momento si contorse, guidando l’ascia oltre se stesso. Con un forte tonfo l’arma si conficcò nella porta.

Sentì la vita — non sapeva come altro chiamarla — uscire dall’arma imprigionata. Lentamente rilasciò la presa. L’ascia rimase dov’era, di nuovo solamente legno e acciaio. La porta per il momento sembrava un buon posto dove lasciarla. Si asciugò il sudore dal viso con la mano tremante. Follia. La follia cammina dove si trova Rand, pensò.

Di colpo si accorse che non sentiva più le grida di Faile, o i pugni sull’uscio. Allentò il catenaccio e aprì velocemente la porta. Un arco di metallo rilucente spuntava dal legno spesso nella parte esterna, alla luce di lampade ampiamente spaziate fra loro tra gli arazzi che pendevano sulle pareti. Faile era là in piedi, con le mani sollevate, immobile nell’atto di bussare alla porta. Con gli occhi sgranati e pensierosi, si toccò la punta del naso. «Un altro centimetro» osservò a bassa voce «e...»

Con uno scatto improvviso si lanciò fra le braccia di Perrin, stringendolo fieramente, coprendolo di baci sul collo e sulla barba fra mormorii incoerenti. Con la stessa rapidità si tirò indietro, facendo scorrere le mani ansiose sul torace e sulle braccia di Perrin. «Ti sei fatto male? Sei ferito? Ti ha...»

«Sto bene» le rispose. «Come stai tu? Non intendevo spaventarti.»

La ragazza lo fissò. «Davvero? Non sei ferito in nessun modo?»

«No. Io...» Lo schiaffo che Faile gli diede con tutta la sua forza gli fece rimbombare la testa come il martello sull’incudine.

«Tu, grosso bue peloso! Pensavo fossi morto! Avevo paura che ti avesse ucciso! Pensavo...» Si interruppe mentre Perrin bloccava il secondo schiaffo a metà percorso.

«Per favore, non farlo di nuovo» mormorò. L’impronta della mano di Faile gli bruciava sulla guancia, e pensava che la mascella gli avrebbe fatto male per il resto della notte.

La prese per il polso con la stessa gentilezza con cui avrebbe preso un uccellino, e anche se la ragazza si dibatteva per liberarsi, la mano non si mosse di un centimetro. In confronto con il martello maneggiato tutto il giorno nella fucina trattenerla non comportava alcuno sforzo per Perrin, anche dopo la lotta contro l’ascia. Di colpo Faile decise di ignorare la presa di Perrin e lo fissò negli occhi; né quelli neri né quelli dorati baluginarono. «Avrei potuto aiutarti. Non avevi il diritto...»

«Avevo ogni diritto» le rispose con fermezza. «Non avresti potuto aiutarmi. Se fossi rimasta, saremmo morti entrambi. Non avrei potuto lottare — non come dovevo — e allo stesso tempo tenerti in salvo.»

Faile aprì la bocca, ma Perrin alzò la voce e proseguì. «So che odi quella parola. Farò del mio meglio per non trattarti come una porcellana, ma se mi chiedi di guardarti morire, ti legherò come un abbacchio per il mercato e ti manderò da comare Luhan. Non tollererà una tale insensatezza.»

Toccò un dente con la lingua per sentire se si muoveva, e desiderò quasi di vedere Faile cercare di avere la meglio su comare Luhan. La moglie del fabbro teneva il marito sotto controllo con uno sforzo appena maggiore di quello che le serviva per la casa. Anche Nynaeve teneva a freno la lingua affilata quando era nelle vicinanze di comare Luhan. Il dente era ancora ben saldo.

Faile rise di colpo, una bassa risata gutturale. «Lo faresti, vero? Però non credere che non ti ritroveresti a ballare con il Tenebroso se ci provassi.»

Perrin fu così sorpreso che la lasciò andare. Non riusciva a vedere nessuna grande differenza fra ciò che aveva appena detto e quanto aveva menzionato un attimo prima, ma quello l’aveva fatta infuriare, mentre questo l’aveva preso... teneramente. Non che fosse certo che la minaccia di ucciderlo fosse interamente uno scherzo. Faile aveva dei pugnali nascosti addosso e sapeva come usarli.

Si strofinò i polsi ostentatamente e mormorò qualcosa fra i denti. Colse le parole «bue peloso» e Perrin si ripromise di eliminare ogni pelo di quella stupida barba. Lo avrebbe fatto.

Faile disse ad alta voce: «L’ascia. Era lui, vero? Il Drago Rinato che tentava di ucciderci.»

«Dev’essere stato Rand.» Perrin pose particolare enfasi sul nome. Non gli piaceva pensare all’amico in quell’altro modo. Preferiva ricordare il ragazzo con cui era cresciuto a Emond’s Field.

«Però non cercava di ucciderci. Non lui.»

Faile gli rivolse un sorriso sarcastico, più simile a una smorfia. «Se non ci stava provando, spero non lo faccia mai.»

«Non so cosa stesse facendo. Ma intendo dirgli di fermarsi, e subito.»

«Non so perché mi interessa un uomo che si preoccupa così poco della propria salvezza» mormorò Faile.

Perrin aggrottò le sopracciglia perplesso, chiedendosi cosa intendesse, ma la ragazza si limitò a prenderlo sottobraccio. Perrin stava ancora meditando quando incominciarono ad attraversare la Pietra. L’ascia era rimasta dov’era; incastrata nella porta, dove non avrebbe fatto del male a nessuno.

Con i denti stretti sul cannello lungo di una pipa, Mat aprì un po’ di più la giubba e provò a concentrarsi sulle carte rivolte a faccia in giù davanti a lui e sulle monete sparpagliate in mezzo al tavolo. Si era fatto fare la giacca rossa su modello andorano, della lana migliore, con ricami dorati attorno ai polsini e lungo il colletto, ma giorno dopo giorno il clima gli rammentava quanto Tear fosse molto più a sud di Andor. Il sudore gli grondava dal viso e gli incollava la camicia alla schiena.

Nessuno dei compagni attorno al tavolo sembrava notare il calore, malgrado giubbe che sembravano anche più pesanti della sua, con grosse maniche rigonfie, tutte di seta imbottita, broccato e bande di raso. Due uomini con la livrea rossa e oro mantenevano piene di vino le coppe d’argento dei giocatori e porgevano luccicanti vassoi d’argento con olive, formaggio e noci. Il caldo non sembrava disturbare nemmeno i servitori, anche se di tanto in tanto uno di loro sbadigliava, quando pensava che nessuno stesse guardando. La notte non era giovane.

Mat si trattenne dal sollevare le carte per guardarle nuovamente. Non sarebbero state diverse. Tre governatori, le carte più alte, tre carte su cinque dello stesso seme, erano già abbastanza per vincere molte mani. Sarebbe stato maggiormente a suo agio giocando a dadi; di rado riusciva a trovare un mazzo di carte nei posti dove di solito scommetteva, luoghi dove l’argento cambiava di mano in cinquanta diverse partite di dadi, ma questi giovani lord tarenesi avrebbero preferito indossare stracci piuttosto che giocare a dadi. I paesani giocavano a dadi, anche se lo dicevano a bassa voce. Questi lord non temevano il suo carattere ma chi pensavano fossero suoi amici. Il ‘taglio’ era ciò che giocavano, ora dopo ora, notte dopo notte, usando carte dipinte a mano e laccate da un uomo nella città che si era arricchito grazie a tipi come questi e altri simili. Solo donne o cavalli potevano trascinarli via, ma nessuno dei due per molto.

Mat però aveva imparato velocemente questo gioco e se la fortuna non era buona come con i dadi, sarebbe comunque andata bene. Un sacchetto rigonfio era appoggiato vicino alle sue carte e un altro, anche più gonfio, lo aveva in tasca. Una fortuna, avrebbe pensato una volta a Emond’s Field, sufficiente per vivere il resto dei suoi giorni nel lusso. Le idee riguardo al lusso le aveva cambiate da quando aveva lasciato i Fiumi Gemelli. I giovani signori tenevano le monete in luccicanti pile imprecise, ma Mat non aveva intenzione di cambiare alcune vecchie abitudini. Nelle taverne e nelle locande a volte era necessario andare via velocemente. In particolar modo se la fortuna era con lui.

Quando avrebbe guadagnato abbastanza da permettersi la vita che voleva, avrebbe lasciato la Pietra con la stessa velocità. Prima che Moiraine scoprisse a cosa stava pensando. Sarebbe andato via da giorni, se le cose fossero andate come voleva. C’era oro da arraffare, qui. Una notte a questo tavolo poteva fargli guadagnare più di una settimana di gioco a dadi nelle taverne. Se solo la fortuna avesse attecchito.

Assunse un’espressione leggermente accigliata e, preoccupato, diede una boccata alla pipa per sembrare incerto se le carte fossero abbastanza buone per proseguire. Anche due giovani lord avevano le pipe fra i denti, ma lavorate in argento, con pezzi d’ambra. Nella calda aria ferma i loro tabacchi profumati odoravano come il fuoco nello spogliatoio di una lady. Non che Mat ci fosse stato. Una malattia che lo aveva quasi ucciso gli aveva lasciato una memoria piena di lacune nel migliore dei casi, ma era certo che si sarebbe ricordato di una cosa simile. Nemmeno il Tenebroso potrebbe essere così malvagio da farmela dimenticare, pensò.

«Sono attraccate alcune navi del Popolo del Mare, oggi» borbottò Reimon con la pipa fra i denti. La barba del giovane signore dalle ampie spalle era oleata e tagliata a formare una punta netta. Quella era l’ultima moda fra i giovani signori, e Reimon andava appresso alla moda con la stessa assiduità con cui inseguiva le donne. Ovvero, con appena minor diligenza di come scommetteva. Gettò una corona d’argento sul mucchio in mezzo al tavolo per chiamare un’altra carta. «Un perlustratore. Le imbarcazioni più veloci che ci siano, così dicono. Corrono più veloci del vento, si racconta. Mi piacerebbe vederlo. Che la mia anima bruci, come lo vorrei.» Non si prese il disturbo di guardare le carte che gli erano state servite; non lo faceva mai fino a quando non le aveva tutte e cinque.

L’uomo grassoccio fra Reimon e Mat rise divertito. «Vuoi vedere la nave, Reimon? Intendi dire le ragazze, vero? Le donne. Esotiche bellezze del Popolo del Mare, con gli anelli, i gioielli e quella camminata ondeggiante, eh?» Aggiunse una corona e prese la carta, facendo una smorfia quando la guardò. Non significava nulla; quelle espressioni erano tipiche di Edorion, e le sue carte erano sempre basse e male assortite. Comunque vinceva più di quanto perdeva. «Be’, forse avrò maggiore fortuna con le ragazze del Popolo del Mare.» Il mazziere, alto e slanciato, dall’altro lato di Mat, con una barba appuntita anche più scura e rigogliosa di quella di Reimon, si mise un dito accanto al naso. «Pensi di essere fortunato con quelle, Edorion? Dal modo in cui se ne stanno per conto loro, sarai fortunato se riuscirai a cogliere una folata del loro profumo.» Fece un ampio gesto, inalando profondamente con un sospiro e gli altri signori risero, incluso Edorion.

Un giovane dal volto semplice di nome Estean rise più forte degli altri, passandosi una mano fra i capelli lisci che continuavano a ricadergli davanti alla fronte. Sostituendo la fine giubba di lana gialla con una rozza, sarebbe passato per un contadino, invece che per il figlio di un Sommo signore con la più ricca tenuta a Tear, il più ricco al tavolo. Aveva anche bevuto molto più vino degli altri. Inclinandosi davanti all’uomo al suo fianco, un tipo frivolo di nome Baran che sembrava sempre guardare tutti dall’alto, Estean colpì il mazziere con un dito non troppo fermo. Baran si sporse indietro, distorcendo le labbra attorno al cannello della pipa come se temesse che Estean potesse vomitare.

«Bene, Carlomin» gorgogliò Estean. «La pensi allo stesso modo, vero Baran? Edorion non riuscirebbe nemmeno a coglierne l’odore. Se vuole tentare la fortuna... scommetta... dovrebbe seguire le donnacce Aiel, come il nostro Mat qui. Tutte quelle lance e pugnali. Che la mia anima sia bruciata. Come chiedere a un leone di ballare.» Un silenzio mortale discese attorno al tavolo. Estean proseguì a ridere da solo, poi batté gli occhi e si passò nuovamente la mano fra i capelli. «Che succede? Ho detto qualcosa? Oh! Oh, sì. Loro.»

Mat trattenne a malapena uno sguardo cupo. L’idiota doveva proprio parlare degli Aiel. L’unico soggetto peggiore sarebbero state le Aes Sedai; avrebbero quasi preferito avere gli Aiel in giro per i corridoi, fissando ogni tarenese che incrociavano, che anche una sola Aes Sedai, e questi uomini pensavano di averne almeno quattro. Mat spinse con un dito una corona d’argento andorana dal sacchetto nel mucchio al centro del tavolo. Carlomin gli servì lentamente la carta.

Mat la sollevò attentamente con l’unghia del pollice, e non batté nemmeno le palpebre. Il governatore di coppe, un Sommo signore di Tear. Il numero di governatori in un mazzo di carte variava a seconda della terra in cui erano state fabbricate, con il governatore della nazione sempre rappresentato dal seme di coppe, quello più alto. Queste carte erano vecchie. Mat aveva già visto nuovi mazzi con il viso di Rand, o qualcosa di simile, nelle vesti del governatore di coppe, completo di bandiera del drago. Rand, il governatore di Tear; questo ancora gli sembrava abbastanza ridicolo da fargli venir voglia di darsi un pizzicotto. Rand era un pastore, un buon compagno con cui divertirsi quando non parlava di serietà e responsabilità. Adesso era Rand il Drago Rinato; e ciò significava che era un grande sciocco a restarsene qui seduto, dove Moiraine poteva mettergli le mani addosso ogni volta che voleva, in attesa di vedere la prossima mossa di Rand. Forse Thom Merrilin sarebbe andato con lui. O Perrin. Solo che Thom sembrava essersi insediato nella Pietra come se non intendesse più andare via e Perrin non si muoveva più se Faile non faceva un cenno con il dito. Be’, Mat era pronto a viaggiare da solo, se fosse stato necessario.

Però c’era argento in mezzo al tavolo e oro di fronte ai giovani signori, e se gli veniva servito il quinto governatore, non ci sarebbe stata mano nel gioco del taglio che avrebbe potuto batterlo. Non che gli servisse sul serio. Di colpo sentì la fortuna che gli solleticava la mente. Non come faceva con i dadi, ma era già certo che nessuno avrebbe battuto quattro governatori. I Tarenesi avevano scommesso selvaggiamente tutta la notte, nella mano più veloce aveva visto il prezzo di dieci fattorie attraversare il tavolo.

Ma Carlomin fissava il mazzo di carte che aveva in mano invece di comperare la quarta carta, e Baran fumava furiosamente mentre accatastava le monete davanti a lui come se fosse pronto a infilarsele in tasca. Reimon era accigliato ed Edorion si guardava torvo le unghie. Solo Estean sembrava tranquillo; sorrideva incerto guardandosi attorno, forse già dimentico di quel che aveva detto. Di solito cercavano di fare buon viso a cattivo gioco quando emergeva il discorso aiel, ma era tardi e il vino era fluito liberamente.

Mat stava pensando a un modo per far restare i Tarenesi e l’oro al tavolo, con quelle carte che aveva in mano. Un’occhiata ai volti dei lord fu abbastanza per dirgli che limitarsi semplicemente a cambiare discorso non sarebbe servito. Ma c’era un altro sistema. Se riusciva a farli ridere degli Aiel... vale la pena di farli ridere anche di me? si chiese. Masticando il cannello della pipa, cercò di pensare a qualcos’altro.

Baran prese una manciata d’oro in entrambe le mani e incominciò a metterselo in tasca.

«Penso che proverò queste donne del Popolo del Mare» esordì Mat velocemente, usando la pipa per gesticolare. «Ti succedono strane cose quando vai appresso alle ragazze aiel. Molto strane. Come il gioco che chiamano il ‘bacio della Fanciulla’.» Aveva ottenuto la loro attenzione. Ma Baran non aveva posato le monete e Carlomin ancora non dava segno di voler comperare la carta.

Estean scoppiò a ridere completamente ubriaco. «Baciarti con l’acciaio fra le costole, suppongo. Fanciulle della Lancia, vedi. Acciaio. Lance fra le costole. Che la mia anima bruci.» Nessun altro rise. Ma ascoltavano.

«Non proprio» Mat riuscì a fare un sorriso. Che io sia folgorato, ho detto tutto questo, tanto vale che racconti pure il resto, pensò. «Rhuarc mi aveva spiegato che se volevo andare d’accordo con le Fanciulle avrei dovuto chieder loro di giocare al ‘bacio della Fanciulla’. Aveva aggiunto che era il modo migliore di imparare a conoscerle.» Sembrava uno dei giochi in cui ci si baciava, giù a casa, come ‘bacia le margherite’. Mat non aveva mai considerato il capo clan aiel un uomo che tirava degli scherzi. La prossima volta sarebbe stato più diffidente. Fece lo sforzo di migliorare il sorriso. «Così sono andato da Bain e...» Reimon aggrottò le sopracciglia impazientemente. Nessuno di loro conosceva i nomi degli Aiel se non quello di Rhuarc, e nessuno voleva conoscerli. Mat lasciò perdere i nomi e proseguì: «... e ho continuato stupidamente, chiedendole di mostrarmi il gioco.» Avrebbe dovuto sospettare qualcosa dai grandi sorrisi che erano fioriti sul volto della ragazza aiel. Come un gatto al quale un topo aveva chiesto di ballare. «Prima che capissi cosa stava succedendo, mi sono ritrovato una manciata di lance puntate al collo, come un collare. Avrei potuto radermi se avessi starnutito.»

Gli altri attorno al tavolo scoppiarono a ridere, dalla risata affannosa di Reimon al raglio ubriaco di Estean.

Mat li lasciò ridere. Poteva quasi sentire nuovamente le punte delle lance, che lo pungevano non appena si muoveva. Bain, che aveva riso tutto il tempo, gli disse che non aveva mai sentito di un uomo che avesse chiesto di giocare al ‘bacio della Fanciulla’.

Carlomin si lisciò la barba e parlò sull’esitazione di Mat. «Non puoi fermarti ora, vai avanti. Quando è successo? Scommetto due notti fa. Quando non sei venuto a giocare e nessuno sapeva dov’eri.»

«Quella notte ho giocato a dama con Thom Merrilin» rispose velocemente Mat. «È successo giorni fa.» Era felice di poter mentire mantenendo l’espressione invariata. «Ognuna mi ha dato un bacio, è tutto. Se credeva fosse un buon bacio, allentava la pressione della lancia, in caso contrario l’aumentava; a scopo di incoraggiamento, per così dire. Fu tutto. Vi dico solo questo; avevo meno tagli di quando mi faccio la barba.»

Detto questo si rimise la pipa tra i denti. Se volevano saperne di più potevano andare a provare. Sperò quasi che alcuni di loro fossero abbastanza stupidi da farlo. Maledette donne aiel e le loro lance, pensò. Non era andato a letto fino al sorgere del sole.

«Sarebbe più che sufficiente per me» aggiunse Carlomin seccamente. «Che la Luce bruci la mia anima se non lo sarebbe.» Lanciò una corona d’argento al centro del tavolo e si servì un’altra carta. «‘Bacio della Fanciulla’.» Fu scosso dal divertimento e si scatenò un’altra ondata di risate attorno al tavolo.

Baran comprò la quinta carta ed Estean pescò una moneta dal cumulo davanti a sé, guardandola per vedere cos’era. Adesso non si sarebbero fermati.

«Selvaggi» mormorò Baran con il cannello della pipa fra i denti. «Selvaggi ignoranti. Ecco cosa sono tutti, che la mia anima bruci. Vivono in caverne nel deserto. Caverne! Solo un selvaggio potrebbe vivere nel deserto!»

Reimon annuì. «Almeno servono il lord Drago. Prenderei cento difensori per liberare la Pietra, se non fosse per quello.» Baran e Carlomin grugnirono fieramente in segno di intesa.

Non fu uno sforzo per Mat rimanere privo di espressione. Aveva sentito la stessa cosa altre volte. Era facile vantarsi quando nessuno si aspettava che poi si mettesse in pratica quanto detto. Cento difensori? Anche se Rand si fosse mantenuto in disparte per qualche ragione, le centinaia di Aiel che tenevano in pugno la Pietra probabilmente avrebbero resistito contro qualsiasi esercito Tear avesse messo insieme. Non che sembrassero realmente volere la Pietra. Mat sospettava che fossero lì solo perché c’era Rand. Credeva che nessuno di questi giovani lord ci fosse arrivato — cercano di ignorare gli Aiel il più possibile — ma dubitava che li avrebbe fatti sentire meglio.

«Mat.» Estean sventolò le carte con una mano, sistemandole come se non riuscisse a decidere in quale ordine dovevano stare. «Mat, parlerai al lord Drago, vero?»

«Di cosa?» chiese cautamente Mat. Troppi di questi Tarenesi per i suoi gusti sapevano che lui e Rand erano cresciuti insieme, e sembravano credere che Mat fosse a braccetto con Rand ogni volta che non lo vedevano. Nessuno di loro si sarebbe avvicinato al proprio fratello, se poteva incanalare. Mat non sapeva perché lo consideravano più sciocco.

«Non l’ho detto?» L’uomo dal viso semplice osservò le carte, si grattò la barba, quindi sospirò. «Sì, la proclamazione, Mat. Il Lord Drago. L’ultima. Quando ha proclamato che i cittadini comuni hanno il diritto di chiamare un signore davanti a un magistrato. Chi ha mai sentito parlare di un signore convocato da un magistrato? E per dei contadini!»

Mat strinse il sacchetto fino a quando le monete all’interno stridettero fra loro. «Sarebbe una vergogna» rispose calmo «se venissi processato e giudicato solo per aver fatto quel che volevo con la figlia di un pescatore, indipendentemente dalla volontà della ragazza, o per aver fatto percuotere qualche contadino che ha macchiato di fango il mio mantello.»

Gli altri cambiarono posizione a disagio, consapevoli dell’umore di Mat, ma Estean annuì, con la testa che ciondolava come se stesse per cadere. «Esattamente. Anche se non arriverebbe a quel punto. Un signore processato davanti a un magistrato? Certo che no. No davvero.» Rise ubriaco guardando le carte. «Nessuna figlia di pescatore. Puzzano di pesce, vedi, anche se le fai lavare. Una contadina in carne è meglio.»

Mat si disse che si trovava lì per scommettere. Si disse di ignorare il blaterare di quell’idiota, di ricordarsi quanto oro poteva prendergli dalla borsa. Ma la lingua non ascoltò. «Chi sa a cosa si arriverà? Impiccagioni, forse.»

Edorion lo guardò di traverso, circospetto e a disagio. «Dobbiamo parlare di... di gente comune, Estean? Che cosa mi dici delle figlie del vecchio Astoril? Hai già deciso quale sposerai?»

«Cosa? Oh. Oh, suppongo che lancerò una moneta.» Guardò cupo le carte, ne spostò una, e si accigliò. «Medore ha due o tre inservienti graziose. Forse Medore.»

Mat bevve un lungo sorso di vino dalla sua coppa d’argento per evitare di colpire l’uomo sulla sua faccia da contadino. Era ancora alla prima coppa; i due servitori avevano smesso di tentare di riempirla ulteriormente. Se avesse colpito Estean, nessuno avrebbe alzato una mano per fermarlo. Nemmeno Estean. Perché era amico del Lord Drago. Desiderava trovarsi in qualsiasi taverna della città, dove qualche portuale gli avrebbe fatto domande sulla sua fortuna e solo una lingua svelta, piedi o mani veloci gli avrebbero permesso di tornare a casa tutto d’un pezzo. Non che fosse uno sciocco, però.

Edorion lanciò un’altra occhiata a Mat, scandagliandone l’umore. «Ho sentito una voce oggi. Ho sentito che il lord Drago ci condurrà in guerra con Illian.»

Mat quasi si strozzò con il vino. «Guerra?» Sputò il vino.

«Guerra.»

Reimon concordò felice, il cannello della pipa fra i denti.

«Ne sei certo?» chiese Carlomin, e Baran aggiunse: «Non ho sentito voci.»

«L’ho sentito proprio oggi, da tre o quattro lingue.» Edorion sembrava assorto nelle carte. «Chi può dire quanto ci sia di vero?»

«Dev’esserlo» rispose Reimon. «Con il lord Drago che ci guida, impugnando Callandor, non dovremo nemmeno combattere. Disperderà i loro eserciti e marceremo dritti dentro Illian. Peccato, in un certo qual modo. Che la mia anima bruci se non lo è. Mi piacerebbe avere la possibilità di battermi con gli Illianesi.»

«Non ne avrai nessuna con la guida del lord Drago» rispose Baran. «Cadranno in ginocchio non appena vedranno la bandiera del Drago.»

«E se non lo fanno» aggiunse Carlomin con una risata «il lord Drago li farà esplodere con un fulmine proprio dove si trovano.»

«Prima Illian» puntualizzò Reimon. «E poi... Poi conquisteremo il mondo per il lord Drago. Riferiscigli che l’ho detto, Mat. Il mondo intero.»

Mat scosse la testa. Un mese fa, sarebbero rimasti terrorizzati anche dalla sola idea di un uomo che poteva incanalare, un uomo destinato a impazzire e morire orrendamente. Adesso erano pronti a seguire Rand in battaglia, e confidare nel suo potere per vincerla. Fidarsi del Potere, anche se probabilmente non l’avrebbero presentata in quel modo. Ma pensava dovessero trovare qualcosa a cui aggrapparsi. La Pietra invincibile era nella mani degli Aiel. Il Drago Rinato era nelle sue stanze trecento metri sopra le loro teste e Callandor con lui. Tremila anni di credenze di Tairen e storia erano andati in rovina, e il mondo era stato sovvertito. Si chiese se lui l’avesse presa meglio; il suo stesso mondo era andato a gambe all’aria in meno di un anno. Fece roteare una corona d’oro di Tairen sul dorso delle dita. Per quanto gli fosse andata bene, non sarebbe tornato indietro.

«Quando marceremo, Mat?» chiese Baran.

«Non lo so» rispose lentamente. «Non credo che Rand darà il via a una guerra.» A meno che non sia già impazzito. E il solo pensarci era eccessivo.

Gli altri lo guardavano come se li avesse assicurati che il sole non sarebbe sorto l’indomani.

«Naturalmente siamo tutti leali al Drago.» Edorion guardò cupo le sue carte. «Fuori nelle campagne però... ho sentito dire che alcuni Sommi signori, pochi, hanno cercato di assemblare un esercito per riprendere la Pietra.» Di colpo nessuno guardava più Mat, e sembrava che Estean stesse ancora cercando di capire le sue carte. «Quando il lord Drago ci guiderà in guerra, naturalmente, tutto svanirà. In ogni caso noi siamo leali, qui nella Pietra. Anche i Sommi signori, ne sono certo. Sono solo quei pochi in campagna.»

La loro fedeltà non sarebbe sopravvissuta alla paura del Drago Rinato. Per un momento Mat si sentì come se stesse progettando di abbandonare Rand in una fossa di vipere. Poi si ricordò cos’era Rand. Era più come abbandonare una donnola in un pollaio. Rand era stato suo amico. Il Drago Rinato però... Chi potrebbe essere amico del Drago Rinato? Non sto abbandonando nessuno. Probabilmente potrebbe fargli crollare la Pietra sulla testa, se lo volesse. Anche sulla mia, pensò. Si ripeté che era giunto il momento di andare via.

«Nessuna figlia di pescatore» mormorò Estean. «Parlerai con il lord Drago?»

«È il tuo turno, Mat» si intromise ansiosamente Carlomin. Sembrava mezzo spaventato, ma cosa temesse — che Estean facesse nuovamente arrabbiare Mat, o che il discorso potesse tornare sulla lealtà — era impossibile da decifrare. «Comperi la quinta carta o stai?»

Mat si accorse di non aver prestato attenzione. Tutti tranne lui e Carlomin avevano cinque carte, anche se Reimon aveva quasi accatastato le sue vicino al mucchio di monete per mostrare che era fuori. Mat esitò, facendo finta di pensare, quindi sospirò e lanciò un’altra moneta sul mucchio.

Mentre la corona d’argento rimbalzava da un lato all’altro, percepì di colpo la fortuna cambiare da un rivolo a una piena. Ogni tintinnio dell’argento contro il tavolo di legno gli risuonava chiaramente in testa; avrebbe potuto dire testa o croce e sapere come la moneta sarebbe atterrata a ogni rimbalzo. Proprio come sapeva quale sarebbe stata la quinta carta, prima che Carlomin la depositasse davanti a lui. Fece scivolare le carte tutte assieme sul tavolo, quindi le dispose a ventaglio in una mano. Il governatore di fiamme lo fissava assieme agli altri quattro, l’Amyrlin Seat che teneva una fiamma in bilico sul palmo della mano, anche se non assomigliava affatto a Siuan Sanche. Qualunque cosa provassero i Tarenesi nei confronti delle Aes Sedai, riconoscevano il potere di Tar Valon, anche se le fiamme erano il seme più basso.

Quali erano le possibilità che ti venissero serviti tutti e cinque? La fortuna di Mat funzionava meglio con gli eventi casuali, come i dadi, ma forse qualcosa di più stava incominciando con le carte. «Che la Luce mi riduca le ossa in cenere se non è così» mormorò. O era ciò che intendeva dire.

«Ecco!» gridò Estean. «Non puoi negarlo stavolta. Quella era la lingua antica. Qualcosa riguardo bruciare e ossa.»

Sorrise guardandosi intorno. «Il mio tutore sarebbe fiero. Dovrei mandargli un regalo. Se riesco a scoprire dov’è andato.»

I nobili in teoria dovevano essere in grado di parlare la lingua antica, anche se pochi in realtà conoscevano più di quanto sembrava sapere Estean. I giovani lord cominciarono a discutere su cosa avesse detto Mat esattamente. Sembrava pensassero fosse un commento sul caldo.

A Mat venne la pelle d’oca mentre cercava di rammentare le parole che aveva appena pronunciato. Una serie di parole insensate, eppure gli sembrava quasi di dover capire. Che Moiraine bruci! Se mi avesse lasciato in pace, non avrei buchi nella memoria grandi abbastanza da farci passare un carro con tutto il tiro, e non zampillerei... qualunque maledetta cosa sia! pensò. Si sarebbe ritrovato anche a mungere le vacche di suo padre invece che andarsene in giro per il mondo con le tasche piene d’oro, ma riuscì a ignorare quella parte.

«Siete qui per giocare» chiese duramente «o per ciarlare come delle vecchie donne che lavorano a maglia?»

«Per giocare» rispose Baran bruscamente. «Tre corone d’oro!» Lanciò le monete sul piatto.

«Più altre tre.» Estean singhiozzò e aggiunse sei corone d’oro al mucchio.

Reprimendo un sorriso, Mat si dimenticò della lingua antica. Era abbastanza facile; non voleva pensarci. D’altro canto se iniziavano a giocare forte, poteva vincere abbastanza in questa mano da poter andare via la mattina successiva. E se è così pazzo da iniziare una guerra, me ne andrò anche se dovessi farlo a piedi, pensò.

Fuori, nell’oscurità, un gallo cantò. Mat cambiò posizione a disagio e si disse di non essere sciocco. Non sarebbe morto nessuno.

Gli occhi gli caddero sulle carte e... batté le palpebre. La fiamma dell’Amyrlin era stata sostituita da un coltello. Mentre si stava dicendo che era stanco e aveva delle visioni, la donna gli affondò la piccola lama sul dorso della mano.

Con un grido rauco lanciò via le carte e si buttò indietro rovesciando la sedia e colpendo il tavolo con entrambi i piedi mentre cadeva. L’aria sembrò solidificarsi come miele. Tutto si muoveva come se il tempo fosse rallentato, ma allo stesso tempo tutto sembrava accadere simultaneamente. Altre grida fecero eco alle sue, grida sorde che risuonavano come in una caverna. Mat e la sedia si spostarono lentamente indietro e verso il basso; il tavolo galleggiava verso l’alto.

Il governante di fiamme era sospeso in aria e diventava sempre più grande, lo fissava con uno sguardo crudele. Adesso, quasi a dimensione umana, la donna iniziò a uscire dalla carta; era ancora un’immagine dipinta, senza profondità, ma si protese verso di lui con la lama rossa del suo sangue come se gliela avesse già affondata nel cuore. Al suo fianco il governatore di coppe cominciò a crescere. Il Sommo signore di Tairen estrasse la spada.

Mat fluttuava, ma riuscì in qualche modo a raggiungere il pugnale nascosto nella manica sinistra e con lo stesso movimento lo scagliò dritto verso il cuore dell’Amyrlin. Il secondo pugnale gli scivolò con grazia nella mano sinistra. Lo lanciò con eleganza anche maggiore. Le due lame si spostarono lentamente nell’aria come i pappi del cardo. Mat voleva gridare, ma quel primo grido di sorpresa e oltraggio ancora gli riempiva la bocca. Il governante di bastoni stava crescendo fra le prime due carte, la regina di Andor impugnava lo scettro come un randello, i capelli rosso oro incorniciavano il ringhio di una pazza.

Mat stava ancora cadendo e gridava quello strano urlo contratto. L’Amyrlin era uscita dalla carta, il Sommo signore camminava a grandi passi con la spada in pugno. Le figure piatte si muovevano quasi con la sua stessa lentezza. Quasi. Aveva provato che l’acciaio fra le loro mani poteva tagliare, e senza dubbio lo scettro poteva spaccare un cranio. Il suo.

I pugnali che aveva lanciato si muovevano come se stessero affondando nella gelatina. Era certo che il gallo avesse cantato per lui. Qualunque cosa sostenesse suo padre, il presagio era reale. Ma non si sarebbe arreso e morto. In qualche modo estrasse altri due pugnali dalla giubba, uno in ciascuna mano. Faticando per voltarsi a mezz’aria, per mettersi in piedi, lanciò uno dei pugnali contro la figura dai capelli rosso oro con il randello. L’altro lo tenne in mano mentre cercava di voltarsi, di atterrare pronto ad affrontare...

Il mondo ondeggiò di colpo tornando al movimento normale Mat atterrò goffamente su un fianco, con tale forza che rimase senza fiato.

Disperatamente si alzò in piedi, estraendo un altro pugnale da sotto la giubba. Non se ne potevano portarne troppi, riteneva Thom.

Né l’uno né l’altro servirono.

Per un momento pensò che carte e figure fossero svanite. O forse si era immaginato tutto. Forse era lui che stava impazzendo. Quindi vide le carte, di nuovo della misura normale, appuntate a uno degli scuri pannelli di legno da uno dei suoi pugnali che ancora vibrava. Sospirò profondamente.

Il tavolo giaceva da un lato, le monete erano sparse a terra dove i giovani signori e i servì erano accovacciati fra le carte sparpagliate. Guardavano a bocca aperta Mat e i suoi pugnali, quelli in mano e quelli conficcati nella parete, con occhi egualmente sgranati. Estean afferrò una brocca d’argento che in qualche modo non si era rovesciata e incominciò a versarsi il vino in gola, con l’eccedenza che gli colava sul mento e sul petto.

«Solo perché non avevi le carte vincenti» esclamò Edorion rauco «non c’era bisogno di...» si interruppe scosso dai brividi.

«Lo hai visto anche tu» Mat fece scivolare nuovamente i pugnali nei foderi. Un sottile rivolo di sangue gli colava dal dorso della mano dalla piccola ferita. «Non pretendere di essere diventato cieco!»

«Non ho visto nulla» intervenne Reimon rigido. «Niente!» Cominciò a strisciare sul pavimento, raccogliendo oro e argento, concentrandosi sulle monete come se fossero la cosa più importante del mondo. Gli altri stavano facendo lo stesso, tranne Estean, che annaspava brancolando alla ricerca di boccali nei quali ci fosse ancora una goccia di vino. Uno dei servitori aveva il viso nascosto fra le mani; l’altro, a occhi chiusi, sembrava stesse pregando in un basso piagnucolio senza fiato.

Borbottando un’imprecazione, Mat si recò a grandi passi nel punto in cui aveva inchiodato le tre carte ai pannelli di legno. Erano di nuovo semplici carte da gioco, solo cartoncini con la laccatura chiara spaccata. Ma la figura dell’Amyrlin stringeva ancora il pugnale invece della fiamma. Sentì il sapore del sangue e si accorse che stava succhiandosi il taglio sul dorso della mano.

Liberò velocemente il pugnale, tagliando ogni carta in due prima di riporlo. Dopo un po’ cercò fra le carte che erano a terra finché non trovò i governatori di denari e vento, e strappò anche queste. Si sentiva leggermente stupido — era tutto finito; le carte erano di nuovo solo carte — ma non poteva farci nulla.

Nessuno dei giovani lord che procedevano carponi provò a fermarlo. Si toglievano goffamente dalla sua traiettoria, senza nemmeno guardarlo. Non si sarebbe giocato più quella notte, forse nemmeno per qualche altra sera. Almeno non con lui. Qualunque cosa fosse accaduta, era stata chiaramente diretta contro di lui. E doveva essere stata compiuta con l’uso dell’Unico Potere. I giovani signori non volevano saperne.

«Che tu sia folgorato, Rand!» mormorò a denti stretti. «Se devi impazzire, lasciami fuori da tutto questo!» La sua pipa era spezzata in due, il cannello rotto di netto. Raccolse rabbiosamente il sacchetto di monete da terra e lasciò la stanza a lunghi passi.

Nella camera da letto scura Rand era gettato scomodamente su un letto abbastanza grande per cinque persone. Stava sognando.

Da una foresta ombrosa Moiraine lo incitava con un bastone appuntito verso il punto dove lo aspettava l’Amyrlin Seat, seduta su un ceppo, fra le mani una cavezza da mettergli al collo. Delle figure indistinte si muovevano, appena visibili, fra gli alberi, camminavano a lunghi passi, gli davano la caccia; in un punto la lama di un pugnale lampeggiò nella luce debole, in un altro vide di sfuggita delle corde pronte a legarlo. Snella e non più alta della sua spalla, Moiraine aveva un’espressione che non le aveva mai visto in volto. Paura. Sudando, lo incitò maggiormente, cercando di farlo andare più velocemente verso la cavezza dell’Amyrlin. Gli Amici delle Tenebre e i Reietti nell’ombra, il guinzaglio della Torre Bianca davanti e Moiraine dietro di sé.

Schivando il bastone di Moiraine, Rand fuggì.

«È troppo tardi» gridò la donna alle sue spalle, ma doveva tornare indietro. Indietro.

Si agitò sul letto lamentandosi, quindi si immobilizzò nuovamente, respirando per un momento con maggiore facilità.

Si trovava nella foresta di Waterwood, a casa, la luce filtrava obliquamente fra gli alberi per risplendere sullo stagno di fronte a lui. Da questo lato dello stagno c’era muschio verde sulle rocce e a trenta passi di distanza, dall’altro lato, un piccolo arco di fiori selvatici. Questo era il luogo dove, da bambino, aveva imparato a nuotare.

«Dovresti nuotare adesso.»

Rand si voltò di scatto, sorpreso. Min stava là in piedi, gli sorrideva con indosso le brache e la giubba da ragazzo, e vicino a lei c’era Elayne, dai riccioli rosso oro, che indossava un abito di seta verde consono per il palazzo della madre. Era stata Min a parlare, ma Elayne aggiunse: «L’acqua sembra invitante, Rand. Nessuno ci disturberà qui.»

«Non lo so» iniziò a rispondere lentamente. Min lo interruppe intrecciandogli le dita dietro al collo e alzandosi in punta di piedi per baciarlo.

Ripeté le parole di Elayne in un delicato mormorio. «Nessuno ci disturberà qui.» Si allontanò e si tolse la giubba, quindi iniziò a sciogliere i lacci della camicia.

Rand fissava la scena, anche più intensamente quando si accorse che l’abito di Elayne giaceva sul suolo muscoso. L’erede al trono era leggermente chinata con le braccia incrociate, nell’atto di sfilarsi la sottoveste.

«Cosa state facendo?» chiese Rand con voce strozzata.

«Ci stiamo preparando per fare una nuotata con te» rispose Min.

Elayne fece un rapido sorriso, e si sfilò la sottoveste dalla testa. Rand si voltò velocemente, anche se non voleva del tutto, e si ritrovò a fissare Egwene, con i grandi occhi scuri che lo guardavano tristemente. Senza una parola, si voltò e svanì fra gli alberi.

«Aspetta!» le gridò appresso Rand. «Posso spiegare tutto.»

Rand cominciò a correre; doveva trovarla. Ma non appena raggiunse il limitare degli alberi, la voce di Min lo bloccò.

«Non andare, Rand.»

Lei ed Elayne erano già in acqua, si vedevano solo le teste mentre nuotavano pigramente al centro dello stagno.

«Torna indietro» gridò Elayne, sollevando un braccio sottile per fargli cenno. «Non pensi di meritarti quel che vuoi, tanto per cambiare?»

Rand mosse i piedi, voleva muoversi ma non sapeva decidere in quale direzione. Cosa voleva... Quelle parole sembravano strane. Cosa voleva? Si portò una mano al viso, per asciugare quel che credeva fosse sudore. La carne putrefatta quasi annientava l’airone impresso sul palmo della mano; poteva vedere il bianco delle ossa attraverso gli squarci rossi.

Si svegliò di colpo, sdraiato e tremante, nella calda oscurità. Gli indumenti intimi erano intrisi di sudore, come anche le lenzuola di lino dietro la schiena. Il fianco gli bruciava, nel punto in cui una vecchia ferita non era mai guarita del tutto. Toccò la rozza cicatrice, un cerchio ampio circa tre centimetri, ancora soffice dopo tutto questo tempo. Anche la guarigione Aes Sedai di Moiraine non era riuscita a curarla del tutto. Ma ancora non sto marcendo e ancora non sono impazzito. Non ancora, pensò. Questo diceva tutto. Voleva ridere, e si chiedeva se ciò non significasse che era già un po’ pazzo.

Sognare Min ed Elayne a quel modo...

Be’, non era follia, ma certamente era stupido. Nessuna delle due lo aveva mai guardato in quella maniera quando era sveglio. Era stato promesso a Egwene fin da quando erano bambini. Le parole di fidanzamento non erano mai state pronunciate davanti alla Cerchia delle Donne, ma tutti a Emond’s Field sapevano che un giorno si sarebbero sposati.

Quel giorno naturalmente non sarebbe giunto mai, non ora, non con il destino che aspettava un uomo che poteva incanalare. Anche Egwene doveva averlo capito. Doveva. Era tutta presa a diventare Aes Sedai. Eppure le donne erano strane; poteva pensare di diventare Aes Sedai e sposarlo in ogni caso, che incanalasse o meno. Come poteva dirle che non voleva più sposarla, che l’amava come una sorella? Ma non ci sarebbe stato alcun bisogno di dirglielo, ne era sicuro. Poteva nascondersi dietro ciò che era. Egwene doveva capirlo. Quale uomo poteva chiedere a una donna di sposarlo quando sapeva di avere solo pochi anni, se era fortunato, prima di diventare pazzo, di iniziare a marcire da vivo?

Rand fu scosso dai brividi malgrado il caldo.

Ho bisogno di dormire, pensò. I Sommi signori sarebbero stati di ritorno la mattina, cercando di ottenere i suoi favori. Per l’interesse del Drago Rinato. Forse stavolta non sognerò, si disse. Iniziò a voltarsi su un fianco, alla ricerca di un punto asciutto sulle lenzuola e... si ghiacciò nel sentire un lieve fruscio nell’oscurità. Non era solo.

La spada che non è una spada era dall’altro lato della stanza, non a portata di mano, su un piedistallo simile a un trono donatogli dai Sommi signori, senza dubbio nella speranza che avrebbe tenuto Callandor lontano dai loro occhi. Qualcuno che vuole rubarla, pensò. O forse uccidere il Drago Rinato. Non aveva bisogno degli avvisi di Thom per sapere che le dichiarazioni di lealtà imperitura dei Sommi signori erano solo parole di circostanza.

Svuotò la mente da pensieri ed emozioni, creando il vuoto; giunse senza sforzo. Fluttuando nel freddo vuoto interiore, si protese verso la Vera Fonte. Stavolta la toccò facilmente, e non era sempre così.

Saidin lo colmò come un torrente di calore e luce bianchi, esaltandolo di vita, nauseandolo con l’infamia della contaminazione del Tenebroso, come la schiuma di un’acqua di scarico che galleggiasse sopra acqua pura e dolce. Il torrente minacciava di spazzarlo via, bruciarlo, ingolfarlo.

Combattendo il flusso, lo controllava con un semplice sforzo di volontà e rotolò giù dal letto, incanalando il Potere mentre atterrava sui piedi nella posizione iniziale della figura di scherma chiamata i fiori di melo nel vento. I nemici non potevano essere molti, altrimenti avrebbero fatto più rumore; quella posizione dal nome gentile si usava per gli scontri con più di un opponente.

Quando toccò il tappeto con i piedi, impugnava una spada dalla lunga elsa e la lama leggermente ricurva, affilata su un solo lato. Sembrava essere stata modellata dalla fiamma, eppure non era nemmeno calda. L’immagine di un airone si stagliava nera contro la lama giallo-rossiccia. Nello stesso momento ogni candela e lampada dorata si accese, piccoli specchi dietro di esse ne aumentavano l’intensità. Specchi più grandi appesi alle pareti e su piedistalli a due zampe la riflettevano maggiormente, avrebbe potuto comodamente leggere in qualsiasi punto della stanza.

Callandor giaceva indisturbata, una spada che sembrava di vetro, elsa e lama, su un piedistallo alto come un uomo e altrettanto ampio, di legno intagliato e dorato, incastonato con pietre preziose. Anche l’arredamento era tutto dorato e coperto di gemme, letto, sedie, panche, guardaroba, cassapanca e lavabo. La caraffa e il catino erano porcellana dorata del Popolo del Mare, sottili come foglie. Con la vendita dell’ampio tappeto di Tarabon, decorato con spirali scarlatte, oro e blu, avrebbe potuto nutrire un intero villaggio per mesi. Su quasi ogni superficie piana erano collocate delicate porcellane del Popolo del Mare, o calici, scodelle e ornamenti d’oro decorati in argento, e argento intarsiato d’oro. Sull’ampia mensola del camino, due lupi d’argento con gli occhi di rubino cercavano di abbattere un cervo d’oro, alto quasi un metro. Arazzi di seta scarlatta ricamata con figure intessute di fili dorati che rappresentavano aquile, erano appesi davanti alle strette finestre e sventolavano leggermente nel vento che diminuiva. C’erano libri ovunque vi fosse spazio, rilegati in pelle, legno, alcuni ridotti a brandelli e ancora impolverati, presi dagli scaffali più remoti della biblioteca della Pietra.

Ora, dove credeva che avrebbe visto degli assassini, o dei ladri, in mezzo al tappeto, stava in piedi una bellissima donna, esitante e sorpresa, con i capelli neri che le ricadevano lucenti sulle spalle. Il sottile abito di seta bianca metteva in risalto più di quanto celasse. Berelain, la governante della città stato di Mayene, era l’ultima persona che si sarebbe aspettato.

Dopo un’occhiata stupita, la donna fece una profonda e aggraziata riverenza, che le accostò strettamente gli abiti al corpo. «Sono disarmata, mio signore Drago. Mi sottopongo alla tua perquisizione, se dubiti di me.» Il sorriso della donna lo rese d’improvviso consapevole che non indossava altro che la biancheria intima.

Che sia bruciato se mi farà annaspare per la stanza nel tentativo di coprirmi. Il pensiero fluttuò oltre il vuoto. Non le ho chiesto di entrare. Di intrufolarsi nella mia stanza! pensò. Rabbia e imbarazzo vagavano al limitare del vuoto, ma arrossì comunque; era vagamente consapevole che il rossore sulle guance aumentava. Così freddamente calmo all’interno del vuoto, al di fuori... avvertiva ogni singola goccia di sudore che gli scivolava sul torace e sulla schiena. Richiedeva un vero sforzo di ostinata volontà restare in piedi sotto gli occhi della donna. Perquisirla? Che la Luce mi aiuti! pensò.

Rilasciando la posizione, lasciò svanire la spada, ma mantenne il sottile flusso che lo connetteva con saidin. Era come bere da un buco in un terrapieno quando l’intero cumulo di terra voleva cedere, l’acqua dolce come il vino al miele e nauseante come un rivolo che passa attraverso un cumulo di rifiuti.

Non sapeva molto di questa donna, tranne che si aggirava per la Pietra come fosse il suo palazzo a Mayene. Thom sosteneva che la Prima di Mayene faceva sempre domande, a tutti. Domande su Rand. E sarebbe stato naturale, visto quel che era, ma la cosa non lo faceva sentire a suo agio. E la donna non era tornata a Mayene. Questo non era naturale. Di fatto era stata trattenuta prigioniera per mesi, fino all’arrivo di Rand, rimossa dal suo trono e dal governo della sua piccola nazione. Molti altri avrebbero approfittato della prima opportunità possibile per allontanarsi da un uomo che poteva incanalare.

«Cosa stai facendo qui?» Sapeva di sembrare sgarbato, e non gli importava. «C’erano degli Aiel di guardia a quella porta quando sono andato a dormire. Come hai fatto a superarli?»

Le labbra di Berelain si incurvarono divertite; a Rand sembrò che la stanza fosse diventata anche più calda. «Mi hanno lasciata passare immediatamente quando gli ho detto che ero stata convocata dal lord Drago.»

«Convocata? Non ho convocato nessuno.» Smettila, si disse. È una regina, o quasi. Di come si comportano le regine ne sai quanto del volo. Cercò di comportarsi civilmente, solo che non sapeva come chiamare la Prima di Mayene. «Mia signora...» questo doveva andare bene «... perché avrei dovuto convocarti a quest’ora di notte?»

La donna rise con una risata ricca e profonda, gutturale; anche avvolto nel vuoto privo di emozioni sembrava che gli solleticasse la pelle, gli faceva rizzare i peli delle braccia e delle gambe. Di colpo si rese conto del vestito aderente per la prima volta, e si sentì nuovamente arrossire. Non può voler dire... o sì? Luce, non le ho mai detto due parole prima d’ora, pensò.

«Forse desidero parlare, mio signore Drago.» Lasciò cadere a terra il vestito, rivelando un indumento di seta bianca anche più sottile che poteva solo essere definito una sottoveste. Le lasciava le spalle lisce completamente nude e anche una porzione considerevole di pallido petto. Si ritrovò a chiedersi cosa nascondeva. Era difficile non fissarla. «Sei molto lontano da casa, come me. La notte in particolare a volte sembra solitaria.»

«Domani sarò felice di parlarti.»

«Ma durante il giorno sei sempre circondato di gente. Richiedenti. Sommi signori. Aiel.» La donna rabbrividì; Rand si disse che doveva davvero guardare altrove, ma era facile come smettere di respirare. Prima d’ora non era mai stato così consapevole delle proprie reazioni quando era immerso nel vuoto. «Gli Aiel mi spaventano, e non mi sono mai piaciuti i signori di Tairen, di nessun tipo.»

Riguardo i Tarenesi poteva crederle, ma non pensava che qualcosa potesse spaventare quella donna. Che io sia folgorato, si trova nella stanza da letto di un estraneo nel cuore della notte, mezza vestita, e io sono irritabile come un gatto inseguito da un cane, vuoto o no, pensò. Era il momento di porre fine a tutto questo prima che andasse troppo oltre.

«Sarebbe meglio se tornassi nella tua camera da letto, mia signora.» Una parte di lui voleva anche dirle di indossare un mantello. Un mantello spesso. Ma solo una parte di lui. «E... è davvero tardi per parlare. Domani. Alla luce del giorno.»

La donna gli rivolse uno sguardo obliquo, interrogativo. «Hai già assorbito le ristrette usanze di Tairen, mio lord Drago? O questa reticenza è qualcosa dei Fiumi Gemelli? Non siamo così... formali... a Mayene.»

«Mia signora...» Cercò di sembrare formale; se non le piacevano le formalità, questo era quello che lui voleva. «Sono promesso a Egwene al’Vere, mia signora.»

«Intendi dire l’Aes Sedai, mio lord Drago? Se lo è davvero. È molto giovane — forse troppo giovane — per portare l’anello e lo scialle.» Berelain parlava come se Egwene fosse una bambina, anche se lei stessa aveva al massimo un anno più di Rand, forse nemmeno quello, e Rand due anni più di Egwene. «Mio signore Drago, non intendo frappormi fra voi. Sposala, se appartiene all’Ajah Verde. Non aspirerei mai a sposare il Drago Rinato in persona. Perdonami se esagero, ma ti ho detto che non siamo così... formali a Mayene. Posso chiamarti Rand?»

Rand si sorprese a emettere un sospiro di rimpianto. C’era stato un baluginare negli occhi della donna, un piccolo cambiamento di espressione sparito rapidamente, quando aveva menzionato l’idea di sposare il Drago Rinato. Se non lo aveva considerato prima, lo aveva fatto adesso. Il Drago Rinato, non Rand al’Thor; l’uomo della Profezia, non il pastore dei Fiumi Gemelli. Rand non era propriamente colpito; alcune ragazze giù a casa gravitavano attorno chiunque si dimostrava più veloce o più forte nei giochi di Bel Tine, nel Giorno del Sole, e, di tanto in tanto, una donna posava gli occhi sull’uomo con il campo più ricco o il gregge più grosso. Sarebbe stato bello pensare che voleva Rand al’Thor. «È ora che tu vada, mia signora» le rispose tranquillo.

La donna gli si avvicinò. «Posso sentire i tuoi occhi su di me, Rand .» La voce della donna era calda e fumosa. «Non sono la ragazza di un villaggio attaccata al grembiule della madre e so cosa vuoi...»

«Pensi che sia fatto di pietra, donna?» Berelain sobbalzò, ma l’istante successivo stava attraversando il tappeto, protendendosi verso di lui, gli occhi due pozze scure che potevano trascinare un uomo nelle sue profondità.

«Le tue braccia sembrano solide come pietra. Se pensi di dover essere duro con me, va bene, finché mi stringi.» Le mani della donna gli sfiorarono il viso; dalle dita sembrarono schizzare delle scintille.

Senza pensare Rand incanalò il flusso ancora legato a sé, e all’improvviso la donna barcollò all’indietro, gli occhi sgranati per lo stupore, come se un muro d’aria la spingesse. Rand si accorse che era aria; spesso faceva cose senza sapere cosa stava facendo. Almeno, di solito ricordava come ripeterlo.

L’invisibile parete mobile sollevava onde sul tappeto, trascinando via l’abito che Berelain si era tolta, uno stivale che Rand aveva lanciato da una parte spogliandosi e un poggiapiedi di pelle rossa sul quale era appoggiato un volume di Eaban Vandes, La storia della Pietra di Tear, spingendoli mentre costringeva Berelain quasi contro il muro, recintandola. Al sicuro, lontano da lui. Rand legò il flusso — era il solo modo in cui poteva pensare di chiamare quel che aveva fatto — e non ebbe più bisogno di mantenere lo schermo. Per un momento studiò quel che aveva fatto, fin quando fu sicuro di essere capace di ripeterlo. Sembrava utile, specialmente la legatura.

Con gli occhi scuri ancora sgranati, Berelain si lanciò lungo i confini della prigione invisibile con mani tremanti. Il viso era bianco quasi quanto la striminzita veste di seta. Sgabello, stivale e libro giacevano ai piedi della donna, ammucchiati con il vestito.

«Per quanto lo rimpianga» le spiegò Rand «non parleremo nuovamente, se non in pubblico, mia signora.» Lo rimpiangeva sul serio. Qualunque fossero le ragioni della donna, era bellissima. Che io sia folgorato, sono uno sciocco! si disse. Non era sicuro se lo fosse perché pensava che era bellissima o perché stava mandandola via. «In realtà è meglio se organizzi il tuo rientro a Mayene al più presto possibile. Ti prometto che Tear non causerà nuovamente problemi a Mayene. Hai la mia parola.» Era una promessa valida solo fino a quando sarebbe vissuto, forse solo per il tempo in cui sarebbe rimasto nella Pietra, ma doveva offrirle qualcosa. Una benda per l’orgoglio ferito, un regalo per distoglierle la mente dalla paura.

Ma la paura della donna era già sotto controllo, almeno dall’esterno. Onestà e schiettezza colmavano il viso di Berelain, tutti gli sforzi per affascinarlo ormai svaniti. «Perdonami. Ho gestito malamente questa situazione. Non intendevo offenderti. Nel mio paese, una donna può discutere apertamente le sue idee con un uomo, o lui con lei. Rand, devi sapere che sei un uomo attraente, alto e forte. Sarei io quella fatta di pietra se non lo vedessi e ammirassi. Ti prego, non allontanarmi da te. Ti implorerò se lo desideri.» Si inginocchiò con grazia, come se danzasse. L’espressione ancora diceva che era sincera, che stava confessando tutto, ma, al tempo stesso, inginocchiandosi aveva fatto in modo di tirare ancora più in basso il già precario indumento, che sembrava in serio pericolo di cadere del tutto.

«Ti prego, Rand.»

Anche schermato dal vuoto com’era, rimase a bocca aperta, e non aveva nulla a che vedere con la bellezza o il fatto che fosse quasi nuda. Be’, solo parzialmente. Se i difensori della Pietra fossero stati determinati solo la metà di questa donna, allora mille, diecimila Aiel non avrebbero potuto prendere la Pietra.

«Sono lusingato, mia signora» rispose diplomaticamente. «Credimi, lo sono. Ma non sarebbe giusto nei tuoi confronti. Non posso darti ciò che meriti.» E lascia che deduca quel che vuole, aggiunse mentalmente.

Fuori, nell’oscurità, un gallo cantò.

Con sorpresa di Rand, Berelain fissò di colpo lo sguardo oltre lui. con gli occhi grandi come piattini. Spalancò la bocca e la sottile gola si incordò a causa di un grido che non voleva uscire. Rand si voltò di scatto, con la lama giallo-rossiccia di nuovo fra le mani.

Dall’ateo lato della stanza, uno degli specchi sui piedistalli gli proiettava indietro la propria immagine, un giovane uomo alto, con i capelli rossicci e gli occhi grigi, che indossava solo biancheria intima di lino e impugnava una spada ottenuta dal fuoco. L’immagine riflessa avanzò sul tappeto, sollevando la spada.

Sono impazzito, pensò. Il pensiero vagò al limitare del vuoto.

No! Anche lei lo ha visto. È reale.

Colse un movimento alla sua sinistra con la coda dell’occhio. Si voltò prima di pensare, sollevando la spada nella figura de la luna che sorge sulle acque. La lama squarciò la sagoma — la sua — che usciva da uno specchio sulla parete. La forma ondeggiò, esplose come tanti granelli di polvere che galleggiavano in aria, quindi svanì. L’immagine di Rand riapparve nello specchio, ma mentre lo faceva, mise le mani sulla cornice dello specchio. Rand era consapevole del movimento in tutti gli specchi della stanza.

Disperatamente affondò la lama contro lo specchio. I vetri argentati si frantumarono, ma sembrò che l’immagine si frantumasse prima. Gli sembrò di sentire un grido distante nella testa, la propria voce che urlava e sfumava. Mentre i frammenti di specchio cadevano, Rand sferzò all’infuori con il Potere. Ogni specchio della stanza esplose silenziosamente, facendo piovere i pezzi di vetro sul tappeto. Il grido morente che aveva nella testa rimbombava, inviandogli brividi lungo la schiena. Era la sua voce.

Si voltò di scatto per affrontare la figura che era uscita dallo specchio, proprio in tempo per bloccarne l’attacco, il ventaglio dispiegato contro le pietre che rotolano dalla montagna. La figura balzò all’indietro, e Rand si rese improvvisamente conto di non essere solo. Per quanto avesse distrutto gli specchi velocemente, altre due immagini riflesse erano sfuggite. Adesso stavano in piedi davanti a lui, tre copie di se stesso, complete di ferita raggrinzita e rotonda su un fianco, tutte che lo fissavano, con i volti deformati dall’odio e dal disprezzo, con un’insolita brama. Solo gli occhi delle sagome sembravano vuoti, privi di vita. Prima che potesse respirare, gli corsero incontro.

Rand si fece di lato con i frammenti di vetro rotto che gli tagliavano i piedi, passando di posizione in posizione, di figura in figura, cercando di affrontarne una alla volta. Stava usando tutto ciò che Lan, il Custode di Moiraine, gli aveva insegnato della scherma nelle esercitazioni quotidiane.

Doveva combattere contro tre entità contemporaneamente; se si fossero sostenute a vicenda sarebbe morto durante il primo minuto, ma ognuna lo combatteva per conto suo, come se le altre non esistessero. Anche così, non riusciva a bloccare del tutto le loro lame; in pochi minuti il sangue gli sgorgò dai lati del viso, dal torace e dalle braccia. La vecchia ferita si aprì, aggiungendo il suo flusso a macchiare di rosso la biancheria. Le figure avevano le sue conoscenze come i suoi lineamenti, ed erano tre contro uno. Le sedie e i tavoli caddero; porcellane del Popolo del Mare dal valore inestimabile giacevano a pezzi sul tappeto.

Rand sentiva la propria forza decrescere. Nessuna delle ferite che aveva riportato era fatale, tranne la vecchia ferita, ma tutte assieme... Non pensò nemmeno per un momento di chiedere aiuto agli Aiel fuori la porta. Le spesse pareti avrebbero smorzato anche un grido di morte. Qualsiasi cosa andasse fatta, doveva farla da solo. Combatteva avvolto nella fredda inespressività del vuoto, ma la paura grattava ai suoi limiti come i rami degli alberi agitati dalle folate di vento contro le finestre nella notte. La lama di Rand scivolò oltre uno degli opponenti per fendere un viso proprio sotto gli occhi — non poté fare a meno di sobbalzare; era il suo viso — il proprietario del viso che scivolava indietro quel tanto che bastava per evitare il taglio mortale. Il sangue sgorgava dai tagli, velando la bocca e il mento di cremisi, ma il volto deturpato non cambiò espressione, e quegli occhi vuoti non vacillarono mai. Lo voleva morto allo stesso modo in cui un uomo affamato bramava il cibo.

C’è qualcosa che possa ucciderli? si chiese. Tutti e tre sanguinavano grazie alle ferite che gli aveva inferto, ma questo non sembrava rallentarli come sentiva che stava accadendo a lui. Cercavano di evitare la sua spada, ma non sembrava si accorgessero di essere stati feriti. Se lo sono stati, pensò cupamente. Luce, se sanguinano possono essere feriti! Devono!

Aveva bisogno di una tregua, un momento per riprendere fiato, per riprendersi. All’improvviso balzò lontano da loro, sul letto, rotolando per la larghezza. Percepiva piuttosto che vederle lame che tagliavano le lenzuola, mancando di poco la carne. Ricadde in piedi barcollante, afferrando un piccolo tavolo per recuperare l’equilibrio. Il lucente piatto d’oro decorato d’argento ondeggiò. Uno dei doppioni si era arrampicato sul letto distrutto, scalciando piume d’oca mentre procedeva circospetto, con la spada pronta. Gli altri due stavano avanzando lentamente di lato, ancora incuranti l’uno dell’altro, concentrati solo su Rand. Gli occhi brillavano come vetro.

Rand fremette quando il dolore colpì la mano appoggiata al tavolo. Una delle immagini di se stesso, non più alta di quindici centimetri, rinfoderò la piccola spada. Istintivamente Rand afferrò la piccola figura prima che potesse colpirlo nuovamente. Si contorse nella presa, snudando i denti contro Rand, il quale divenne consapevole di piccoli movimenti tutti attorno alla stanza, di piccole immagini riflesse che uscivano dall’argento lucido. La mano cominciò a intorpidirsi, a diventare fredda, come se quelle cose gli stessero succhiando il calore dalla carne. Il calore di saidin cresceva interiormente; un’attività febbrile gli riempì la testa e il calore fluì nella mano ghiacciata.

Di colpo le piccole figure scoppiarono come bolle, e Rand sentì qualcosa fluire dentro di lui, qualche piccola parte della propria forza. Si mosse bruscamente, mentre piccoli scatti di vitalità sembravano colpirlo.

Quando sollevò la testa — chiedendosi perché non fosse morto — le piccole immagini che aveva visto di sfuggita erano sparite. Le tre più grandi stavano in piedi vacillanti, come se il recupero di forze di Rand fosse stato a loro discapito. Eppure non appena guardò in su, si consolidarono e avanzarono, anche se con maggiore cautela.

Rand si allontanò, pensando furiosamente, con la spada che minacciava prima l’uno e poi l’altro. Se continuava a combatterli come aveva fatto, prima o poi lo avrebbero ucciso. Lo sapeva con la stessa certezza con cui sapeva che stava sanguinando. Ma qualcosa legava fra loro le immagini. Assorbendo quella più piccola — il solo pensiero gli dava la nausea, ma era successo proprio quello — non solo si era portato appresso le altre, ma aveva anche colpito quelle più grandi, almeno per un momento. Se poteva fare lo stesso con una di loro, poteva distruggerle tutte e tre.

Il solo pensare di assorbirle gli faceva vagamente venir voglia di vomitare, ma non conosceva un altro modo. Non conosco questo sistema. Come ho fatto? Luce, cosa ho fatto? si chiedeva. Doveva entrare in contatto con una di loro, quantomeno toccarla; ne era sicuro. Ma se avesse provato ad avvicinarsi così tanto, avrebbe avuto tre lame che lo trapassavano nello stesso momento. Immagini riflesse. In quale misura sono ancora solo immagini riflesse? si chiedeva.

Sperando di non essere uno sciocco — se lo era, poteva benissimo essere uno sciocco morto — lasciò svanire la sua spada. Era pronto a rievocarla all’istante, ma quando la spada fatta di fuoco scomparve dall’esistenza, lo stesso accadde a quelle degli altri tre. Per un momento la confusione si dipinse sui volti delle tre copie del viso di Rand, una di loro una sanguinolenta rovina. Ma prima che riuscisse ad afferrarli balzarono su di lui e caddero tutti e quattro al suolo in un groviglio di braccia, rotolando sui tappeto coperto di vetri.

Il freddo impregnava Rand. L’insensibilità gli risaliva le gambe, le ossa, fino a quando percepì i frammenti di specchio, l’argento delle porcellane che gli affondavano nella carne. Qualcosa vicino al panico lampeggiò nel vuoto che lo circondava. Forse aveva commesso un errore fatale. Queste immagini erano più grandi di quella che aveva assorbito, e stavano risucchiando più calore da lui. Non solo il calore. Mentre diventava più freddo, gli occhi grigi vitrei che lo fissavano stavano acquistando vita. Con un’agghiacciante certezza sapeva che se fosse morto, la lotta non sarebbe finita. I tre si sarebbero rivoltati l’uno contro l’altro fino a quando non ne fosse rimasto uno solo, e quello avrebbe avuto la sua vita, i suoi ricordi, sarebbe stato lui.

Lottò ostinatamente, affannandosi maggiormente man mano che si indeboliva. Richiamava saidin, cercando di colmarsi con il suo calore. Anche il voltastomaco della contaminazione era benvenuto, poiché più ne provava, più saidin lo inondava. Se lo stomaco poteva ribellarsi, significava che era ancora vivo e se viveva, poteva lottare. Ma come? Come? Che cosa ho fatto prima? Saidin infuriava dentro di lui fino a quando sembrò che se fosse sopravvissuto ai suoi attaccanti, sarebbe comunque stato consumato dal Potere. Come l’ho fatto? Tutto quello che riusciva a fare era tirare saidin, e provare... protendersi... sforzarsi...

Una delle tre immagini svanì — Rand la sentì scivolare dentro di sé: era come se fosse caduto da una grande altezza di piatto su un pavimento di roccia — quindi le altre due la seguirono. L’impatto lo sbalzò sulla schiena, dove giacque fissando l’intonaco lavorato del soffitto con gli sbalzi dorati, crogiolandosi all’idea che ancora respirava.

Il Potere si dilatava in ogni fessura del suo essere. Voleva vomitare tutti i pasti che aveva mangiato in vita sua. Si sentiva così vivo che, a confronto, quando non era pervaso da saidin era come se vivesse da ombra. Poteva fiutare la cera d’api delle candele, e l’olio nelle lampade. Poteva percepire ogni fibra del tappeto contro la schiena. Avvertiva ogni taglio nella carne, ogni Sfregio, tacca, ogni livido. Mantenne il contatto con saidin.

Uno dei Reietti aveva provato a ucciderlo. O forse tutti. Doveva essere stato quello, a meno che il Tenebroso non fosse nuovamente libero, nel qual caso non credeva avrebbe affrontato una cosa semplice come questa. E mantenne il contatto con la Vera Fonte.

A meno che non lo abbia fatto io. È possibile che odio abbastanza quello che sono da cercare di uccidermi? Senza nemmeno saperlo? Luce, devo imparare a controllarlo. Devo! Pensò.

Si tirò su dolorosamente. Lasciando impronte insanguinate sul tappeto, zoppicò verso il piedistallo dove era riposta Callandor. Era ricoperto del sangue di centinaia di tagli. Sollevò la spada e la lama vitrea avvampò del Potere che fluiva in essa. La spada che non è una spada. Quella lama, apparentemente di vetro, potrebbe tagliare bene quanto l’acciaio più fine, eppure Callandor non è realmente una spada, piuttosto un residuo dell’Epoca Leggendaria, un sa’angreal. Con l’aiuto di uno dei pochi angreal sopravvissuti alla Guerra dell’Ombra e alla Frattura del Mondo, era possibile incanalare flussi dell’Unico Potere che altrimenti avrebbero incenerito l’incanalatore. Con uno dei sa’angreal, ancor più rari, il flusso poteva essere incrementato più di quanto era possibile con un angreal.

Callandor, che può essere utilizzata da un solo uomo, legata al Drago Rinato da tremila anni di leggende e profezie, era uno dei più potenti sa’angreal mai creati. Con Callandor avrebbe potuto radere al suolo le mura di una città in un colpo solo. Con Callandor fra le mani avrebbe potuto affrontare anche uno dei Reietti. Erano loro. Dovevano essere loro! pensò.

Di colpo si accorse che non aveva sentito un solo suono provenire da Berelain.

Quasi temendo di vederla morta, si voltò.

Ancora in ginocchio, lei trasalì. Aveva di nuovo indosso l’abito, e se lo teneva stretto addosso come un’armatura d’acciaio, o una parete di pietra. Con il volto bianco come la neve, si umettò le labbra. «Quali sono...?» deglutì e iniziò nuovamente. «Quali...?» Non riusciva a finire la frase.

«Io sono il solo» rispose gentilmente. «Quello che stavi trattando come se fossimo promessi.» Intendeva calmarla, forse farla sorridere — di certo una donna così forte come si era dimostrata poteva sorridere, anche di fronte a un uomo inzuppato di sangue — ma lei si chinò in avanti, premendo il viso contro il pavimento.

«Mi scuso umilmente per averti offeso in tal misura, lord Drago» La voce affannata sembrava umile, e spaventata. Del tutto estranea a quel che la donna era. «Ti prego di dimenticare la mia offesa, e di perdonarmi. Non ti disturberò ancora. Lo giuro, mio lord Drago. Sul nome di mia madre e per la Luce, lo giuro.»

Rand rilasciò il flusso annodato, il muro invisibile che confinava la donna divenne un veloce movimento d’aria che le arruffò l’abito. «Non c’è niente da perdonare» le rispose stancamente. «Vai come desideri.»

Berelain si alzò esitante, allungò una mano e sospirò di sollievo quando non incontrò nulla. Sollevando le gonne dell’abito, cominciò a incamminarsi sul tappeto ricoperto di vetri, con i frammenti che facevano attrito sotto le scarpe di velluto. Quando fu vicina alla porta si fermò, guardandolo con uno sforzo palese. Non riusciva a sostenere il suo sguardo. «Ti manderò gli Aiel, se lo desideri. Potrei anche mandare a chiamare una delle Aes Sedai per prendersi cura delle tue ferite.»

Preferirebbe trovarsi in una stanza con un Myrddraal ora, o il Tenebroso il persona, ma non è una femminuccia, pensò Rand. «Grazie» rispose calmo «ma no. Apprezzerei molto se non parlassi di quanto è accaduto qui dentro a nessuno. Non ancora. Farò quel che dev’essere fatto.» Dovevano essere stati i Reietti, pensò ancora.

«Come il mio lord Drago comanda.» Fece una riverenza decisa e si affrettò a uscire, forse spaventata all’idea che lui potesse cambiare idea sul lasciarla andare via.

«Quanto il Tenebroso in persona» mormorò mentre la porta si chiudeva alle spalle della donna.

Zoppicando ai piedi al letto, si accasciò sulla cassapanca e si appoggiò Callandor sulle ginocchia, le mani insanguinate sulla lama splendente. Con quella fra le mani, anche uno dei Reietti lo avrebbe temuto. Fra un attimo avrebbe mandato a chiamare Moiraine per guarire le ferite. Fra un attimo avrebbe parlato con gli Aiel, e sarebbe nuovamente divenuto il Drago Rinato. Ma per ora voleva solo rimanere seduto e ricordare un pastore di nome Rand al’Thor.

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