1 Semi dell’Ombra

La Ruota del Tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda; la leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato, quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza, un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa, il vento si alzò nella vasta pianura chiamata il Prato di Caralain. Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio né fine, al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.

Il vento soffiava da nord e da ovest sotto al sole del primo mattino, su chilometri sterminati di erba ondeggiante e boschetti radi, sul veloce fiume Luan, oltre le cime delle zanne spezzate di Montedrago, montagna leggendaria che torreggiava sul lento rigonfiarsi della pianura ondeggiante, così alta che le nuvole inghirlandavano il picco a metà strada dalla cima fumante. Montedrago, dove era morto il Drago — e con lui, sostenevano alcuni, l’Epoca Leggendaria — dove le Profezie proclamavano sarebbe rinato. Il vento soffiava da nord e da ovest, attraverso i villaggi di Jualdhe, Darein e Alindaer, dove ponti simili a merletti di pietra si protendevano dalle Mura Lucenti, le grandi fortificazioni bianche di quella che molti chiamavano la città più grandiosa del mondo. Tar Valon. Una città appena sfiorata ogni sera dalle ombre di Montedrago.

All’interno di quelle mura, edifici costruiti dagli Ogier ben oltre duemila anni prima sembravano crescere dal terreno piuttosto che esservi stati costruiti sopra, o facevano pensare al lavoro del vento e dell’acqua piuttosto che a quello delle mitiche mani dei costruttori. Alcuni edifici somigliavano a uccelli che stavano spiccando il volo, o a grosse conchiglie provenienti da mari lontani.

Torri vertiginose, svasate, scanalate o a spirale si elevavano connesse da ponti sospesi a centinaia di metri dal suolo, spesso privi di ringhiere. Solo coloro che erano stati a lungo a Tar Valon riuscivano a non guardarsi intorno a bocca aperta come i campagnoli che non avevano mai lasciato le fattorie.

La più grande di tutte le torri, la Torre Bianca, dominava la città, luccicante sotto al sole come un osso lucidato. La Ruota del Tempo gira intorno a Tar Valon, così sostiene la gente in città, e Tar Valon gira intorno alla Torre. La prima cosa che vedevano i viaggiatori diretti a Tar Valon, prima che i cavalli giungessero in vista dei ponti, prima che i capitani dei vascelli fluviali avvistassero l’isola, era la Torre che rifletteva la luce del sole come un faro. Non meravigliava quindi che la grande piazza intorno all’area della Torre cinta da mura sotto lo sguardo imponente di essa sembrasse più piccola di quanto non fosse, e le persone simili a insetti. La Torre Bianca avrebbe anche potuto essere la più piccola di Tar Valon: essendo il fulcro del potere avrebbe comunque dominato con la paura la città sull’isola.

Malgrado la gran quantità di persone, la folla non riempiva neanche metà della piazza. Lungo i margini la gente si spintonava in una massa pullulante, tutta indaffarata nelle faccende quotidiane, ma vicino alla zona della Torre erano in pochi, nella striscia di lastricato spoglio, largo almeno cinquanta passi, che delimitava le alte mura bianche. Naturalmente le Aes Sedai erano più che rispettate a Tar Valon, e l’Amyrlin Seat governava la città come anche le Aes Sedai, ma pochi volevano trovarsi vicino al potere più di quanto dovevano. C’era una differenza fra l’essere fieri di avere un grande camino nel proprio salone e camminare fra le fiamme.

Pochissimi si avvicinavano all’ampia scalinata che portava verso la Torre, alle intricate porte intagliate abbastanza larghe da permettere il passaggio di una dozzina di persone affiancate. Queste porte erano spalancate, accoglienti. C’era sempre qualcuno che aveva bisogno di un aiuto o di una risposta che credeva potessero fornirgli solo le Aes Sedai; e venivano da lontano e da vicino, dall’Arafel e dal Ghealdan, dalla Saldea e da liliali. Molti avrebbero trovato guida o assistenza all’interno della Torre, anche se spesso non era ciò che si erano aspettati o avevano sperato di ricevere.

Min tenne sollevato l’ampio cappuccio del mantello per nascondere il viso fra le ombre profonde. Malgrado il caldo della giornata l’indumento era abbastanza leggero da non attirare commenti, non su una donna così palesemente timida. Molte persone diventavano timide quando si recavano alla Torre. Non c’era nulla di lei che attraesse l’attenzione. I capelli neri erano più lunghi dell’ultima volta che si era trovata lì dentro, anche se ancora non le arrivavano nemmeno alle spalle, e l’abito, tutto blu se non per alcune piccole applicazioni di merletto bianco di Jaerecuz attorno al collo e ai polsi, sarebbe stato consono per la figlia di un contadino che se la passava bene e che indossava l’abito della festa per la visita alla Torre, proprio come le altre donne che stavano avvicinandosi alle scale. Min sperava almeno di somigliare alle altre. Aveva dovuto smettere di fissarle per vedere se camminavano o si comportavano differentemente. Posso farlo, si ripeteva.

Di certo non era giunta fin lì per tornare indietro. L’abito era un buon travestimento. Quelle che si ricordavano di lei nella Torre avevano in mente una giovane donna con i capelli molto corti, sempre con una giubba e brache da ragazzo, mai un abito femminile. Doveva essere un buon travestimento. Non aveva altra scelta.

Lo stomaco si stava agitando sempre più man mano che si avvicinava alla Torre, e Min aumentò la presa sul fagotto che stringeva al petto. Là dentro c’erano i suoi soliti abiti e gli stivali buoni, più tutte le sue proprietà, tranne il cavallo lasciato in una locanda non lontano dalla piazza. Con un po’ di fortuna, in poche ore sarebbe stata di nuovo in groppa al castrone, cavalcando verso il ponte di Ostrein e la strada verso sud.

Non era per nulla impaziente di rimontare a cavallo così presto, non dopo settimane trascorse in sella senza mai un giorno di pausa, ma desiderava ardentemente lasciare quel posto. Non aveva mai considerato la Torre Bianca un luogo ospitale, e in quel momento sembrava spaventoso quasi quanto la prigione del Tenebroso a Shayol Ghul. Rabbrividendo desiderò non aver pensato al Tenebroso. Mi chiedo se Moiraine creda che sia venuta fin qui solo perché me lo ha chiesto. Che la Luce mi aiuti, mi sto comportando come una ragazzina insulsa. Fare sciocchezze per via di uno stupido uomo! pensò.

Salì le scale a disagio — ogni gradino era abbastanza profondo da consentirle di fare due passi prima di raggiungere il successivo — e, a differenza della maggior parte delle altre donne, non si fermò per rivolgere sguardi timorosi verso la pallida struttura della Torre. Voleva farla finita il più presto possibile. All’ingresso, dei passaggi a volta quasi circondavano l’ampia sala rotonda, ma i supplicanti si accalcavano al centro della stanza, mescolandosi fra loro sotto un soffitto a cupola. Il chiaro pavimento di pietra era stato tirato a lucido e consumato nei secoli da innumerevoli piedi nervosi. Nessuno pensava a niente, se non al luogo in cui si trovavano e al perché. Vide un contadino e sua moglie in rozzi abiti di lana che si tenevano per le mani callose, spalla a spalla con una mercante in un abito di seta e velluto, con alle calcagna una cameriera che teneva stretto un piccolo scrigno d’argento lavorato, senza dubbio il dono della padrona per la Torre. In altri luoghi la mercante avrebbe guardato altezzosamente i contadini che le stavano così vicini e loro avrebbero potuto benissimo battersi la fronte e arretrare scusandosi. Non ora.

Non qui.

C’erano pochi uomini fra i questuanti, cosa che non sorprendeva Min. La maggior parte degli uomini era nervosa attorno alle Aes Sedai. Tutti sapevano che era stato un Aes Sedai uomo, quando ancora ce ne erano, il responsabile della Frattura del Mondo. I tremila anni trascorsi non avevano indebolito quel ricordo, anche se il tempo aveva alterato molti dettagli. I bambini erano ancora spaventati dalle favole degli uomini che potevano incanalare l’Unico Potere, destinati a impazzire a causa della contaminazione del Tenebroso su saidin, la metà maschile della Vera Fonte. La storia di Lews Therin Telamon, il Drago, era la peggiore. Lews Therin Kinslayer, che aveva dato il via alla Frattura. A dire il vero, quelle storie spaventavano anche gli adulti. Le Profezie proclamavano che il Drago sarebbe rinato nell’ora di maggior bisogno dell’umanità, per combattere il Tenebroso durante Tarmon Gai’don, l’Ultima Battaglia, ma questo faceva poca differenza nel modo in cui la gente guardava a qualsiasi connessione fra gli uomini e il Potere. Adesso ogni Aes Sedai avrebbe dato la caccia a un uomo che poteva incanalare; delle sette Ajah, la Rossa non faceva altro.

Naturalmente niente di tutto ciò aveva a che fare con le richieste d’aiuto alle Aes Sedai, eppure pochi uomini si sentivano a loro agio nell’essere collegati in qualsiasi modo alle Aes Sedai e al Potere. A parte i Custodi. Ma ogni Custode era legato a un’Aes Sedai, e difficilmente potevano essere considerati come il resto degli uomini. C’era un detto: ‘un uomo si taglierebbe la mano per liberarsi di una scheggia prima di chiedere aiuto a un’Aes Sedai’. Le donne lo usavano per commentare la stupida testardaggine degli uomini, Min però aveva sentito alcuni uomini sostenere che la perdita di una mano poteva essere la decisione migliore.

Si chiese cosa avrebbero fatto queste persone se fossero state a conoscenza di quanto sapeva lei. Forse sarebbero fuggite gridando. E se avessero scoperto il motivo della sua presenza, forse non sarebbe sopravvissuta fino al momento di essere catturata dalle guardie della Torre e gettata in una cella. Aveva delle amiche nella Torre, ma nessuna che avesse potere o fosse influente. Se lo scopo della sua visita veniva scoperto era poco probabile che l’avrebbero aiutata, piuttosto le avrebbe incoraggiate a far allestire il patibolo, o a far venire il boia alle sue spalle. Questo naturalmente se fosse sopravvissuta a lungo per essere processata; più probabilmente le avrebbero chiuso la bocca per sempre molto prima del processo.

Si disse di smetterla di pensare certe cose. Entrerò e uscirò. Che la Luce folgori Rand al’Thor per avermi cacciata in tutto questo! pensò adirata.

Tre o quattro Ammesse, donne dell’età di Min o forse un po’ più grandi, si aggiravano per la stanza rotonda parlando a bassa voce a coloro che chiedevano udienza. Sui loro abiti bianchi non c’era nessun ricamo tranne le sette bande colorate sull’orlo del vestito, una striscia per ogni Ajah. Di tanto in tanto una novizia, una donna ancora più giovane o una ragazza vestita completamente di bianco, si presentava per guidare qualcuno dentro la Torre. I supplicanti seguivano sempre le novizie con un insolito miscuglio di eccitazione, impazienza e riluttanza che appesantiva i passi.

Min aumentò la presa sul fagotto quando una delle Ammesse si fermò di fronte a lei. «Che la Luce ti illumini» proclamò superficialmente la donna dai capelli ricci. «Mi chiamo Faolain. Come può esserti d’aiuto la Torre?»

Sul viso scuro e rotondo di Faolain trapelava la pazienza di qualcuno che stava facendo un lavoro tedioso quando avrebbe preferito fare qualcos’altro. Probabilmente studiare, da quel che Min sapeva delle Ammesse. Imparare a diventare Aes Sedai. Più importante comunque era l’impassibilità negli occhi dell’Ammessa; si erano incontrate quando Min era stata nella Torre, anche se solo per poco.

In ogni caso Min abbassò il viso in. presunta diffidenza. Non era innaturale; molti campagnoli non capivano del tutto la grande differenza fra Ammessa e Aes Sedai. Celando il viso dietro il bordo del cappuccio, guardò lontano da Faolain.

«Ho una domanda che devo porre all’Amyrlin Seat» iniziò a spiegare, quindi si interruppe bruscamente quando tre Aes Sedai si fermarono per guardare nell’ingresso, due da un’arcata, una dall’altra.

Ammesse e novizie facevano la riverenza quando erano in prossimità delle Aes Sedai, ma proseguivano nei loro compiti, forse più vivacemente. Tutto lì. Ma non era lo stesso per i questuanti. Sembrava che trattenessero il respiro. Lontano dalla Torre Bianca, da Tar Valon, forse avrebbero potuto pensare che le Aes Sedai erano semplicemente tre donne delle quali non potevano indovinare l’età, tre donne nel fiore degli anni, se pur con maggiore maturità di quanto le guance distese suggerissero. Nella Torre però, non c’era dubbio. Una donna che aveva lavorato a lungo con l’Unico Potere non era toccata dal tempo come le altre. Nella Torre, nessuno aveva bisogno di vedere l’anello d’oro con il Gran Serpente per sapere che erano Aes Sedai.

Un’ondata di riverenze si estese fra la calca e gli inchini spasmodici si diffusero fra i pochi uomini. Due o tre persone si inginocchiarono addirittura. La ricca mercante sembrava spaventata; la coppia di contadini al suo fianco sembrava fissare delle leggende che avevano preso vita. Come comportarsi con le Aes Sedai per molti era una questione di sentito dire; era improbabile che qualcuno dei presenti, tranne quelli che vivevano a Tar Valon, avesse visto un’Aes Sedai prima di quel momento, e probabilmente nemmeno gli abitanti di Tar Valon vi si erano trovati così vicino. Ma non era stato quello a bloccare la lingua di Min.

A volte, non spesso, aveva delle visioni quando guardava la gente, immagini e aure che di solito divampavano e sparivano in pochi momenti. Occasionalmente riusciva a capirne il significato. Accadeva di rado — molto più raramente delle visioni stesse — ma quando capiva, era sempre nel giusto.

A differenza di molte altre persone, le Aes Sedai — e i loro Custodi — avevano sempre immagini e aure attorno a loro, a volte così numerose, danzanti e mutanti che a Min provocavano le vertigini. La quantità d’immagini non influiva sull’interpretazione; non riusciva facilmente a decifrare il significato con le Aes Sedai come con gli altri. Ma stavolta sapeva più di quanto volesse, e la consapevolezza le procurò i brividi. Una donna slanciata con i capelli neri che le arrivavano alla vita, la sola delle tre che riconobbe — si chiamava Ananda e apparteneva all’Ajah Gialla — aveva attorno a sé un malsano alone marrone, raggrinzito e spaccato da fessure marce che si aprivano e si allargavano sull’aura mentre si decomponevano. La minuta Aes Sedai dai capelli chiari vicino ad Ananda apparteneva all’Ajah Verde, come mostravano le frange dello scialle. Per un momento vide su di esso la Fiamma Bianca di Tar Valon mentre la donna si voltava. Sulle spalle dell’Aes Sedai, come se fosse annidato fra i tralci di vite e i rami fioriti dei meli ricamati sullo scialle, c’era un teschio umano. Un piccolo teschio femminile completamente pulito e sbiancato dal sole. La terza, una graziosa donna paffuta verso il centro della stanza, non portava lo scialle; molte Aes Sedai non lo indossavano, se non per le cerimonie. Il mento alto e il portamento parlavano di forza e orgoglio. Sembrava posare i freddi occhi azzurri sui questuanti attraverso una tenda stracciata di sangue, pennellate cremisi che le colavano sul viso.

Sangue, teschio e alone svanirono nella danza di immagini attorno alle tre donne, si ripresentarono e scomparvero nuovamente. I richiedenti le fissavano riverenti e vedevano solamente tre donne che potevano toccare la Vera Fonte e incanalare l’Unico Potere. Solo Min aveva visto il resto. Solo Min sapeva che queste tre donne sarebbero morte. Tutte e tre lo stesso giorno.

«L’Amyrlin non può vedere tutti» rispose Faolain con malcelata impazienza. «La prossima udienza pubblica non sarà prima di dieci giorni. Dimmi cosa vuoi, e farò in modo di organizzarti un incontro con la Sorella più in grado di aiutarti.»

Gli occhi di Min si posarono sul fagotto che stringeva fra le mani e lì rimasero, in parte perché così non avrebbe dovuto vedere nuovamente ciò che aveva appena visto. Tutte e tre! Luce! pensò. Cosa poteva provocare la morte di tre Aes Sedai nello stesso giorno? Ma lei sapeva. Sapeva. «Ho il diritto di parlare all’Amyrlin Seat. In persona.» Questa richiesta veniva posta, raramente — chi avrebbe osato? — ma veniva posta. «Ogni donna ha questo diritto e io lo chiedo.»

«Credi che l’Amyrlin Seat in persona riceva tutti quelli che vengono alla Torre Bianca? Di certo un’altra Aes Sedai può aiutarti.» Faolain diede grande enfasi ai titoli, come per sopraffare Min. «Adesso dimmi di cosa si tratta e come ti chiami, così la novizia saprà chi venire a chiamare.»

«Mi chiamo... Elmindreda.» Min sussultò suo malgrado. Aveva sempre odiato quel nome, ma l’Amyrlin era una dei pochi esseri viventi che lo avesse sentito. Se solo se ne fosse ricordata. «Ho il diritto di parlare con l’Amyrlin e la mia domanda è solo per le sue orecchie. Ne ho il diritto.»

L’Ammessa inarcò un sopracciglio. «Elmindreda?» Distorse la bocca in un sorriso divertito. «E proclami i tuoi diritti. Molto bene. Manderò il messaggio alla Custode degli Annali che desideri vedere l’Amyrlin Seat in persona, Elmindreda.»

Min aveva voglia di schiaffeggiare la donna per l’enfasi che aveva posto sul nome, ma si trattenne e mormorò: «Grazie.»

«Non ringraziarmi ancora. Senza dubbio trascorreranno ore prima che la Custode trovi il tempo di inviare una risposta, e di certo potrai porre la tua domanda alla Madre durante la prossima udienza pubblica. Aspetta pazientemente, Elmindreda.» Rivolse a Min un sorriso teso, quasi malizioso, mentre si voltava per andare via.

Digrignando i denti Min afferrò il fagotto e si appoggiò contro una parete fra due arcate, dove provò a fondersi con la pallida pietra lavorata. Non fidarti di nessuno ed evita di farti notare fino a quando non raggiungerai l’Amyrlin, le aveva ordinato Moiraine. Moiraine era un’Aes Sedai di cui si fidava. La maggior parte delle volte. In ogni caso era un buon consiglio. Tutto quello che doveva fare era raggiungere l’Amyrlin, e sarebbe finita. Avrebbe potuto indossare nuovamente i suoi abiti, vedere i suoi amici e andare via. Non ci sarebbe stato più bisogno di nascondersi.

Fu sollevata nel vedere che tutte le Aes Sedai erano sparite. Tre Aes Sedai che sarebbero morte lo stesso giorno. Era impossibile, la sola parola che le veniva in mente. Eppure sarebbe accaduto. Nulla che avrebbe potuto dire o fare avrebbe cambiato quel fato — quando sapeva il significato di un’immagine, il fatto sarebbe accaduto — doveva parlarne all’Amyrlin. Poteva essere importante come le notizie che portava da Moiraine, anche se era difficile crederlo.

Un’altra Ammessa giunse a rimpiazzare quella di prima, e agli occhi di Min le sbarre che fluttuarono davanti a quel volto dalle guance rosse ricordavano una gabbia. Sheriam, la Maestra delle novizie, guardò nella sala — dopo un’occhiata Min mantenne gli occhi bassi. Sheriam la conosceva fin troppo bene — e il volto dell’Aes Sedai dai capelli rossi apparve ferito e coperto di lividi. Era solo una visione, naturalmente, ma in ogni caso Min dovette mordersi il labbro per reprimere un’esclamazione. Sheriam, con la sua calma autorità e certezza, era indistruttibile come la Torre. Di certo nulla poteva farle del male. Eppure qualcosa lo avrebbe fatto.

Un’Aes Sedai sconosciuta a Min, con lo scialle dell’Ajah Marrone, accompagnava alla porta una donna robusta che indossava un abito di fine lana rossa. La donna camminava con la stessa leggiadria di una ragazza, il viso era splendente e rideva quasi di piacere. Anche la Sorella Marrone sorrideva, ma la sua aura svanì come una candela in fiamme. Morte. Ferite, prigionia e ancora morte. Per Min era come se fosse stampato su una pagina.

Abbassò lo sguardo. Non voleva vedere altro. Spero che si ricordi, pensò. Non si era mai sentita disperata durante il lungo viaggio attraverso le montagne della Nebbia, nemmeno nelle due occasioni in cui qualcuno aveva provato a rubarle il cavallo, ma adesso lo era. Luce, fa’ che si ricordi quel maledetto nome, si disse.

«Signora Elmindreda?»

Min sobbalzò. La novizia dai capelli neri in piedi davanti a lei era appena abbastanza grande da stare lontano da casa, forse aveva quindici o sedici anni, però si sforzava di mantenere un certo contegno. «Sì? Sono... Quello è il mio nome.»

«Mi chiamo Sahra. Se vuoi seguirmi...» la voce stridula di Sahra toccò una nota di meraviglia «... l’Amyrlin Seat ti riceverà adesso nel suo studio.»

Min mandò un sospiro di sollievo e la seguì colma di aspettativa.

Il profondo cappuccio del mantello ancora le nascondeva il viso, ma non le impediva di vedere, e più vedeva, più desiderava incontrare l’Amyrlin. Lungo gli ampi corridoi a spirale coperti di piastrelle dai colori vivaci, con i quadri appesi alle pareti e le lampade, camminavano poche persone — la Torre era stata costruita per ospitarne un numero ben maggiore — ma quasi tutte quelle che incontrava salendo erano circondate da immagini o aure che le parlavano di violenza e pericolo.

I Custodi passavano rapidi lanciando appena uno sguardo alle due donne, uomini che si muovevano come lupi a caccia, le spade erano solo un’aggiunta a quell’aspetto mortale, ma tutti sembravano avere volti insanguinati o ferite aperte. Attorno alle loro teste danzavano minacciosamente spade e lance. Le aure lampeggiano selvaggiamente, tremolavano sul ferale filo della morte. Vide cadaveri camminare, sapeva che sarebbero morti lo stesso giorno delle tre Aes Sedai nell’entrata, o al massimo il giorno successivo. Anche alcuni inservienti, uomini e donne con la Fiamma di Tar Valon ricamata sul petto che si affrettavano nelle loro faccende, portavano i segni della violenza. Un’Aes Sedai che aveva intravisto in fondo a un corridoio sembrava avere catene sospese nell’aria attorno a lei, e un’altra, che attraversava il corridoio davanti a Min e la sua guida, sembrò indossare per quasi tutto il tempo della sua apparizione un collare d’argento attorno al collo. Min trattenne il respiro a quella visione; voleva gridare.

«Può essere travolgente per qualcuno che non l’ha mai vista prima» spiegò Sahra, cercando — senza riuscirci — di far sembrare che per lei la Torre fosse un luogo ordinario come il proprio villaggio. «Ma qui sei al sicuro. L’Amyrlin Seat sistemerà tutto.» La voce della ragazza stridette quando menzionò il nome dell’Amyrlin.

«Luce, fa’ che sia proprio così» mormorò Min. La novizia le rivolse un sorriso con l’intenzione di tranquillizzarla.

Quando raggiunsero la sala fuori lo studio dell’Amyrlin, lo stomaco di Min era in totale agitazione mentre tallonava Sahra. Solo il bisogno di fingersi un’estranea l’aveva trattenuta dal correre avanti già da un po’.

Una delle porte dello studio dell’Amyrlin si aprì, e un giovane uomo dai capelli rosso oro ne uscì, quasi scontrandosi con Min e la sua guida. Alto, eretto e forte, con indosso una giacca azzurra fittamente decorata con ricami dorati sulle maniche e il colletto, Gawyn della casata Trakand, il più grande dei figli della regina Morgase di Andor, assomigliava in tutto a un giovane, fiero lord. Un giovane lord furioso. Lei non aveva avuto tempo di abbassare la testa; la stava fissando sotto il cappuccio, dritto in faccia.

Il ragazzo sgranò gli occhi per la sorpresa, quindi li chiuse come fessure di ghiaccio azzurro. «Così sei tornata. Sai dove sono andate mia sorella ed Egwene?»

«Non sono qui?» Min dimenticò tutto nel panico crescente. Prima di accorgersi di cosa stava facendo, lo aveva afferrato per le maniche, fissandolo con un’espressione agitata e costringendolo a fare un passo indietro. «Gawyn, sono partite per raggiungere la Torre mesi fa! Elayne, Egwene e anche Nynaeve. Assieme a Verin Sedai e... Gawyn... io... io...»

«Calmati» la incoraggiò, allentando gentilmente la presa della ragazza sulle maniche della giubba. «Luce! Non intendevo spaventarti a questo modo. Sono arrivate sane e salve. E non hanno voluto dire una parola su dove fossero state, o perché. Non a me. C’è una vaga speranza che possa farlo tu?» Min pensò che avesse mantenuto un’espressione neutra, ma il ragazzo le rivolse uno sguardo e disse: «Lo sapevo. In questo posto ci sono più segreti che... Sono di nuovo sparite. E anche Nynaeve.» Nynaeve fu quasi un’aggiunta dell’ultimo momento; poteva anche essere un’amica di Min, ma per lui non significava nulla. La voce di Gawyn divenne nuovamente dura e sempre più tesa di momento in momento. «Di nuovo senza dire una parola. Non una parola! In teoria dovrebbero trovarsi in una fattoria da qualche parte a scontare una punizione per essere scappate, ma non riesco a scoprire dove. L’Amyrlin non vuole darmi una risposta chiara.»

Min trasalì; strisce di sangue rappreso avevano trasformato per un attimo il volto di Gawyn in una maschera bieca. Due martellate: le sue amiche erano sparite — il pensiero di vederle le aveva alleviato il viaggio verso la Torre, il sapere che erano lì — e Gawyn sarebbe stato ferito a morte quello stesso giorno.

Malgrado tutto quello che aveva visto da quando era entrata nella Torre e malgrado la sua paura, fino a quel momento niente l’aveva colpita personalmente. Il disastro che avrebbe travolto la Torre si sarebbe propagato lontano da Tar Valon, ma lei non apparteneva alla Torre né avrebbe potuto mai. Gawyn però era qualcuno che conosceva, che le piaceva, e sarebbe stato ferito in modo più serio di quanto suggerisse il sangue, più profondamente delle semplici ferite della carne. Min fu travolta dal pensiero che se la catastrofe si fosse impadronita della Torre, non ne sarebbero state danneggiate solo le Aes Sedai lontane, donne alle quali non si era mai sentita vicina, ma anche le sue amiche. Loro appartenevano alla Torre.

Da un lato era contenta che Egwene e le altre non si trovassero lì, felice di non poterle guardare e, forse, vedere su di loro i segni della morte. Ma dall’altro voleva essere sicura, guardandole, di non vedere nulla o di sapere che sarebbero vissute. Dov’erano, per la Luce? Perché erano andate via? Conoscendole, pensava che se Gawyn non sapeva dove si trovassero era perché non volevano che sapesse. Poteva essere questo il motivo.

All’improvviso si ricordò dove si trovava e perché, e che non era sola con Gawyn. Sahra pareva essersi dimenticata che stava accompagnando Min dall’Amyrlin; pareva aver dimenticato tutto tranne il giovane signore, al quale faceva occhi dolci che lui non notava. In ogni modo non aveva più senso far finta di essere estranea alla Torre. Si trovava alla porta dell’Amyrlin; niente ormai poteva fermarla.

«Gawyn, non so dove si trovano, ma se stanno scontando una punizione in una fattoria, probabilmente sono tutte sudate e immerse nel fango fino ai fianchi; di certo tu sarai l’ultimo che vogliono vedere.» In realtà non si sentiva molto più a suo agio per questa loro assenza. Troppe cose erano accadute e stavano accadendo, troppi eventi legati a loro e a lei. Ma non era impossibile che fossero state mandate via per scontare una pena. «Non le aiuterai facendo arrabbiare l’Amyrlin.»

«Non so se si trovano in una fattoria. O se sono vive. Perché tutto questo nascondersi e sfuggire se stanno semplicemente sradicando erbacce? Se accade una qualsiasi cosa a mia sorella... o a Egwene...» aggrottò le sopracciglia guardandosi le punte degli stivali. «In teoria dovrei vegliare su Elayne. Come faccio a proteggerla se nemmeno so dove si trova?»

Min sospirò. «Credi che ne abbia bisogno? Una qualsiasi di loro?» Certo, se l’Amyrlin le aveva mandate via, forse ne avevano bisogno davvero. L’Amyrlin era in grado di mandare una donna nella tana di un orso con niente altro che una verga, se fosse servito ai suoi scopi. E si sarebbe aspettata di veder tornare la donna con la pelle dell’orso o l’animale al guinzaglio, come le era stato ordinato. Ma dire una cosa simile a Gawyn avrebbe solamente infiammato il suo temperamento e aumentato le preoccupazioni. «Gawyn, si sono impegnate con la Torre. Non ti ringrazieranno per esserti immischiato.»

«So che Elayne non è una ragazzina» rispose pazientemente «anche se continua ad alternare le sue fughe infantili a giocare a fare l’Aes Sedai. Ma è mia sorella. Inoltre è l’erede al trono di Andor. Un giorno sarà una regina, dopo nostra madre. Andor ha bisogno che sia sana e salva per salire al trono, non di un’altra successione.»

Giocare a fare l’Aes Sedai? Apparentemente non si rendeva conto dell’enorme talento della sorella. Ogni erede al trono di Andor era stata mandata da sempre alla Torre per l’addestramento, fin da quando esisteva Andor, ma Elayne era la prima ad avere abbastanza talento per essere elevata al rango di Aes Sedai, e, fra l’altro, una di quelle potenti. Molto probabilmente non sapeva nemmeno che Egwene fosse altrettanto forte.

«Così la proteggerai che lo voglia o no?» rispose atona Min, con l’intenzione di lasciargli capire che stava commettendo un errore. Il ragazzo non raccolse l’avviso e annuì.

«È stato il mio dovere fin dal giorno in cui è nata. Il mio sangue dev’essere versato prima del suo, la mia vita sacrificata prima della sua. Ho prestato quel giuramento quando potevo vederla appena dal bordo della culla; Gareth Bryne dovette spiegarmene il significato. Non lo romperò adesso. Andor ha bisogno di lei più che di me.»

Aveva parlato con calma certezza, l’accettazione di una cosa naturale e giusta che aveva fatto scendere i brividi lungo la schiena di Min. Gli era sempre parso un ragazzo infantile, che rideva e scherzava, ma adesso era qualcosa di alieno. Pensò che il Creatore doveva essere stanco quando giunse il momento di creare gli uomini; a volte non sembravano affatto umani. «Ed Egwene? Che giuramento hai prestato nei suoi confronti?»

L’espressione di Gawyn non cambiò, ma spostò i piedi con cautela. «Naturalmente sono preoccupato per Egwene. E Nynaeve. Quel che accade alle compagne di Elayne può accadere anche a lei. Suppongo siano ancora assieme; difficilmente vedevo l’una senza l’altra.»

«Mia madre mi ha sempre detto di sposare uno che non sa mentire, e di certo tu sei qualificato. Ma credo che qualcun altro abbia pretese su di lei.»

«Alcune cose sono destinate ad accadere» rispose tranquilla Gawyn «e alcune non accadranno mai. Galad è depresso perché Egwene è andata via.» Galad, il suo fratellastro, era stato mandato con lui a Tar Valon per l’addestramento da Custode. Un’altra tradizione andorana. Galadedrid Damodred aveva preso seriamente il senso del dovere fino a trasformarlo in difetto, per come la vedeva Min, ma Gawyn non trovava nulla di sbagliato in lui. E non avrebbe dichiarato i propri sentimenti per la donna che Galad aveva nel cuore.

Voleva scuoterlo, inculcargli un po’ di buon senso, ma adesso non c’era tempo. Non con l’Amyrlin che aspettava, non con quello che aveva da dirle. Di certo non con Sahra là in piedi, occhi dolci o no. «Gawyn, sono stata convocata dall’Amyrlin. Dove posso trovarti quando avremo finito?»

«Sarò nel campo d’addestramento. Il solo momento in cui posso smettere di preoccuparmi è quando lavoro con la spada insieme a Hammar.»

Hammar era un mastro spadaccino e il Custode che insegnava la scherma. «Spesso resto lì fino al tramonto.»

«Bene, allora. Verrò non appena posso. E cerca di fare attenzione a quel che dici. Se fai arrabbiare l’Amyrlin, Elayne ed Egwene potrebbero condividerne le conseguenze.»

«Questo non posso prometterlo» le rispose con fermezza. «C’è qualcosa di sbagliato nel mondo. La guerra civile a Cairhien. Lo stesso e peggio a Tarabon e nell’Arad Doman. Falsi Draghi. Problemi e rumori di problemi ovunque. Non dico che dietro tutto questo ci sia la Torre, ma anche qui le cose non sono come dovrebbero essere. O come sembrano. La scomparsa di Elayne ed Egwene non è tutto. Eppure sono loro la parte che mi interessa. Scoprirò dove si trovano. E se le hanno fatto del male... se sono morte...»

Gawyn si accigliò, e per un istante il viso di lui fu di nuovo una maschera di sangue. Di più: una spada gli fluttuava sulla testa e una bandiera garriva dietro di essa. Una spada dall’impugnatura lunga, come quelle che usavano la maggior parte dei Custodi, con un airone inciso sulla lama leggermente ricurva, il simbolo di un mastro spadaccino, e Min non riusciva a capire se appartenesse a Gawyn o se invece lo minacciasse. Sulla bandiera c’era lo stemma di Gawyn, il cinghiale bianco in carica, ma in campo verde al posto del rosso di Andor. Entrambe le immagini, spada e bandiera, svanirono con il sangue.

«Sii prudente Gawyn» e lo intendeva in due modi. Fare attenzione a quel che diceva e prestare attenzione in un modo che non sapeva spiegare, nemmeno a se stessa. «Devi essere molto prudente.»

Gli occhi di Gawyn le scrutarono il volto quasi avesse afferrato alcuni dei significati più profondi di quell’avviso. «Ci... proverò» rispose alla fine. Le rivolse un largo sorriso, quasi quello che Min ricordava, ma lo sforzo era palese. «Immagino sia meglio che torni al campo d’addestramento se voglio restare al passo con Galad. Sono riuscito a vincere due combattimenti su cinque stamattina con Hammar, ma Galad ne ha vinti tre, l’ultima volta che si è preso il disturbo di venire al campo.» All’improvviso sembrò che la vedesse per la prima volta, e il sorriso divenne genuino. «Dovresti indossare più spesso gli abiti. Ti stanno bene. Ricordati, sarò lì fino al tramonto.»

Mentre se ne andava a grandi passi con movenze molto simili alla pericolosa grazia di un Custode, Min si accorse che stava lisciandosi il vestito sui fianchi e si fermò immediatamente. Che la Luce folgori tutti gli uomini! pensò.

Sahra sospirò quasi avesse trattenuto il respiro. «È bello, vero?» osservò sognante. «Non come lord Galad, s’intende. E tu lo conosci sul serio.» Era una mezza domanda, ma solo mezza.

Min fece eco al sospiro della novizia. La ragazza avrebbe parlato con le sue amiche negli alloggi delle novizie. Il figlio di una regina era un argomento naturale, specialmente quando era attraente e aveva l’aria di un eroe delle storie dei menestrelli. Una strana donna creava solo congetture aggiuntive. Eppure non c’era nulla da fare a riguardo. In ogni caso ora non poteva provocare molto danno.

«L’Amyrlin Seat si starà chiedendo perché non ci siamo ancora presentate» osservò la ragazza.

Sahra si riscosse spalancando gli occhi e deglutendo sonoramente. Afferrò Min per una manica e si affrettò ad aprire una delle porte, tirandosi appresso Min. Una volta dentro, la novizia fece una riverenza veloce e cadde nel panico. «L’ho portata, Leane Sedai. La signora Elmindreda. L’Amyrlin Seat vuole vederla?»

L’alta donna dalla pelle ramata nell’anticamera indossava la piccola stola della Custode degli Annali, azzurra per mostrare che era stata eletta dall’Ajah Azzurra. Con le mani sui fianchi attese che la ragazza finisse, quindi la congedò con un secco «ci hai messo parecchio, bambina. Torna ai tuoi lavori adesso.» Sahra fece un’altra riverenza e si affrettò a uscire con la stessa velocità con cui era entrata.

Min stava in piedi con gli occhi rivolti al suolo. Il cappuccio ancora le copriva il viso. Fare quell’errore grossolano di fronte a Sahra era già stato tremendo — anche se almeno la novizia non sapeva il suo nome — ma Leane la conosceva meglio di chiunque altra nella Torre, tranne l’Amyrlin. Min era certa che ormai non faceva alcuna differenza, ma dopo quanto era accaduto nell’ingresso intendeva attenersi alle istruzioni di Moiraine fino a quando non sarebbe stata da sola con l’Amyrlin.

Stavolta le sue precauzioni non servirono a nulla. Leane fece due passi, scostò il cappuccio e grugnì come se fosse stata colpita nello stomaco. Min sollevò il capo e la fissò provocatoriamente, fingendo di non essersi voluta nascondere. I capelli lisci e neri, solo leggermente più lunghi dei suoi, incorniciavano il volto della Custode; dall’espressione, l’Aes Sedai sembrava sorpresa e insieme dispiaciuta di essere sorpresa.

«Così sei Elmindreda, giusto?» osservò Leane energicamente. Era sempre energica. «Devo dire che somigli di più a una ‘Elmindreda’ in quel vestito che nei tuoi soliti... indumenti.»

«Solo Min, Leane Sedai, per favore.» Min riuscì a mantenere un’espressione indefinita, ma era difficile non guardarla furiosamente. Nella voce della Custode aveva riscontrato troppo divertimento. Se sua madre aveva proprio dovuto darle il nome del personaggio di una storia, perché proprio quello di una donna che sembrava trascorrere la maggior parte del tempo sospirando per gli uomini invece di ispirarli a comporre canzoni sui suoi occhi o il sorriso?

«Molto bene, Min. Non ti chiederò dove sei stata e nemmeno perché sei ritornata indossando un vestito, apparentemente in attesa di porre domande all’Amyrlin. Almeno non ora.» L’espressione della donna suggeriva che intendeva chiederglielo più tardi e ottenere delle risposte. «Suppongo che la Madre sappia chi è Elmindreda. Naturalmente. Avrei dovuto capirlo quando ha detto di farti entrare immediatamente e da sola. Solo la Luce sa perché ti tollera.» Quindi assunse un’espressione preoccupata. «Qual è il problema, ragazza? Sei malata?» Min assunse un’espressione impassibile. «No. No, sto bene.» Per un momento la Custode la guardò attraverso una maschera trasparente che raffigurava il suo stesso viso, una maschera che gridava. «Posso andare ora, Leane Sedai?»

Leane la studiò per un altro momento, quindi fece un cenno con il capo verso la stanza interna. «Entra.» Lo scatto di Min avrebbe soddisfatto la più severa delle sorveglianti.

Nel corso dei secoli, lo studio dell’Amyrlin Seat era stato occupato da molte donne grandi e potenti, e ricordi di quelle presenze riempivano la stanza, dall’alto camino di marmo dorato proveniente da Kandor, ora freddo, ai pannelli sulle pareti di insolito legno chiaro striato, duro come il ferro eppure intagliato con immagini di meravigliose bestie e uccelli dal piumaggio selvatico. Questi pannelli erano arrivati dalle misteriose terre oltre il deserto Aiel più di mille anni prima, e il camino era vecchio almeno del doppio. Il granito lucido del pavimento proveniva dalle montagne della Nebbia. Alte finestre arcuate davano su un balcone. La pietra iridescente che le incorniciava risplendeva come le perle. Era stata salvata dai ruderi di una città affondata nel Mare delle Tempeste durante la Frattura del Mondo; nessuno ne aveva mai vista una simile.

L’occupante attuale però, Siuan Sanche, era la figlia di un pescatore di Tear, e la mobilia che aveva scelto era semplice, anche se ben costruita e lucidata. Stava seduta su una sedia robusta dietro al largo tavolo, così semplice che sarebbe stato bene in una fattoria. L’unica altra sedia nella stanza, altrettanto semplice e di solito sistemata da un lato, adesso era di fronte al tavolo su un semplice tappeto di Tairen, blu, marrone e dorato. Una mezza dozzina di libri erano aperti su un leggio. Tutto lì. Sopra al camino era appeso un quadro; piccoli pescherecci che lavoravano fra le canne delle Dita del Drago, proprio come una volta aveva fatto la barca del padre.

A prima vista, malgrado i tipici lineamenti distesi, Siuan Sanche sembrava semplice come l’arredamento. Forte, attraente e piuttosto bella, la sola ostentazione nell’abbigliamento era l’ampia stola che indossavano le Amyrlin Seat, con una banda colorata per ognuna delle sette Ajah. L’età della donna era indefinibile, come per ogni Aes Sedai; fra i capelli scuri non appariva nemmeno un accenno di grigio. Ma nei taglienti occhi azzurri non si intravedeva traccia di insensatezza, e la mascella ferma suggeriva la determinazione della donna più giovane che fosse mai stata eletta Amyrlin Seat. Per oltre dieci anni Siuan Sanche era stata in grado di convocare governanti e potenti, e tutti erano venuti, anche se odiavano la Torre Bianca e temevano le Aes Sedai.

Mentre l’Amyrlin si avviava di fronte al tavolo girandovi attorno, Min lasciò cadere il suo fagotto e accennò una goffa riverenza, borbottando irritata a mezza bocca per il fatto di dover fare un gesto simile. Non che volesse essere irrispettosa — una tal cosa non veniva nemmeno in mente a chi si trovava di fronte a una donna come Siuan Sanche — ma il suo solito inchino le sembrava stupido con indosso un abito da donna, e aveva solo un’idea approssimativa di come fare una riverenza.

A metà strada, con la gonna già spiegata, rimase immobile come un rospo congelato. Siuan Sanche era in piedi, regale come una qualsiasi regina ma, per un momento, l’aveva vista giacere al suolo, nuda. A parte il fatto che non indossava nulla c’era qualcosa di insolito in quell’immagine, ma svanì prima che Min potesse individuarla. Era stata una visione forte come non ne aveva avute mai e non ne capiva il significato.

«Stai avendo di nuovo delle visioni, vero?» osservò l’Amyrlin. «Be’, avrei potuto utilizzare questo tuo talento. Per tutti i mesi che sei stata via. Ma non parleremo di questo. Quel che è fatto è fatto. La Ruota ordisce come vuole.» Sorrise nervosa. «Ma se lo fai ancora, userò la tua pelle per farmi dei guanti. Alzati, ragazza. Leane mi impone in un mese cerimonie che basterebbero per almeno un anno a qualsiasi donna assennata. Non ne ho il tempo. Non in questi giorni. Ora, che cos’è che hai appena visto?»

Min si rialzò lentamente. Era un sollievo trovarsi nuovamente con qualcuno che conosceva il suo talento, anche se era l’Amyrlin Seat in persona. Non doveva nascondere le visioni all’Amyrlin. Ben lungi dal farlo. «Eri... non indossavi abiti. Non... non so cosa significhi, Madre.»

Siuan scoppiò a ridere, una risata fugace e priva di divertimento. «Senza dubbio che mi troverò un amante. Ma non ho tempo nemmeno per quello. Non c’è tempo per ammiccare agli uomini quando sei impegnata ad accudire la barca.»

«Forse» rispose lentamente Min. Poteva avere quel significato, anche se ne dubitava. «Semplicemente non lo so. Ma, Madre, ho avuto visioni fin da quando sono entrata nella Torre. Accadrà qualcosa di brutto, qualcosa di terribile.» Si incamminò con l’Aes Sedai nell’ingresso e le raccontò tutto ciò che aveva visto, come anche il significato, quando ne era sicura. Non le rivelò tutto ciò che aveva detto a Gawyn; non serviva essersi raccomandata di non far arrabbiare l’Amyrlin se lo faceva lei per lui. Il resto lo raccontò crudamente, come lo aveva visto. Alcune sue paure emersero mentre riesumava i ricordi, vedendo tutto nuovamente; aveva la voce tremante quando terminò il racconto.

L’espressione dell’Amyrlin rimase sempre invariata. «Così hai parlato con il giovane Gawyn» osservò quando Min ebbe finito. «Be’, credo di poterlo convincere a stare zitto. E se mi ricordo bene di Satira, alla ragazza servirà un po’ di lavoro in campagna. Non divulgherà alcun pettegolezzo zappando gli ortaggi in un campo.»

«Non capisco» chiese Min. «Perché Gawyn dovrebbe mantenere il silenzio? Riguardo a cosa? Non gli ho detto nulla. E Sahra...? Madre, forse non sono stata chiara. Alcune Aes Sedai e alcuni Custodi moriranno. Deve significare una battaglia. E, a meno che non mandi molte Aes Sedai e Custodi da qualche altra parte — e i servitori: ho visto servi morti e feriti — a meno che non fai una cosa simile, la battaglia si svolgerà qui! A Tar Valon!»

«Lo hai visto?» chiese l’Amyrlin. «Una battaglia? Lo hai scoperto con il tuo... talento, o stai indovinando?»

«Cos’altro potrebbe essere? Almeno quattro Aes Sedai ormai sono come morte, Madre. Ho posato gli occhi su solo nove di voi da quando sono arrivata, e quattro morranno! E i Custodi... cos’altro potrebbe essere?»

«Più cose di quel che mi piace pensare» mormorò torvamente l’Amyrlin. «Quando? Quanto tempo abbiamo prima che questa... cosa... accada?»

Min scosse il capo. «Non lo so. La maggior parte dei fatti accadrà nell’arco di un giorno, forse due, ma potrebbe essere domani o fra un anno. O dieci.»

«Allora preghiamo che siano dieci. Se accadrà domani, non c’è molto che possa fare per fermarlo.»

Min fece una smorfia. Solo due Aes Sedai oltre Siuan Sanche sapevano cosa era in grado di fare; Moiraine e Verin Mathwin, che aveva cercato di studiare il suo talento. Nessuna di loro sapeva come funzionava, non più di lei, tranne che non aveva nulla a che fare con il Potere. Forse per quello Moiraine sembrava in grado di accettare che, quando Min capiva il significato di una visione, il fatto accadeva.

«Forse sono i Manti Bianchi, Madre. Erano ovunque ad Alindaer quando ho oltrepassato il ponte.» Non credeva che i Figli della Luce avessero nulla a che fare con quanto stava per accadere, ma era riluttante nel confessare davvero ciò che credeva. Credeva, non sapeva; eppure era abbastanza brutto.

Ma l’Amyrlin aveva cominciato a scuotere il capo prima che Min finisse di parlare. «Se potessero proverebbero a fare qualcosa, non ho dubbi — adorerebbero colpire la Torre — ma Eamon Valda non si muoverebbe apertamente senza ordini diretti dal lord Capitano Comandante, e Pedron Niall non colpirà a meno che non creda che siamo in difficoltà. Conosce troppo bene la nostra forza per comportarsi scioccamente. Per mille anni i Manti Bianchi si sono comportati in questo modo. Lucci fra le canne, in attesa di una traccia di sangue di Aes Sedai nell’acqua. Ma non gliene abbiamo ancora mostrato, e nemmeno lo faremo, se posso evitarlo.»

«Eppure se Valda provasse a prendere una sua iniziativa...»

Siuan la interruppe. «Non ha più di cinquecento uomini vicino Tar Valon, ragazza. Ha mandato via il resto settimane fa, a provocare problemi altrove. Le Mura Lucenti hanno tenuto fuori gli Aiel. E anche Artur Hawkwing. Valda non riuscirà mai a entrare a Tar Valon, a meno che la città non stia già crollando dall’interno.» La voce dell’Amyrlin non mutò mentre proseguiva. «Vuoi davvero che creda che i problemi verranno dai Manti Bianchi. Perché?» Non c’era alcuna gentilezza negli occhi della donna.

«Perché io voglio crederlo» mormorò Min. Si umettò le labbra e pronunciò le parole che non voleva dire. «Il collare d’argento che ho visto su quell’Aes Sedai, Madre, sembrava... sembrava uno di quei collari che... i Seanchan usano per... per controllare le donne che possono incanalare.» La voce di Min si abbassò di tono mentre Siuan fece una smorfia di disgusto.

«Un oggetto sordido» brontolò l’Amyrlin. «Benché la maggior parte della gente non creda a un quarto di quello che sente riguardo i Seanchan. Ma ci sono più possibilità che si tratti dei Manti Bianchi. Se i Seanchan approdassero nuovamente, ovunque, lo saprei in pochi giorni con i piccioni viaggiatori, ed è un viaggio lungo dal mare fino a Tar Valon. Se riapparissero, avrò un ampio margine di preavviso. No, temo che le visioni si riferiscano a qualcosa di ben peggiore dei Seanchan. Temo che possa trattarsi solamente dell’Ajah Nera. Solo un numero esiguo di noi è al corrente della sua esistenza, e non gradisco il pensiero di quel che accadrà quando la notizia si diffonderà, ma l’Ajah Nera rappresenta la più grande e immediata minaccia alla Torre.»

Min si accorse che stava stringendo così forte la gonna che le dolevano le mani; aveva la bocca secca come la polvere. La Torre Bianca aveva sempre freddamente negato l’esistenza di un’Ajah Nera nascosta, devota al Tenebroso. Il modo più sicuro per far arrabbiare un’Aes Sedai era semplicemente menzionare una cosa simile. Con l’Amyrlin che aveva parlato dell’esistenza di un’Ajah Nera con tale disinvoltura, la spina dorsale di Min si era ghiacciata.

Come se non avesse detto nulla fuori dell’ordinario, l’Amyrlin proseguì. «Ma non sei venuta fin qui solo per avere le visioni. Che cosa mi riferisci da Moiraine? So che tutto, dall’Arad Doman a Tarabon, è nel caos, per menzionare il problema minore.» Era davvero il danno minore; gli uomini che sostenevano il Drago Rinato combattevano contro gli oppositori, e avevano ridotto entrambe le nazioni alla guerra civile mentre simultaneamente si combattevano per il controllo sulla Piana di Almoth. Il tono di voce di Siuan congedò l’argomento come fosse un dettaglio. «Ma non ho avuto alcuna notizia di Rand al’Thor per mesi. È il punto focale di tutto. Dove si trova? Che cosa gli sta facendo fare Moiraine? Siedi ragazza, siedi.» Fece un cenno verso la sedia di fronte alla scrivania.

Min si avvicinò alla sedia con le gambe tremanti e vi si lasciò quasi cadere sopra. L’Ajah Nera! Oh, Luce! pensava. Le Aes Sedai in teoria dovevano sostenere la Luce. Anche se non si fidava davvero di loro, c’era sempre quella certezza. Le Aes Sedai, e tutto il loro potere, erano a favore della Luce e contro l’Ombra. Solo che adesso non era più vero. Si sentì a malapena dire: «Sta andando a Tear.»

«Tear! Allora si tratta di Callandor. Moiraine vuole che prenda la spada che non può essere toccata dalla Pietra di Tear. Giuro che la appenderò al sole a essiccare! Le farò desiderare di tornare una novizia! Non può essere ancora pronto per questo!»

«Non è stata...» Min fece una pausa per schiarirsi la gola. «Non è stata opera di Moiraine. Rand se ne è andato nel cuore della notte, da solo. Gli altri lo hanno inseguito e Moiraine mi ha inviata a riferirtelo. Ormai potrebbero essere arrivati a Tear. Per quanto ne so, Rand potrebbe avere già preso Callandor.»

«Che sia folgorato!» esplose l’Amyrlin. «Ormai potrebbe essere morto! Vorrei che non avesse mai sentito una parola delle Profezie del Drago. Se potessi evitare che ne sentisse altre, lo farei.»

«Ma non dev’essere lui a far avverare le Profezie? Non capisco.»

L’Amyrlin si appoggiò stancamente al tavolo. «Come se qualcuno ne comprendesse una parte sufficiente! Non sono le Profezie a fare di lui il Drago Rinato; tutto quello che deve fare è ammetterlo, e deve averlo fatto se sta andando a prendere Callandor. Lo scopo delle Profezie è annunciare al mondo chi sia lui, preparare lui a ciò che sta per accadere, preparare il mondo intero. Se Moiraine può avere una forma di controllo su Rand, lo guiderà verso le Profezie di cui siamo certe — quando sarà pronto ad affrontarle! — e per il resto, confidiamo nel fatto che quel che farà sia abbastanza. Speriamo. Per quanto ne so, ha già portato a compimento Profezie che nessuno di noi capisce. Luce, fa’ che sia finita.»

«Quindi è vero che intendete controllarlo. Ha detto che avete provato a usarlo, ma questa è la prima volta che ti sento ammetterlo.» Min si sentì raggelare. Arrabbiata, aggiunse: «Per ora non avete fatto un gran lavoro, tu e Moiraine.»

La stanchezza di Siuan sembrò scivolarle dalle spalle. Si raddrizzò e rimase in piedi a fissare Min. «Farai meglio a sperare che ci riusciamo. Pensi davvero che potremmo lasciarlo andare in giro libero? Testardo e ostinato, non addestrato, impreparato, forse già sulla via della follia. Pensi che porremmo affidarci al Disegno, al suo destino, per mantenerlo in vita, come nelle storie? Questa non è una storia, Rand non è un eroe invincibile e se il suo filo viene tagliato via dal Disegno, la Ruota del Tempo non ne noterà l’assenza e il Creatore non farà miracoli per salvarci. Se Moiraine non può gestire le vele di Rand, lui potrebbe benissimo farsi ammazzare, e dove ci ritroveremmo a quel punto? Dove si ritroverebbe il mondo? La prigione del Tenebroso si sta indebolendo. Toccherà nuovamente la terra; è solo una questione di tempo. Se Rand al’Thor non sarà presente per affrontarlo nell’Ultima Battaglia, se quel giovane stupido e testardo si fa ammazzare prima, il mondo è condannato. Ci sarà una nuova Guerra del Potere, senza Lews Therin e i suoi Cento Compagni. Quindi il fuoco e l’ombra, per sempre.» Si fermò di colpo per scrutare il viso di Min. «Così è in questa direzione che soffia il vento, vero? Tu e Rand. Non me lo aspettavo.»

Min scosse vigorosamente la testa e si sentì arrossire. «Certo che no! Ero... È stata l’Ultima Battaglia e il Tenebroso. Luce, solo pensare al Tenebroso libero dovrebbe essere abbastanza da far gelare il midollo di un Custode. E l’Ajah Nera...»

«Non cercare di dissimulare» rispose secca l’Amyrlin. «Pensi che sia la prima volta che vedo una donna spaventata per la vita del suo uomo? Tanto vale che lo ammetti.»

Min si dimenò sulla sedia. Gli occhi di Siuan la scandagliavano, consapevoli e impazienti. «Va bene» mormorò Min alla fine «ti dirò tutto, e vedrai quanto bene ci farà a tutte e due. La prima volta che ho incontrato Rand ho visto tre volti femminili, e uno di quelli era il mio. Non avevo mai visto nulla che mi riguardasse prima di quel momento o dopo, ma ne conoscevo il significato. Mi sarei innamorata di lui. Tutte e tre ci saremmo innamorate.»

«Tre. Le altre due chi sono?»

Min sorrise amaramente. «I volti erano indistinti; non so chi siano.»

«Niente che dicesse che avrebbe ricambiato l’amore?»

«Niente! Non mi ha mai guardata due volte. Credo che mi veda come una... una sorella. Per cui non pensare di potermi usare come guinzaglio per Rand, perché non funzionerà!»

«Però lo ami.»

«Non ho alcuna scelta.» Min cercò di rendere la propria voce meno cupa. «Ho cercato di considerarlo uno scherzo, ma non posso più ridere. Puoi anche non credermi, ma quando conosco il significato di una visione, il fatto si verifica.»

L’Amyrlin si tamburellò il labbro con un dito e guardò Min con attenzione. Quello sguardo preoccupò Min. Non intendeva esporsi così tanto, o raccontare quanto aveva fatto. Non aveva detto tutto, ma sapeva che ormai avrebbe dovuto imparare a non dare a un’Aes Sedai una leva, anche se non capiva come avrebbe potuto usarla. «Madre, ho riferito il messaggio di Moiraine, e ti ho detto tutto quel che sapevo delle visioni. Non c’è motivo adesso per cui non possa indossare i miei abiti e andarmene.»

«Andare dove?»

«Tear.» Dopo aver parlato con Gawyn, nel tentativo di assicurarsi che non avrebbe fatto qualcosa di stupido. Desiderava avere il coraggio di chiedere dove fossero Egwene e le altre, ma se l’Amyrlin non voleva dirlo al fratello di Elayne era poco probabile che lo dicesse a lei. E negli occhi di Siuan Sanche c’era ancora quello sguardo indagatore. «O ovunque si trovi Rand. Forse sono una sciocca, ma non sono la prima donna a comportarsi da sciocca per un uomo.»

«La prima a farlo per il Drago Rinato. Sarà pericoloso essere vicina a Rand quando il mondo scoprirà chi è, cosa è. E se adesso adopera Callandor il mondo lo scoprirà presto. La metà vorrà ucciderlo in ogni caso, come se così facendo potessero impedire l’Ultima Battaglia, o la liberazione del Tenebroso. Molti vicino a lui moriranno. Potrebbe essere meglio per te se restassi qui.»

L’Amyrlin sembrava comprensiva, ma Min non le credeva. Non credeva che Siuan Sanche fosse capace di offrire comprensione a qualcuno. «Correrò il rischio; forse posso aiutarlo. Con le visioni. E non credo che la Torre sarebbe molto più sicura, non fino a quando ci sarà una Sorella Rossa qui. Vedranno solo un uomo in grado di incanalare, dimenticheranno l’Ultima Battaglia e le Profezie del Drago.»

«Così faranno molti altri» si intromise Siuan con calma. «I vecchi modi di pensare sono difficili da cambiare, per le Aes Sedai come per chiunque altro.»

Min la guardò perplessa. Adesso sembrava pensarla come lei. «Non è un segreto che sono amica di Egwene e Nynaeve, e nemmeno che provengono dallo stesso villaggio di Rand. Per l’Ajah Rossa questa sarà una connessione sufficiente. Quando la Torre scoprirà cos’è Rand, probabilmente verrò arrestata prima che il giorno finisca. Come anche Egwene e Nynaeve, se non le hai fatte nascondere da qualche parte.»

«Allora non devi essere riconosciuta. Non prendi nessun pesce se questo vede la rete. Per un po’ faresti meglio a evitare le brache e la giubba.»

L’Amyrlin sorrise come un gatto che guarda un topo.

«Che pesce ti aspetti di prendere con me?» chiese Min con una voce flebile. Pensava di saperlo, e sperava ardentemente di sbagliarsi.

La sua speranza non impedì all’Amyrlin di rispondere: «L’Ajah Nera. Tredici di loro sono fuggite, ma temo che alcune siano rimaste. Non so di chi fidarmi; per un po’ ho avuto paura a fidarmi di chiunque. Non sei un’Amica delle Tenebre, lo so, e il tuo particolare talento potrebbe essere d’aiuto. Quantomeno sarai un altro paio di occhi fidati.»

«Lo hai progettato da quando sono entrata, vero? Questo è il motivo per cui vuoi far tacere Gawyn e Shara.» La rabbia cresceva in Min come il vapore in un bollitore. La donna diceva rana e si aspettava che la gente saltasse. Che lo facessero sempre rendeva solamente peggiori le cose. Min non era una rana, o una marionetta danzante. «È questo quel che hai fatto a Egwene, Elayne e Nynaeve? Le hai mandate a caccia dell’Ajah Nera? Da te me lo aspetterei!»

«Getta le tue reti, bambina, e lascia che quelle ragazze gettino le loro. Per quanto ti riguarda, stanno scontando una punizione in una fattoria. Sono stata chiara?»

Quello sguardo inflessibile fece agitare Min sulla sedia. Era facile sfidare l’Amyrlin, fino a quando non ti fissava con quei suoi freddi occhi azzurri.

«Sì, Madre.» La sottomissione della risposta le bruciava, ma uno sguardo all’Amyrlin l’aveva convinta a lasciar perdere. Giocherellò con la fine lana del vestito. «Suppongo che non mi ammazzerà indossare questo per un altro po’.» All’improvviso Siuan sembrò divertita; a Min si rizzarono i capelli dietro la nuca.

«Temo che non sarà abbastanza. Min in un vestito è ancora Min in un vestito per chiunque guardi con attenzione. Non puoi indossare costantemente un mantello con il cappuccio alzato. No, devi cambiare tutto ciò che può essere cambiato. Per incominciare, continuerai a usare il nome Elmindreda. Dopotutto è il tuo nome.» Min trasalì. «I capelli ormai sono quasi lunghi quanto quelli di Leane, abbastanza per arricciarli. Per il resto... non ho mai utilizzato rossetto o trucco, ma Leane sa come usarli.»

Gli occhi di Min si erano gradualmente allargati fin da quando l’Amyrlin aveva menzionato i ricci. «Oh, no» esclamò.

«Nessuno ti scambierà per la Min che indossa le brache una volta che Leane ti avrà trasformata in una perfetta Elmindreda.»

«Oh, NO!»

«Per quanto riguarda il motivo della tua permanenza alla Torre, deve essere una ragione credibile per una giovane ragazza tremante che non assomiglia e non si comporta affatto come Min.» L’Amyrlin aggrottò le sopracciglia pensierosa ignorando gli sforzi di Min di intervenire. «Sì. Lascerò trapelare che la signorina Elmindreda ha incoraggiato due pretendenti al punto tale che ha dovuto cercare rifugio nella Torre fino a quando non sarà in grado di scegliere fra loro. Alcune donne ancora chiedono asilo ogni anno, a volte per motivi sciocchi.» Il volto della donna sì indurì e gli occhi diventarono più acuti. «Se stai pensando ancora a Tear, pensa a questo. Cerca di capire se puoi essere di maggior aiuto per Rand qui o lì. Se l’Ajah Nera distrugge la Torre, o peggio, ne assume il controllo, perderà anche il piccolo aiuto che posso fornirgli. Sei una donna o una ragazzina malata d’amore, ragazza?»

Intrappolata. Min lo vedeva chiaramente come se avesse i ceppi alle caviglie.

«Ottieni sempre quello che vuoi dalle persone, Madre?»

Il sorriso dell’Amyrlin stavolta era più che freddo. «Di solito, bambina. Di solito.»

Elaida fissava pensierosa la porta dello studio dell’Amyrlin sistemando lo scialle con le frange rosse, guardando verso le due giovani donne che erano appena sparite. La novizia uscì quasi immediatamente, diede un’occhiata al volto di Elaida e piagnucolò come una pecora spaventata. Elaida credeva di averla riconosciuta, ma non riusciva a rammentare il nome della ragazza. Aveva altro da fare che insegnare a ragazze pietose.

«Come ti chiami?»

«Sahra, Elaida Sedai.» La risposta della ragazza fu un pigolio esanime. Elaida poteva anche non essere interessata alle novizie, ma le novizie conoscevano lei e la sua reputazione.

Adesso si ricordava la ragazza. Una sognatrice a occhi aperti con scarse capacità che non avrebbe mai avuto un reale potere. Difficilmente poteva sapere più di quanto Elaida già avesse visto o sentito, o ricordare qualcosa di più del sorriso di Gawyn, per aggiungerne una. Una stupida. Elaida fece un cenno di congedo con una mano.

La ragazza le rivolse una riverenza così profonda che quasi sfiorò le mattonelle con il viso, quindi si dileguò come un fulmine.

Elaida non la vide andar via. La Sorella Rossa si era voltata, già dimentica della novizia. Mentre procedeva lungo il corridoio non una ruga deturpava i lineamenti distesi, ma i pensieri ribollivano furiosamente. Non vide nemmeno gli inservienti, le novizie e le Ammesse che si scapicollavano per togliersi dalla sua traiettoria, facendo inchini quando passava. Per poco non travolse una Sorella Marrone con il naso affondato in un fascicolo di appunti. La paffuta Marrone saltò indietro con un grido di spavento che Elaida non sentì.

Vestito o non vestito, conosceva la giovane donna che era andata a vedere l’Amyrlin. Min, che aveva trascorso molto tempo con l’Amyrlin durante la sua prima visita alla Torre, anche se nessuno ne conosceva la ragione. Min, amica intima di Elayne, Egwene e Nynaeve. L’Amyrlin stava tenendo nascosto il luogo dove si trovavano quelle tre, Elaida ne era sicura. Tutti i rapporti che parlavano di una punizione in una fattoria erano di terza e quarta mano, una distanza da Siuan Sanche più che sufficiente a nascondere sotto qualsiasi giro di parole un’aperta menzogna. Senza menzionare il fatto che tutti i considerevoli sforzi di Elaida per scoprire questa fattoria non l’avevano portata a nulla.

«Che la Luce la folgori!» Per un momento rabbia pura si dipinse sul volto di Elaida. Non era certa se si riferisse a Siuan Sanche o all’erede al trono. Andavano bene tutte e due. Un’Ammessa slanciata la sentì, indirizzò uno sguardo al viso della donna e sbiancò come il vestito che indossava; Elaida la oltrepassò senza prestarle attenzione.

A parte tutto il resto, era furiosa perché non poteva trovare Elayne. A volte Elaida aveva il dono della preveggenza, la capacità di prevedere gli eventi. Si presentava di rado e debolmente, ma era sempre più di quanto fosse stata in grado di fare qualsiasi Aes Sedai fin dai tempi di Gitara Moroso, ormai defunta da vent’anni. La prima cosa che Elaida aveva previsto quando era ancora un’Ammessa — e anche allora ne sapeva abbastanza da tenerselo per sé — era che la linea reale di Andor sarebbe stata la chiave per sconfiggere il Tenebroso nell’Ultima Battaglia. Si era attaccata a Morgase non appena aveva capito che sarebbe succeduta al trono, aveva costruito la sua influenza pazientemente, anno dopo anno. E ora tutti i suoi sforzi, tutti i sacrifici — avrebbe potuto essere eletta Amyrlin se non avesse concentrato tutte le energie su Andor — potevano essere stati vani perché Elayne era scomparsa.

Con uno sforzo riportò i pensieri a ciò che in quel momento era rilevante. Egwene e Nynaeve provenivano dallo stesso villaggio di quello strano giovane, Rand al’Thor. Anche Min lo conosceva, malgrado avesse cercato di nasconderlo con tutte le sue forze. Rand al’Thor era il fulcro di tutto.

Elaida lo aveva visto una sola volta, in teoria doveva essere un pastore dei Fiumi Gemelli, in Andor, ma somigliava in tutto e per tutto a un Aiel. Aveva avuto una premonizione non appena lo aveva visto. Era ta’veren, uno di quei rari individui che invece di essere intessuti nel Disegno che la Ruota del Tempo sceglieva, costringevano il Disegno a prendere forma attorno a loro, almeno per un certo lasso di tempo. Ed Elaida aveva visto il caos turbinare attorno a Rand, discordia e conflitto per Andor, forse anche per altre parti del mondo. Ma Andor doveva essere mantenuta unita, qualunque cosa accadesse; quella prima predizione l’aveva convinta di questo fatto.

C’erano altri fili, a sufficienza per intrappolare Siuan nella propria rete. Se doveva credere alle voci, c’erano tre ta’veren, non uno solo. Tutti e tre provenivano dallo stesso villaggio, questo Emond’s Field, e tutti e tre avevano circa la stessa età: abbastanza strano da alimentare un monte di chiacchiere nella Torre. E durante il viaggio di Siuan nello Shienar, ormai quasi un anno fa, li aveva visti, ci aveva addirittura parlato. Rand al’Thor. Perrin Aybara. Matrim Cauthon. Si diceva che fosse una mera coincidenza. Solo un caso accidentale. Così si diceva. Chi sosteneva una tal cosa non sapeva ciò di cui Elaida era a conoscenza.

Quando Elaida aveva visto il giovane al’Thor, era stata Moiraine a farlo sparire. Moiraine lo aveva accompagnato, come anche gli altri due ta’veren, nello Shienar. Moiraine Damodred, l’amica più intima di Siuan Sanche quando erano entrambe novizie. Se Elaida fosse stata il tipo che scommetteva, avrebbe scommesso che nessun’altra nella Torre si ricordasse di quell’amicizia. Il giorno in cui furono elevate al rango di Aes Sedai, alla fine della Guerra Aiel, Siuan e Moiraine si erano allontanate l’una dall’altra, e da quel momento sì erano comportate quasi da estranee. Ma Elaida era un’Ammessa quando queste erano novizie, aveva dato loro lezioni, le aveva castigate per aver trascurato i doveri, e ricordava. Aveva difficoltà a credere che il loro complotto andasse così indietro nel tempo — al’Thor non poteva essere nato molto prima di allora — eppure era l’ultimo legame che le univa. Per Elaida era abbastanza.

Qualunque cosa avesse in mente Siuan doveva essere fermata. Tumulti e caos si moltiplicavano da ogni lato. Era certo che il Tenebroso si sarebbe liberato — il solo pensiero le provocò i brividi e strinse lo scialle con maggior forza — e la Torre doveva essere distante dagli affanni terreni per poter affrontare un tale evento. La Torre doveva essere libera di tirare le corde per far schierare unite le nazioni, libera dai problemi che avrebbe portato Rand al’Thor. In qualche modo, doveva essere fermato dal distruggere Andor.

Elaida non aveva rivelato a nessuno quel che sapeva di al’Thor. Intendeva vedersela con lui silenziosamente, se possibile. Il Consiglio della Torre già parlava di sorvegliare, o addirittura guidare, questi ta’veren; ma non avrebbe mai acconsentito a disporre di loro, di quell’uno in particolare, come andava fatto. Per il bene della Torre. Per il bene del mondo.

Elaida emise un verso gutturale, prossimo a un ruggito. Siuan era sempre stata caparbia, anche da novizia, aveva sempre avuto un’alta opinione di se stessa per essere la figlia di un povero pescatore, ma come aveva potuto essere così sciocca da immischiare la Torre in questa vicenda senza mettere al corrente il Consiglio? Sapeva cosa sarebbe accaduto bene quanto chiunque altra. Poteva essere peggio solo se...

Elaida si fermò di colpo, guardando nel vuoto. Era possibile che questo al’Thor potesse incanalare? O uno degli altri? Molto probabilmente doveva essere al’Thor. No. Certamente no. Nemmeno Siuan avrebbe toccato uno di quelli. Lei non poteva. «Chi sa cosa potrebbe fare quella donna?» borbottò. «Non è mai stata adatta a essere Amyrlin Seat.»

«Parli da sola, Elaida? So che voi Rosse non avete amici al di fuori della vostra Ajah, ma di certo hai qualche amica all’interno di essa.»

Elaida voltò il capo per guardare Alviarin. L’Aes Sedai dal collo di cigno ricambiò lo sguardo con l’intollerabile freddezza che era il segno distintivo dell’Ajah Bianca. Non c’era amore fra le Rosse e le Bianche; si erano trovate agli estremi opposti del Consiglio della Torre per migliaia di anni. Le Bianche erano dalla parte delle Azzurre, e Siuan era appartenuta alle Azzurre. Ma le Bianche si vantavano per la loro logica imparziale.

«Cammina con me» la invitò Elaida. Alviarin esitò prima di affiancarla.

All’inizio la Sorella Bianca sollevò un sopracciglio denigratorio riguardo quanto Elaida aveva esposto nei confronti di Siuan, ma prima della fine aggrottò la fronte, concentrata. «Non hai nessuna prova di nulla di... inappropriato» osservò quando finalmente Elaida tacque.

«Non ancora» rispose Elaida con fermezza, concedendosi un sorriso teso quando Alviarin annuì. Era un inizio. In un modo o nell’altro avrebbe fermato Siuan prima che potesse distruggere la Torre.

Nascosto in un gruppo di alte ericacee sopra la riva nord del fiume Taren, Dain Bornhald si lanciò dietro le spalle il mantello bianco con il sole raggiato ricamato sul petto e sollevò il rigido tubo di cuoio del cannocchiale verso gli occhi. Una nuvola di piccolissimi mordimi, insetti quasi invisibili ma dal fiero morso, gli ronzavano attorno al viso, ma li ignorò. Nel villaggio di Taren Ferry, sull’altra riva del fiume, le case di pietra si ergevano su alte fondamenta contro le inondazioni che si verificavano ogni primavera. Gli abitanti del villaggio si affacciavano dalle finestre o aspettavano sulle verande per osservare i trenta cavalieri ammantati di bianco con indosso lucide placche metalliche e cotte di maglia. Una delegazione di uomini del villaggio si stava incontrando con i cavalieri. O meglio, stava ascoltando Jaret Byar, da quel che poteva vedere Bornhald, che era la cosa migliore.

Bornhald poteva quasi sentire la voce di suo padre. Lascia che credano che ci sia una possibilità, e qualche sciocco cercherà di coglierla. Poi ci saranno uccisioni, e qualche altro sciocco cercherà di vendicare il primo, così ci saranno altre uccisioni. Inculca il timore della Luce nelle loro teste fin dall’inizio, fagli sapere che non verrà fatto del male a nessuno se ubbidiscono e non avrai problemi.

Serrò la mascella al pensiero del padre, ora morto. Avrebbe Tatto qualcosa a riguardo, e presto. Era certo che solo Byar sapeva perché aveva accettato immediatamente questo comando, diretto verso un dimenticato distretto nell’entroterra di Andor, e Byar avrebbe tenuto a freno la lingua. Era stato fedele come un cane a suo padre, e adesso aveva trasferito tutta quella lealtà su Dain. Bornhald non aveva esitato a nominare Byar suo secondo quando Eamon Valda gli aveva affidato il comando.

Byar fece girare il cavallo e tornò verso il traghetto. Il traghettatore salpò immediatamente e iniziò a trainare la chiatta usando una robusta corda sospesa sulle acque vorticanti. Byar lanciò un’occhiata agli uomini che tiravano la corda; lo guardavano nervosi mentre camminavano pesantemente lungo la chiatta, quindi tornavano subito indietro a riprendere la gomena. Tutto sembrava a posto.

«Lord Bornhald?»

Bornhald abbassò il cannocchiale e voltò il capo. L’uomo dal volto duro che era apparso alle sue spalle era rigido, fissava dritto davanti a sé da sotto un elmetto conico. Anche dopo il difficile viaggio da Tar Valon — e Bornhald aveva spronato duramente la truppa per ogni chilometro — l’armatura splendeva come il mantello bianco candido con il sole raggiato.

«Sì, figlio Ivon?»

«Il centurione Farran mi ha inviato, mio signore. Si tratta dei Calderai. Ordeith ha parlato con tre di loro, mio signore, e adesso sono tutti e tre introvabili.»

«Sangue e ceneri!» Bornhald si girò di scatto e camminò a grandi passi fra gli alberi con Ivon alle calcagna.

Fuori dalla visuale del fiume, cavalieri ammantati di bianco riempivano gli spazi fra le ericacee e i pini, impugnando le lance con disinvolta familiarità, o con gli archi appoggiati sui pomi delle selle. I cavalli scalpitavano con impazienza e agitavano le code. I cavalieri attendevano con maggiore flemma; non sarebbe stato il primo guado di un fiume in un territorio sconosciuto, e stavolta nessuno avrebbe tentato di fermarli.

In un’ampia radura oltre gli uomini a cavallo c’era una carovana dei Tuatha’an, i Girovaghi, i Calderai. Circa cento carri trainati da cavalli, simili a piccole casette su ruote, che creavano uno stridente miscuglio di colori, rosso, verde, giallo e ogni altra tinta immaginabile in combinazioni che potevano piacere solo all’occhio di un Calderaio. Le persone stesse indossavano abiti che facevano apparire smorti i carri. Stavano seduti a terra in un largo gruppo, lanciando occhiate agli uomini a cavallo con un insolito calmo disagio; si sentì il flebile pianto di un bambino immediatamente consolato dalla madre. Non lontano i mastini morti erano già ricoperti di mosche. I Calderai non avrebbero alzato una mano nemmeno per difendersi, e i cani erano stati solo una dimostrazione, ma Bornhald non voleva correre rischi.

Sei uomini erano tutti quelli che riteneva necessari per tenere d’occhio i Calderai.

Anche con i volti rigidi, sembravano imbarazzati. Nessuno guardava i sette uomini a cavallo vicino ai carri, tra cui un piccolo uomo ossuto dal grande naso con indosso una giubba rosso scuro che sembrava troppo grande per lui, malgrado la finezza del taglio. Farran, un massiccio uomo barbuto ma dal passo leggero malgrado la statura e il peso, stava in piedi e li fissava tutti quanti alla stessa maniera. Il centurione si premette la mano guantata sul cuore in segno di saluto, ma lasciò tutta la conversazione a Bornhald.

«Vorrei scambiare una parola con te, mastro Ordeith» iniziò quietamente Bornhald. L’uomo ossuto chinò il capo, guardandolo a lungo prima di smontare da cavallo. Farren brontolò, ma Bornhald mantenne bassa la voce. «Non riusciamo a trovare tre Calderai, mastro Ordeith. Hai forse messo in pratica i tuoi suggerimenti?»

Le prime parole che avevano lasciato la bocca di Ordeith quando aveva visto i Calderai erano state: «Uccideteli. Non servono a nulla.» Bornhald aveva ucciso la sua parte di uomini, ma non aveva mai eguagliato la naturalezza nel farlo con la quale aveva parlato il piccoletto.

Ordeith si passò un dito sul largo naso. «Spiegami, perché li avrei uccisi? E dopo che mi hai strapazzato solo per averlo proposto.» L’accento lugardiano quel giorno era pesante; sembrava che lui non si accorgesse di come andava e veniva, un’altra cosa che disturbava Bornhald.

«Allora li hai lasciati scappare, vero?»

«Be’, riguardo a questo, ne ho preso qualcuno in disparte quando capivo che sapeva qualcosa. Senza disturbare, sai.»

«Cosa sapevano? Cosa può sapere un Calderaio, per la Luce, che ci sia di qualche utilità?»

«Non c’è modo di capirlo fino a quando non chiedi, non ti pare?» rispose Ordeith. «Non ho fatto troppo male a nessuno, e gli ho detto di tornare ai loro carri. Chi pensava che avessero il coraggio di fuggire con così tanti tuoi uomini in giro?»

Bornhald si accorse che stava digrignando i denti. Aveva ricevuto l’ordine di impiegare il minore tempo possibile con questo strano tizio che aveva altri ordini per lui. A Bornhald la cosa non piaceva affatto, però entrambi gli ordini portavano il sigillo e la firma di Pedron Niall, lord Capitano Comandante dei Figli della Luce.

Troppo era stato omesso, incluso il ruolo preciso di Ordeith. Il piccoletto era presente per consigliare Bornhald, e Bornhald doveva cooperare con lui. Non era chiaro se Ordeith doveva essere ai suoi ordini e non amava dover tenere conto dei suoi consigli. Anche lo scopo dell’invio di così tanti Figli in questo posto fuori mano era stato vago. Per sradicare gli Amici delle Tenebre, naturalmente, e diffondere la Luce; questo era sottinteso. Ma circa mezza legione era sul suolo andorano senza permesso. L’ordine era in serio pericolo se ne fosse giunta notizia alla regina in Caemlyn. Troppi fatti per essere bilanciati dalle poche risposte che erano state fornite a Bornhald.

Tutto riconduceva a Ordeith. Bornhald non capiva come faceva il lord Capitano Comandante a fidarsi di quest’uomo, con quel sorriso malizioso, i modi oscuri e quegli sguardi altezzosi che rendevano difficile capire a che tipo di uomo ci si stesse rivolgendo. Per non parlare dell’accento che cambiava nel mezzo di una frase. I cinquanta Figli che avevano accompagnato Ordeith erano accigliati e contrariati come Bornhald non aveva visto mai. Pensava che Ordeith li avesse scelti di persona vedendo così tanti cipigli, e questo diceva qualcosa dell’uomo. Anche il nome, Ordeith, significava ‘tarlo’ nella lingua antica. Eppure Bornhald aveva le sue ragioni per voler restare dove si trovava. Avrebbe cooperato con l’uomo, visto che doveva. Ma solo quanto doveva.

«Mastro Ordeith,» continuò Bornhald con un tono di voce attentamente equilibrato «questo traghetto è la sola via d’entrata o d’uscita dal distretto dei Fiumi Gemelli.» Non era esattamente vero. Secondo le mappe in suo possesso, non c’era altra via attraverso Taren tranne questa e il tratto navigabile superiore fra le due anse del Manetherendrelle che fiancheggiava la regione a sud non aveva guadi. A est c’erano acquitrini e paludi. Anche così, doveva esserci una via verso ovest, attraverso le montagne della Nebbia, però la mappa si interrompeva al limitare di quell’area. Nella migliore delle ipotesi, sarebbe stato un attraversamento difficile al quale molti dei suoi uomini potevano non sopravvivere, e non intendeva lasciare che Ordeith venisse a conoscenza anche di quella piccola possibilità.

«Quando giungerà il momento di andare via, se troverò dei soldati andorani a presidiare questa riva, cavalcherai con i primi che attraverseranno. Troverai interessante osservare da vicino la difficoltà di oltrepassare a forza un fiume così ampio, d’accordo?»

«Questo è il tuo primo comando, vero?» Nella voce di Ordeith c’era una traccia di presa in giro.

«Forse questa è una parte di Andor sulle mappe, ma Caemlyn non ha inviato un esattore delle tasse così lontano per generazioni. Anche se quei tre dovessero parlare, chi crederebbe dei Calderai? Se credi che il pericolo sia troppo elevato, ricordati di chi sono i sigilli sugli ordini.»

Farran lanciò un’occhiata a Bornhald e si protese parzialmente verso la spada. Bornhald scosse leggermente il capo e Farran distese la mano lungo il fianco. «Intendo attraversare il fiume, mastro Ordeith. Lo farò anche se la prossima notizia che riceverò sarà che Gareth Bryne e le guardie della regina saranno qui al tramonto.»

«Naturalmente» rispose Ordeith, improvvisamente tranquillizzato. «Ci sarà altrettanta gloria qui che a Tar Valon, te lo assicuro.» Gli occhi scuri e profondi assunsero un’espressione vitrea e fissavano qualcosa in lontananza.

«Ci sono cose a Tar Valon che io voglio.»

Bornhald scosse il capo. E devo cooperare con lui, pensò.

Jaret Byar si raddrizzò e smontò da cavallo accanto a Farran. Alto quanto il centurione, Byar era un uomo dal viso lungo con gli occhi scuri e profondi. Sembrava che ogni grammo del suo grasso fosse stato bollito via. «Il villaggio è sicuro, mio signore. Lucellin si sta accertando che nessuno se ne vada di soppiatto. Se la sono quasi fatta sotto quando ho menzionato gli Amici delle Tenebre. Sostengono che non ce n’è nessuno nel loro villaggio. Però sostengono anche che quelli che abitano più a sud sono Tipi da Amici delle Tenebre.»

«Più a sud?» chiese Bornhald energico. «Vedremo. Piazza trecento uomini oltre il fiume, Byar. Quelli di Farran per primi. Gli altri seguiranno dopo i Calderai. E assicurati che non scappi nessun altro, capito?»

«Ripuliremo i Fiumi Gemelli» si intromise Ordeith. Il volto sottile era deformato; la saliva gli ribolliva sulle labbra. «Li flagelleremo, li scorticheremo e cauterizzeremo le loro anime! Te lo garantisco! Adesso lui verrà a me! Verrà!»

Bornhald fece un cenno col capo a Byar e Farran affinché cominciassero a eseguire gli ordini. Un pazzo, pensò. Il lord Capitano Comandante mi ha vincolato a un pazzo. Ma almeno troverò la mia via verso Perrin dei Fiumi Gemelli. A qualsiasi costo. Vendicherò mio padre!

Da una terrazza circondata da colonne in cima a una collina, la Somma signora Suroth guardava l’ampio bacino inclinato del porto di Cantorin. I lati rasati del cranio lasciavano un’ampia cresta di capelli neri che le ricadevano sulle spalle. Le mani riposavano leggere appoggiate su una balaustra di liscia pietra bianca come la gonna che indossava con centinaia di pieghette. Si sentiva un lieve ticchettio ritmico mentre la donna inconsciamente tamburellava il davanzale con le unghie lunghe due centimetri e mezzo, le prime due di entrambe le mani laccate di blu.

Dall’oceano Aryth giungeva una delicata brezza, che trasportava più che una traccia di salmastro nella sua frescura. Due giovani donne inginocchiate contro la parete alle spalle della Somma signora Suroth avevano in mano ventagli piumati di bianco, pronte a sventolarli in caso la brezza fosse caduta. Altre due donne e quattro giovani uomini completavano la fila di figure accovacciate che attendevano di servire. Scalzi, tutti e otto indossavano abiti velati, per compiacere il senso estetico della Somma signora con le linee pure della loro anatomia e la grazia dei movimenti. In questo momento Suroth non vedeva i servitori, non più di quanto notasse l’arredamento.

Però vedeva i sei soldati, i Sorveglianti della Morte, alle estremità del colonnato, rigidi come statue con le lance dalle nappe nere e gli scudi laccati dello stesso colore. Rappresentavano il suo trionfo, e, allo stesso tempo, il pericolo in cui si trovava. I Sorveglianti della Morte servivano solamente l’imperatrice e i rappresentanti scelti, avrebbero ucciso o sarebbero morti con lo stesso fervore, secondo la necessità. C’era un detto, ‘sulle alture i sentieri sono lastricati di pugnali’.

Le unghie ticchettavano sulla balaustra. Suroth pensava a com’era sottile la lama di rasoio sulla quale camminava.

I vascelli degli Atha’an Miere, il Popolo del Mare, riempivano il porto interno oltre le dighe, e anche la nave che sembrava essere la più larga appariva troppo stretta in relazione alla lunghezza. Il sartiame accorciato faceva assumere ai pennoni e ai boma strane angolazioni. I ponti erano vuoti, le ciurme a terra e sotto sorveglianza, come chiunque in queste isole che avesse la capacità di navigare i mari aperti. Una ventina di grandi navi seanchan dai ponti scoscesi erano ancorate all’imboccatura del porto esterno. Una, con le vele a coste rigonfie dal vento, scortava una moltitudine di piccoli pescherecci di nuovo verso il porto dell’isola. Se queste piccole imbarcazioni si fossero sparpagliate, alcune di loro sarebbero riuscite a fuggire, ma la nave seanchan trasportava una Damane, e una sola dimostrazione del potere di una Damane aveva represso qualsiasi pensiero di fuga. La carcassa della nave del Popolo del Mare carbonizzata e in frantumi ancora giaceva su un banco di fango vicino all’imboccatura del porto.

Per quanto ancora sarebbe riuscita a evitare che il Popolo del Mare negli altri luoghi — e i maledetti continentali — scoprissero che aveva in pugno queste isole, Suroth davvero non lo sapeva. Abbastanza a lungo, si disse. Deve essere abbastanza.

Aveva compiuto qualcosa di simile a un miracolo nel radunare la maggior parte delle forze Seanchan dopo la fuga precipitosa, conseguenza delle azioni del Sommo signore Turak. Solo una manciata dei velieri scampati da Falme era sotto controllo, e nessuno metteva in dubbio il suo diritto di comandare gli Hailene, i Predecessori. Se il miracolo resisteva, nessuno sul continente ancora sospettava che i Seanchan si trovassero sulle isole. In attesa di riprendersi le terre che l’imperatrice aveva mandato a reclamare, in attesa di compiere il Corenne, il Ritorno. I suoi agenti erano già andati in ricognizione alla scoperta di una via. Non ci sarebbe stato bisogno di fare ritorno alla corte delle Nove Lune e chiedere scusa all’imperatrice per un fallimento che non era nemmeno suo.

Fu scossa da un tremito al pensiero di dover chiedere scusa all’imperatrice. Una tale cosa era sempre umiliante e solitamente dolorosa, ma ciò che le procurava i brividi era la possibilità che alla fine le venisse negata la morte, di essere costretta a proseguire come se nulla fosse accaduto mentre tutti, la gente comune come anche quella del Sangue, erano a conoscenza della sua denigrazione. Un giovane servitore di bell’aspetto scattò al suo fianco, fra le mani una veste verde chiaro decorata con brillanti piume degli uccelli della delizia. Suroth distese le braccia per indossare la veste e non prestò alcuna attenzione al ragazzo, lo considerava non più di una zolla di terra vicino alla scarpa di velluto.

Per evitare quelle scuse doveva riprendere ciò che era stato perduto mille anni prima. E per compiere una tale impresa, doveva vedersela con questo uomo che, le avevano spiegato i suoi agenti nel continente, sosteneva di essere il Drago Rinato. Se non riesco a trovare un modo per affrontarlo, il dispiacere dell’imperatrice sarà l’ultima delle mie preoccupazioni, pensò.

Voltandosi in modo aggraziato, entrò nella lunga stanza che fronteggiava la terrazza, le pareti esterne piene di porte e alte finestre per cogliere la brezza. Il legno chiaro delle pareti, liscio e brillante come raso, le piaceva, ma aveva rimosso la mobilia del precedente proprietario, un tempo governatore di Cantoria appartenente agli Atha’an Miere, rimpiazzandola con alcuni alti paraventi, la maggior parte decorata con uccelli o fiori. Due erano differenti. Uno mostrava un gatto maculato di Sen T’jore, grande come un cavallino, l’altro un’aquila delle Montagne Nere, con la cresta sollevata come una corona e le punte delle ali bianche candide distese in tutta la loro lunghezza, circa due metri e mezzo. Tali paraventi erano considerati volgari, ma a Suroth piacevano gli animali. Non avendo potuto portare con sé il suo serraglio attraverso l’oceano Aryth, si era fatta fare su ordinazione i due paraventi per ritrarre i due favoriti. Non aveva mai accettato serenamente il fatto di doversi tirare indietro davanti a qualcosa.

Tre donne la attendevano esattamente come le aveva lasciate, due in ginocchio, una prostrata sul lucido pavimento spoglio, decorato con intarsi di legno scuro e chiaro. Le donne inginocchiate indossavano l’abito blu scuro delle sul’dam, con riquadri rossi sui quali, all’altezza del petto e sui lati della gonna, erano ricamati fulmini d’argento ramificati. Una delle due, Alwhin, dal viso affilato e gli occhi azzurri costantemente torvi, aveva il lato sinistro del cranio rasato. Il resto dei capelli le ricadeva sulle spalle in una treccia castano chiaro.

Suroth tese momentaneamente le labbra alla vista di Alwhin. Nessuna sul’dam era mai stata promossa so’jhin, i servi del Sangue di livello superiore, per discendenza, meno ancora alla posizione di Voce del Sangue. Eppure c’erano stati motivi precisi nel caso di Alwhin. Sapeva troppo.

Però fu sulla donna distesa faccia a terra, vestita di semplice grigio, che Suroth diresse l’attenzione. Un ampio collare di metallo argentato le circondava il collo, collegato da un guinzaglio rilucente a un braccialetto dello stesso materiale al polso della seconda sul’dam, Taisa. Con l’uso del guinzaglio e del collare, l’a’dam, Taisa poteva controllare la donna vestita di grigio. Era una Damane, una donna che poteva incanalare, di conseguenza troppo pericolosa per essere lasciata circolare in libertà. I ricordi degli Eserciti della Notte erano ancora forti nella memoria Seanchan, mille anni dopo la loro distruzione.

Gli occhi di Suroth andavano a disagio da una sul’dam all’altra. Ormai non si fidava più di nessuna sul’dam, eppure non aveva altra scelta. Nessun altro poteva controllare le Damane... il solo concetto era impensabile. Il potere dei Seanchan, il potere stesso del Trono di Cristallo, era costruito sulle Damane sotto controllo. Troppe cose su cui non aveva scelta, per i suoi gusti.

Per esempio Alwhin, che la guardava come se fosse stata so’jhin tutta la vita. No. Come se anche lei fosse del Sangue, e in ginocchio solo perché lo aveva scelto.

«Pura.» La Damane aveva avuto un altro nome quando era stata una delle odiate Aes Sedai, prima di cadere nelle mani delle Seanchan, ma Suroth non conosceva il vecchio nome e non le importava. La donna vestita di grigio entrò in tensione, ma non sollevò il capo; l’addestramento ricevuto era stato particolarmente duro. «Te lo chiederò un’altra volta, Pura. Come fa la Torre Bianca a controllare quest’uomo che si proclama Drago Rinato?»

La Damane mosse la testa di una frazione, sufficiente per lanciare un’occhiata spaventata a Taisa. Se avesse risposto in modo spiacevole, la sul’dam poteva provocarle dolore senza nemmeno alzare un dito, tramite l’a’dam. «La Torre non cercherebbe di controllare un falso Drago, Somma signora» rispose Pura sommessamente. «Lo catturerebbe e lo domerebbe.»

Taisa sembrava indignata per la Somma signora. La risposta aveva evitato la domanda di Suroth, forse anche suggerendo che una del Sangue aveva detto una menzogna. Suroth scosse leggermente il capo, un movimento infinitesimale — non desiderava attendere fino a quando la Damane non si fosse ripresa dalla punizione — e Taisa chinò il capo in segno di consenso.

«Ancora una volta, Pura, cosa sai delle Aes Sedai...»

Suroth distorse le labbra nel doverle insozzare con quel nome; Alwhin emise un verso di disgusto «... Aes Sedai che aiutano quest’uomo? Ti avviso. I nostri soldati a Falme hanno combattuto contro donne della Torre che incanalavano il Potere, per cui non cercare di negare.»

«Pura... Pura non lo sa, Somma signora.» C’era una sorta di apprensione nella voce della Damane, e di incertezza; lanciò un’altra occhiata a Taisa. Era chiaro che voleva disperatamente essere creduta. «Forse... forse l’Amyrlin, o il Consiglio della Torre... No, non lo farebbero. Pura non lo sa, Somma signora.»

«L’uomo può incanalare» rispose bruscamente Suroth. La donna al suolo si lamentò, anche se aveva già sentito in precedenza le stesse parole. Pronunciarle ancora fece stringere lo stomaco a Suroth, ma non lo mostrò con l’espressione. Poco di quel che era accaduto a Falme era stato opera di donne che potevano incanalare; le Damane potevano percepirlo, e le sul’dam che indossavano il bracciale sapevano sempre cosa sentiva una Damane. Questo significava che doveva essere stato opera dell’uomo. Significava anche che era incredibilmente potente. Così potente che Suroth si era chiesta una o due volte, avvertendo la nausea, se fosse davvero il Drago Rinato. Non può essere, si disse con fermezza. In ogni caso non faceva differenza per i suoi piani. «È impossibile credere che proprio la Torre Bianca permetta a un tale uomo di circolare liberamente. Come lo controllano?»

La Damane giaceva silenziosa, col volto a terra, le spalle scosse dal pianto.

«Rispondi alla Somma signora!» le intimò Taisa duramente. La donna non si mosse, ma Pura rimase senza fiato, trasalendo come se fosse stata colpita sui fianchi. Un colpo inferto tramite l’a’dam.

«P... Pura non lo s... sa.» La Damane protese una mano esitante come a voler toccare il piede di Suroth. «Ti prego. Pura ha imparato a obbedire. Pura dice il vero. Ti prego, non punire Pura.»

Suroth indietreggiò graziosamente, senza mostrare l’irritazione. Per essere stata costretta a muoversi a causa di una Damane. Per essere stata quasi sfiorata da una donna che poteva incanalare. Sentiva il bisogno di fare un bagno, come se fosse stata afferrata.

Gli occhi di Taisa si colmarono di oltraggio per la sfrontatezza della Damane; le guance erano rosse per la vergogna che fosse accaduto mentre indossava il bracciale. Sembrava combattuta tra il desiderio di prostrarsi anche lei vicino alla Damane per implorare perdono e quello di punire la donna immediatamente. Alwhin la fissava con le labbra tese dal disprezzo; ogni linea del suo viso suggeriva che certe cose non succedevano quando era lei a indossare il bracciale.

Suroth alzò impercettibilmente un dito, facendo un piccolo gesto che ogni so’jhin conosceva fin dall’infanzia, un semplice gesto di congedo.

Alwhin esitò prima di interpretarlo, quindi cercò di coprire il ritardo nella reazione rivoltandosi duramente contro Taisa. «Porta questa... creatura via dal cospetto della Somma signora Suroth. Quando l’avrai punita, recati da Surela e riferiscile che controlli le tue cariche come se non avessi mai indossato un bracciale prima d’ora. Dille che devi essere...»

Suroth escluse la voce di Alwhin dalla mente. Niente di tutto ciò era stato un suo ordine se non il congedo, ma i litigi fra sul’dam non la interessavano. Voleva sapere se Pura le nascondeva qualcosa. I suoi agenti riferivano che le donne della Torre Bianca non potevano mentire. Non era stato possibile costringere Pura a dire anche una semplice bugia, a dichiarare che una sciarpa bianca era nera, eppure non era sufficiente per essere decisivo. Si potevano anche accettare le lacrime delle Damane, le proteste di incapacità qualsiasi cosa facesse la sul’dam, ma chi si comportava a quel modo non sarebbe stato mai elevato a guidare il Ritorno. A Pura poteva essere rimasta una riserva di volontà, poteva essere abbastanza furba da usare la credenza che fosse incapace di mentire. Nessuna delle donne imprigionate nel continente erano completamente obbedienti, fidate, non come le Damane portate da Seanchan. Nessuna di loro accettava del tutto quel che era, come faceva una Damane seanchan. Chi poteva dire quali segreti potevano nascondersi in una donna che si era fatta chiamare Aes Sedai?

Non per la prima volta, Suroth desiderò di avere anche l’altra Aes Sedai che era stata catturata a Capo Toman. Con due da interrogare ci sarebbero state migliori possibilità di scoprire bugie e sotterfugi. Era un desiderio inutile. Poteva essere morta, annegata, o in mostra alla Corte delle Nove Lune. Alcune navi che Suroth non era riuscita a riunire dovevano essere tornate indietro attraverso l’oceano e una avrebbe benissimo potuto trasportare la donna.

Lei stessa aveva inviato una nave a consegnare rapporti accurati, ormai quasi sei mesi fa, appena consolidato il controllo sui Predecessori, con un capitano e una ciurma da famiglie che l’avevano servita fin da quando Luthair Paendrag si era proclamato imperatore, quasi mille anni fa.

Inviare la nave era stata una scommessa, poiché l’imperatrice poteva rimandare indietro qualcuno a prendere il posto di Suroth. Non inviarla però sarebbe stata una scommessa maggiore; solo una vittoria completa e schiacciante avrebbe potuto salvarla in quel caso. Forse nemmeno quella. Così ora l’imperatrice sapeva di Falme, era al corrente del disastro di Turak, e delle intenzioni di Suroth di proseguire. Ma qual era il suo pensiero, e cosa stava facendo a riguardo? Quello era un pensiero più grande di qualsiasi Damane, qualunque cosa fosse stata prima di indossare il collare.

Ma l’imperatrice non sapeva tutto. Le cose più gravi non potevano essere affidate a nessun messaggero, non importava quanto fosse leale. Sarebbero state riferite solo dalle labbra di Suroth alle orecchie dell’imperatrice, e Suroth si era assicurata al riguardo. Solo quattro donne che erano a conoscenza del segreto ancora vivevano, e due di queste non ne avrebbero parlato con nessuno, non di loro volontà. Solo tre decessi potrebbero proteggere meglio il segreto, pensò.

Suroth non si rese conto di aver mormorato le ultime parole fino a quando Alwhin puntualizzò: «Eppure la Somma signora ha bisogno che restino in vita.» La donna manteneva la corretta posizione umile, che le consentiva di vedere ogni segno proveniente da Suroth pur mantenendo lo sguardo basso. Anche la voce era umile. «Chi può dire, Somma signora, cosa potrebbe fare l’imperatrice — possa vivere per sempre! — se venisse a conoscenza del tentativo di tenerle nascosta una tal cosa?»

Invece di rispondere, Suroth fece ancora una volta l’infinitesimale gesto di congedo. Di nuovo Alwhin esitò — stavolta doveva trattarsi di semplice riluttanza; la donna si elevava sopra di lei! — prima di inchinarsi profondamente e arretrare per lasciare il cospetto di Suroth.

Con uno sforzo la Somma signora trovò la calma. La sul’dam e le altre due erano un problema che non poteva risolvere in questo momento, ma la pazienza era fondamentale per il Sangue. Quelli che ne avevano poca erano facilmente destinati a finire nella Torre dei Corvi.

Sul balcone, la fila di servitori inginocchiati si era protesa leggermente avanti, pronta in caso Suroth dovesse apparire di nuovo. I soldati mantenevano la vigilanza affinché non venisse disturbata. Suroth tornò al suo posto vicino alla balaustra, stavolta fissando il mare, verso il continente a centinaia di chilometri a est.

Guidare i Predecessori con successo dando il via al Ritorno, le avrebbe arrecato molto onore. Forse anche l’adozione nella famiglia dell’imperatrice, anche se quello era un onore non privo di complicazioni. E anche catturare il Drago, che fosse falso o vero, assieme alla possibilità di controllare il suo incredibile potere...

Ma... una volta preso, lo consegnerò all’imperatrice? Questo è il problema, pensò.

Le lunghe unghie cominciarono a ticchettare nuovamente sull’ampia balaustra di pietra.

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