29 Occhi spietati

Elyas pretese velocità, nella pianura d’erba secca, quasi a compensare il tempo perduto con i Girovaghi, e si diresse tra levante e meridione a tale andatura che perfino Bela era contenta di fermarsi, quando il crepuscolo s’infittiva. Però, nonostante la fretta, prese precauzioni trascurate in precedenza. Di notte accendeva il fuoco solo se per terra c’era già legna secca e non voleva che staccassero dagli alberi nemmeno un ramoscello. Il fuoco era sempre piccolo e schermato in un pozzetto ottenuto sollevando con cura una zolla. Preparata la cena, Elyas sotterrava le braci e rimetteva a posto la zolla. Prima di riprendere il cammino nel grigiore della falsa alba, esaminava palmo a palmo il luogo dove si erano accampati e si accertava che non fosse rimasta la minima traccia della loro presenza. Arrivava perfino a rimettere a posto qualche pietra e a raddrizzare steli d’erba. Non impiegava molto, mai più di qualche minuto, ma non partivano se non era soddisfatto.

Perrin non credeva che quelle precauzioni risultassero utili contro dei sogni; ma poi pensò a che cosa servivano e rimpianse che non si trattasse solo dei sogni. La prima volta Egwene domandò ansiosamente se i Trolloc erano tornati, ma Elyas scosse la testa e li incitò a procedere. Perrin non disse niente. Sapeva che nelle vicinanze non c’erano Trolloc: i lupi fiutavano solo erba e alberi e piccoli animali. Elyas non era spinto dalla paura per i Trolloc, ma da qualcosa di cui nemmeno lui era sicuro. I lupi non sapevano che cosa fosse, ma percepirono l’insistente cautela di Elyas e cominciarono a esplorare il terreno come se il pericolo li seguisse da vicino o li aspettasse in un’imboscata al di là della prossima altura.

Il territorio si mutò in lunghe ondulazioni troppo basse per meritare il nome di colline. Un tappeto di erba resistente, ancora secca per l’inverno e punteggiata d’erbacce rigogliose, si estendeva davanti a loro, increspato dal vento di levante che non trovava ostacoli nel raggio di cento miglia. I boschetti divennero più distanziati. Il sole si alzava con riluttanza, privo di calore.

Elyas seguiva il più possibile il contorno del terreno ed evitava di salire sulla cima delle alture. Parlava di rado, ma quando apriva bocca...

«Sapete quanto tempo sprechiamo a girare intorno a ogni maledetta altura? Sangue e ceneri! Arriverà l’estate, prima che mi sia liberato di voi. No, non possiamo andare dritti! Quante volte devo dirvelo? Avete idea di come risalta una persona in piedi su una cresta, in un territorio piatto come questo? Maledizione, facciamo due passi avanti e uno indietro. Sembriamo serpenti. Andrei più veloce con i piedi legati! Allora, ve ne state a fissarmi o camminate?»

Perrin e Egwene si scambiarono un’occhiata. Egwene mostrò la lingua alla schiena di Elyas. Nessuno dei due fece commenti. L’unica volta che Egwene protestò che non doveva prendersela con loro, visto che era lui a voler girare intorno alle alture, si beccò una lezione sul modo in cui il suono si propaga, in un ringhio che certo si era udito a un miglio di distanza.

Anche quando parlava, Elyas scrutava in continuazione tutt’intorno, a volte con lo sguardo fisso come se ci fosse qualcosa da vedere, oltre all’erba secca. Perrin invece non vedeva niente; e i lupi, neppure. Sulla fronte di Elyas comparvero altre rughe, ma lui non spiegò perché dovevano affrettarsi né da che cosa temeva che fossero inseguiti.

A volte sulla loro strada c’era una cresta più lunga delle altre, che si estendeva per miglia a levante e a ponente. Perfino Elyas ammetteva che farne il giro li avrebbe portati troppo fuori strada. Allora li lasciava alla base del pendio, strisciava carponi sulla cresta e scrutava con cautela dall’altra parte, come se solo dieci minuti prima i lupi non avessero controllato la presenza di pericoli. L’attesa alla base del pendio pareva durare delle ore e rendeva nervosi. Egwene si mordicchiava il labbro e senza accorgersene faceva scorrere tra le dita le perline della collana avuta da Aram. Perrin aspettava con tenacia. Si sentiva un peso sullo stomaco, ma riusciva a mostrarsi calmo e a nascondere il turbamento interiore.

"I lupi ci avvertiranno, se c’è pericolo” pensava. “Sarebbe bello, se sparissero, ma in questo momento ci aiutano. Che cosa cerca, Elyas?"

Dopo un lungo esame, sporgendo appena la testa, Elyas faceva sempre segno di farsi avanti. Ogni volta la strada era libera... finché non trovavano di nuovo un’altura impossibile da aggirare. La terza volta, Perrin si sentì in bocca il sapore di bile: era sicuro che avrebbe vomitato, se avesse dovuto aspettare anche solo cinque minuti. «Ve... vengo anch’io» dichiarò.

«Tienti basso» si limitò a rispondere Elyas.

A quel punto anche Egwene smontò da cavallo.

Elyas si tirò sugli occhi il berretto di pelliccia e da sotto il bordo fissò la ragazza. «Ti aspetti di far procedere carponi la giumenta?» disse seccamente.

Egwene aprì bocca per protestare, ma non emise suono. Alla fine si strinse nelle spalle; Elyas si girò senza altri commenti e cominciò a risalire il pendio. Perrin lo seguì.

A breve distanza dalla cresta Elyas gli segnalò di abbassarsi e subito si mise carponi e strisciò per l’ultimo tratto. Anche Perrin si appiattì sul terreno.

Sulla cima, Elyas si tolse il berretto, prima di sporgere la testa. Scrutando attraverso un ciuffo di erbacce spinose, Perrin vide solo la stessa pianura ondulata che avevano alle spalle. Il pendio era spoglio, ma in una depressione larga un centinaio di passi cresceva un folto d’alberi, forse mezzo miglio a meridione della cresta. I lupi l’avevano già esplorato, senza fiutare tracce di Myrddraal o di Trolloc.

A levante e a ponente, fin dove arrivava lo sguardo, il territorio era sempre uguale: praterie ondulate e boschetti assai distanziati. Niente si muoveva. I lupi erano un miglio più avanti, fuori vista; a quella distanza, Perrin li percepiva a malapena. Non avevano visto niente, esplorando quel tratto. “Cosa cerca, Elyas?" si domandò di nuovo Perrin. “Laggiù non c’è niente."

«Perdiamo solo tempo» disse, cominciando ad alzarsi. In quel momento uno stormo di corvi si levò all’improvviso dal folto d’alberi: cinquanta, cento uccelli neri che descrivevano una spirale nel cielo. Perrin impietrì, piegato in due, mentre i corvi roteavano in alto sugli alberi. “Gli occhi del Tenebroso” pensò. “Mi avranno visto?" Gocce di sudore freddo gli colarono sul viso.

Come se un solo pensiero fosse scaturito a un tratto in cento minuscoli cervelli, ogni corvo virò di colpo dalla stessa parte. Meridione. Lo stormo scomparve al di là dell’altura. A levante, da un altro boschetto si levarono in volo altri corvi; lo stormo nero roteò due volte e puntò a meridione.

Tutto tremante, Perrin si distese al suolo. Cercò di parlare, ma aveva la bocca troppo secca. Dopo un minuto riuscì a trovare un po’ di saliva. «Di questo avevi paura?» disse a Elyas. «Perché non ne hai parlato? Come mai i lupi non li hanno visti?»

«I lupi non guardano sugli alberi» brontolò Elyas. «E no, non cercavo corvi. Te l’ho detto, non so cosa...» Lontano, verso ponente, una nuvola nera si levò da un altro boschetto e si diresse a meridione. La distanza non permetteva di distinguere i singoli uccelli. «Non è una grande caccia, grazie alla Luce. Loro non sanno. Anche dopo...» Si girò a fissare la strada percorsa.

Perrin deglutì. Anche dopo il sogno, intendeva dire Elyas. «Non è una grande caccia? Dalle mie parti non si vedono tanti corvi neppure in un anno.»

Elyas scosse la testa. «Nelle Marche di Confine ho visto stormi di mille corvi. Non di frequente... da quelle parti c’è un premio per ogni corvo ucciso... ma è accaduto.» Guardava ancora verso settentrione. «Stai zitto, ora.»

Perrin percepì allora lo sforzo di mettersi in contatto con i lupi lontani. Elyas voleva che Dapple e i suoi due compagni smettessero di esplorare la zona più avanti e tornassero subito a controllare la strada già percorsa. Il suo viso era reso più magro dalla tensione. I lupi erano così distanti che Perrin non riusciva nemmeno a percepirli. Presto. Tenete d’occhio il cielo. Presto.

Perrin colse la debole risposta: Arriviamo. Un’immagine gli balenò nella mente e svanì in un attimo: lupi in corsa, muso al vento, come se avessero un incendio alle spalle.

Elyas si lasciò cadere sul terreno e trasse un profondo respiro. Con la fronte corrugata, scrutò al di là della cresta, poi di nuovo a settentrione, e brontolò tra sé.

«Credi che ci siano altri corvi, dietro di noi?» domandò Perrin.

«Può darsi» rispose Elyas, vago. «Fanno in questo modo, a volte. Conosco un posto, se ci arriviamo col buio. Ma dobbiamo continuare a muoverci fino a notte, anche se non ci arriviamo; non procediamo velocemente come vorrei. Non possiamo avvicinarci troppo ai corvi che ci precedono. E se li abbiamo anche alle spalle...»

«Perché, col buio?» domandò Perrin. «E quale posto? Un posto al sicuro dai corvi?»

«Al sicuro dai corvi» confermò Elyas. «Ma troppa gente sa... Di notte i corvi dormono. Non dobbiamo temere che ci trovino, nel buio. Fossero i corvi la nostra sola preoccupazione!» Diede ancora un’occhiata al di là della cresta, si alzò e segnalò a Egwene di portare su Bela. «Ma il buio è ancora lontano. Dobbiamo muoverci.» Iniziò a scendere di corsa il pendio, rischiando di ruzzolare a ogni passo. «Muovetevi, maledizione!»

Perrin lo seguì, correndo e scivolando.

Egwene giunse in cima all’altura e spinse al trotto Bela. Un sorriso di sollievo le sbocciò sul viso, quando li vide. «Cosa succede?» gridò, incitando la giumenta a raggiungerli. «Quando siete scomparsi a quel modo ho pensato... Cos’è accaduto?»

Perrin risparmiò il fiato finché lei non li raggiunse. Allora le disse dei corvi e del luogo sicuro di Elyas, ma fu una spiegazione confusa. «Corvi!» esclamò Egwene, con voce strozzata, e continuò a fare domande alle quali Perrin non seppe rispondere. Ma non smise di correre fino alla cresta seguente.

Normalmente — se qualcosa in quel viaggio si poteva definire normale — avrebbero aggirato quella cresta, anziché superarla; ma Elyas pretese comunque cautela.

«Vuoi finire proprio in mezzo a loro, ragazzo?» disse, acido.

Perrin si domandò se i corvi tornassero indietro all’improvviso. Sarebbe stato un colpo, arrivare sulla cresta nello stesso momento di uno stormo!

Giunto in cima, sporse la testa quanto bastava a guardare e tirò un sospiro di sollievo: c’era solo un boschetto, verso ponente. E nessun corvo in vista. All’improvviso una volpe sbucò di gran carriera dagli alberi. E i corvi si lanciarono all’inseguimento. Il battito d’ali quasi soffocò il guaito disperato della volpe. In turbine nero calò sull’animale e roteò intorno. La volpe cercò di azzannare i corvi, ma quelli saettavano avanti e indietro,col becco lustro di bagnato, e non si lasciavano nemmeno sfiorare. La volpe deviò di nuovo verso gli alberi, cercando scampo nella tana. Ora correva goffamente, a testa bassa, con il pelo scuro e insanguinato; i corvi l’attorniarono, in numero sempre maggiore, finché non la nascosero del tutto. Con la repentinità con cui erano scesi, si levarono in volo, rotearono e svanirono al di là dell’altura seguente, verso meridione. Un mucchietto informe di pelliccia a brandelli segnava il punto dove c’era stata la volpe.

Perrin deglutì con forza. “Luce santa!" pensò. “Potrebbero fare a noi la stessa cosa. Cento corvi. Potrebbero..."

«Muovetevi» brontolò Elyas, alzandosi di scatto. Segnalò a Egwene di avvicinarsi e, senza aspettare, si lanciò di corsa verso gli alberi. «Muovetevi, maledizione!» gridò, girando solo la testa. «Muovetevi!»

Egwene lanciò al galoppo Bela e li raggiunse prima che arrivassero in fondo al pendio. Non c’era tempo per le spiegazioni, ma lei notò ugualmente i resti della volpe. Divenne bianca come un cencio.

Elyas arrivò ai primi alberi e si girò a incitarli, con grandi cenni. Perrin cercò di accelerare e inciampò. Mulinando le braccia, riuscì a non finire lungo e disteso.

Un corvo solitario si levò dal boschetto. Piegò verso di loro, gracchiò e si lanciò verso meridione. Pur sapendo che ormai era troppo tardi, Perrin tolse dalla cintura la fionda. Cercava ancora di prendere di tasca una pietra, quando il corvo si bloccò a mezz’aria e cadde come un sasso. Vide allora la fionda in mano a Egwene. La ragazza gli sorrise, con aria incerta.

«Non state lì a contarvi le dita dei piedi!» gridò Elyas.

Con un sobbalzo, Perrin si affrettò a rifugiarsi sotto gli alberi e si gettò di lato per non farsi travolgere da Bela.

Lontano, verso ponente, quasi fuori vista, si levò in aria una sorta di nebbia nera. Perrin percepì i lupi passare da quella parte, diretti a settentrione e notare i corvi, a destra e a sinistra, senza rallentare. La nebbia nera turbinò come se inseguisse i lupi, poi di colpo virò e si diresse a meridione.

«Credi che ci abbiano scorti?» domandò Egwene. «Eravamo già fra gli alberi, vero? Non possono scorgerci da quella distanza. Vero? Erano troppo lontano.»

«Noi li abbiamo visti» rispose Elyas, secco. Perrin cambiò posizione, a disagio; Egwene trasse un respiro di paura. «Se ci avessero visti» ringhiò Elyas «si sarebbero lanciati su di noi come su quella povera volpe. Fate funzionare il cervello, se volete restare vivi. La paura vi ucciderà, se non la dominate.» Per un istante li fissò negli occhi. Poi annuì. «Ora se ne sono andati, e anche noi dovremmo essere in cammino. Tenete la fionda a portata di mano. Forse ci verrà utile di nuovo.»

Usciti dal boschetto, Elyas deviò verso ponente rispetto alla linea di marcia seguita fino a quel momento. Perrin si sentì mancare il fiato: pareva quasi che seguissero l’ultimo stormo di corvi. Elyas continuò, instancabile, e non restava che seguirlo. In fin dei conti, conosceva un posto sicuro. Da qualche parte. Così aveva detto.

Corsero fino all’altura seguente, attesero che i corvi volassero via, ripresero a correre e continuarono in questo modo. L’andatura costante dei giorni precedenti era stata faticosa, ma ora cominciarono a risentire dei cambi di velocità. Perrin aveva il fiatone e respirava a grandi boccate, nei pochi minuti di riposo, disteso sulla cima di un’altura, lasciando che fosse Elyas a esaminare la zona. Bela teneva bassa la testa e a ogni passo dilatava le froge. La paura li incitava a proseguire e Perrin non sapeva se riusciva o no a dominarla. Sperava solo che i lupi dicessero che cosa c’era alle loro spalle, se qualcosa c’era.

Davanti a loro c’erano più corvi di quanti Perrin avesse mai visto. Si levavano in volo, a destra e a sinistra, e puntavano a meridione. Decine di volte i tre raggiunsero il nascondiglio di un boschetto o la scarsa protezione di un pendio solo un attimo prima che i corvi sciamassero nel cielo. Una volta, con il sole che iniziava la parabola discendente, rimasero all’aperto, immobili come statue, a mezzo miglio dal riparo più vicino, mentre un centinaio di spie pennute del Tenebroso saettava a un solo miglio da loro, verso levante. Nonostante il vento, Perrin si sentì colare sul viso il sudore, finché l’ultima sagoma nera non si ridusse a un puntino e svanì.

Durante la fuga, Perrin perse il conto dei corvi isolati che abbatterono a colpi di fionda. E parecchie volte vide segni che giustificavano la paura per i corvi. Aveva guardato con un senso di nausea un coniglio fatto a pezzi. La testa priva d’occhi era rimasta dritta, mentre il resto, zampe e visceri, era sparpagliato all’intorno. E vide anche uccelli ridotti a informi mucchietti di piume. E altre due volpi.

Ricordò le parole di Lan: alle creature del Tenebroso piaceva uccidere. Il potere del Tenebroso era la morte. E se i corvi li avessero scoperti? Occhi spietati che luccicavano come perline nere. Becchi acuminati che si avventavano e spillavano sangue. Cento corvi. A meno che non potessero chiamare altri della loro razza, forse tutti, a partecipare alla caccia. Un’immagine nauseante gli si formò nella mente: un mucchio di corvi, alto come una collina, che ribolliva come un cumulo di larve, lottando per qualche brandello insanguinato.

All’improvviso questa immagine fu spazzata via da altre, ciascuna chiara per un istante e poi confusa in quella successiva. I lupi avevano scoperto corvi a settentrione. Uccelli gracchiami si tuffavano in picchiata e roteavano e si tuffavano di nuovo, con il becco che traeva sangue a ogni discesa. Lupi ringhianti schivavano e balzavano, si giravano a mezz’aria e azzannavano. Perrin assaporò penne e il gusto orrendo di corvi svolazzanti stritolati vivi, sentì il dolore di squarci sanguinanti in tutto il corpo, seppe con ostinata disperazione che tutti i suoi sforzi erano insufficienti. All’improvviso i corvi volarono via e turbinarono in alto, con un ultimo stridio di rabbia: i lupi non morivano facilmente come le volpi e loro avevano una missione. Un battito d’ali nere, e i corvi erano scomparsi, mentre qualche piuma nera volteggiava al suolo sui loro morti. Wind si leccò un colpo di becco alla zampa anteriore. C’era qualcosa che non andava, in un occhio di Hopper. Senza badare alle proprie ferite, Dapple li riunì e insieme si spinsero a balzi dolorosi nella direzione presa dai corvi. Il sangue macchiava la loro pelliccia.

Arriviamo. Il pericolo viene davanti a noi.

Correndo a passi malfermi, Perrin scambiò con Elyas un’occhiata. Gli occhi gialli dell’altro erano inespressivi, ma Perrin capì. Elyas non disse niente, si limitò a osservare Perrin e ad aspettare, senza smettere di correre.

"Aspetta la mia reazione” pensò Perrin. “Vuole sentirmi dire che percepisco i lupi."

«Corvi» ansimò, riluttante. «Dietro di noi.»

«Aveva ragione» mormorò Egwene. «Puoi parlare ai lupi.»

Perrin si sentiva i piedi come blocchi di ferro in fondo a pali di legno, ma cercò di muoverli più velocemente. Se almeno avesse potuto correre più in fretta dei corvi, più in fretta dei lupi, ma soprattutto degli occhi di Egwene, che ora sapeva chi era lui realmente! “Cosa sono?" pensò. “Contaminato, la Luce mi accechi! Maledetto!"

La gola gli bruciava come mai gli era bruciata quando respirava il fumo e il calore della fucina di mastro Luhhan. Barcollò e si aggrappò alla staffa, finché Egwene non smontò e lo spinse di peso in sella, nonostante le proteste. Non passò molto, comunque, prima che anche lei si reggesse alla staffa e corresse tenendo sollevate con l’altra mano le sottane; e ancora meno, prima che Perrin smontasse, con le ginocchia ancora malferme. Fu costretto ad alzarla di peso per metterla in sella, ma Egwene era troppo stanca per ribellarsi.

Elyas non voleva saperne di rallentare. Continuò a incitarli e a sfotterli, e si mantenne vicinissimo ai corvi; sarebbe bastato, si disse Perrin, che un uccello guardasse indietro e li avrebbe scoperti. «Muovetevi, maledizione!» imprecò Elyas. «Credete di cavarvela meglio di quella volpe, se ci prendono? La volpe con le sue stesse viscere ammucchiate sulla testa.» Egwene si sporse di sella e vomitò rumorosamente. «Sapevo che l’avreste ricordata. Continuate ancora un poco. Tutto qui. Ancora un poco. Maledizione, credevo che i giovani contadini avessero maggiore resistenza. Lavorano tutto il giorno e ballano tutta la notte. Dormono tutto il giorno e dormono tutta la notte, direi invece. Muovete i maledetti piedi!»

Iniziarono a scendere un pendio appena l’ultimo corvo svanì al di là della collina seguente; poi, mentre gli ultimi svolazzavano ancora al di sopra della cresta. “Un solo corvo che guardi indietro” pensò Perrin. A levante e a ponente i corvi scrutavano il territorio, mentre loro correvano nello spazio aperto fra le creste. “Un solo corvo basterebbe!"

I corvi alle loro spalle arrivavano in fretta. Dapple e gli altri due lupi girarono al largo e si avvicinarono senza fermarsi a leccarsi le ferite; ma avevano imparato la lezione: tenevano d’occhio il cielo. Quanto distano? Quanto manca? I lupi non avevano una nozione del tempo come gli esseri umani, né motivo per suddividere in ore il giorno. Le stagioni per loro bastavano, e la notte e il giorno. Perrin riuscì infine a ricevere un’immagine che dava la posizione del sole nel cielo al momento in cui i corvi li avrebbero raggiunti. Girò la testa a dare un’occhiata al sole al tramonto e si umettò le labbra: un’ora. Forse meno. E mancavano due ore buone al tramonto, due come minimo all’oscurità.

Moriremo col tramonto del sole, pensò, barcollando. Massacrati come la volpe. Tastò l’ascia, poi la fionda. Quella sarebbe servita di più. Ma non bastava, contro cento corvi, cento bersagli in rapido movimento, cento becchi acuminati.

«Tocca a te cavalcare, Perrin» disse Egwene, con voce stanca.

«Fra poco» ansimò lui. «Ce la faccio ancora per qualche miglio.» Lei annuì e rimase in sella. “È stanca davvero” pensò Perrin. “Glielo dico? O le lascio credere che abbiamo ancora una possibilità? Un’ora di speranza, per quanto disperata, o un’ora di disperazione?"

Elyas lo guardò di nuovo, ma senza parlare. Certo sapeva, ma stava zitto. Perrin guardò Egwene e scacciò lacrime cocenti. Toccò l’ascia e si domandò se avrebbe avuto il coraggio. Negli ultimi istanti, quando i corvi fossero scesi su di loro, quando non ci fosse stata più speranza, avrebbe avuto il coraggio di risparmiarle una morte come quella della volpe?

A un tratto i corvi che li precedevano parvero svanire. Perrin vedeva ancora nubi scure e confuse, lontano, a levante e a ponente, ma più avanti... niente. “Dove sono finiti?" si domandò. “Luce santa, se li abbiamo oltrepassati..."

All’improvviso fu percorso da un brivido, un formicolio gelido e pungente, come se si fosse tuffato nel fiume in pieno inverno. Gli si diffuse in tutto il corpo e parve portare via un po’ della stanchezza, un po’ del dolore alle gambe e del bruciore nei polmoni. E lasciò... una sorta di residuo. Perrin non sapeva quale, ma si sentiva diverso. Si fermò, sorpreso e incerto.

Elyas lo guardò, guardò tutti, con un luccichio negli occhi. Sapeva di che cosa si trattava, Perrin ne era certo, ma si limitava a guardarli.

Egwene fermò Bela e si guardò intorno, un po’ stupita, un po’ spaventata. «È strano...» mormorò. «Mi sento come se avessi perso qualcosa.» Perfino la giumenta aveva alzato speranzosamente la testa e dilatava le froge come se fiutasse un debole profumo di fieno appena mietuto.

«Che... che cos’era?» domandò Perrin.

All’improvviso Elyas scoppiò a ridere. Si piegò in due, scuotendo le spalle, le mani sulle ginocchia. «La salvezza, ecco. Ce l’abbiamo fatta, maledetti sciocchi. Nessun corvo varcherà questa linea... nessuna spia del Tenebroso, comunque. Un Trolloc dovrebbe essere spinto, per varcarla; e un Myrddraal dovrebbe essere sottoposto a una forte pressione, per spingere a sua volta i Trolloc. Neppure le Aes Sedai la varcheranno. L’Unico Potere non funziona, qui; non possono toccare la Vera Fonte. Non possono nemmeno percepirla, come se fosse svanita. Questo luogo procura loro un prurito interiore, ecco. Tremiti come quelli di uno sbronzo da una settimana. È la salvezza.»

Sulle prime, agli occhi di Perrin, il territorio non parve diverso dalle praterie ondulate e dalle creste che avevano attraversato per tutto il giorno. Ma nell’erba c’erano germogli verdi: non molti, e spuntavano a fatica, ma più numerosi che altrove. C’erano anche meno erbacce. Perrin non immaginava di che cosa si trattasse, ma c’era... c’era qualcosa, in quel luogo. E qualcosa, nelle parole di Elyas, gli solleticò la memoria.

«Cos’è?» domandò Egwene. «Mi sento... Che posto è? Non mi piace.»

«Uno stedding» rise Elyas. «Non ascolti mai le storie? Certo, qui non ci sono più Ogier da tremila e più anni, dalla Frattura del Mondo, ma è lo stedding che fa gli Ogier, non viceversa.»

«Solo una leggenda» balbettò Perrin. Nelle storie, gli stedding erano sempre rifugi, luoghi dove nascondersi sia dalle Aes Sedai sia dalle creature del Padre delle Menzogne.

Elyas raddrizzò la schiena: forse non era proprio fresco, ma non mostrava d’avere passato quasi tutta la giornata a correre. «Andiamo. Meglio rifugiarci più all’interno di questa leggenda. I corvi non possono seguirci, ma possono vederci, così vicino al limitare, e forse sono abbastanza numerosi da controllare l’intero perimetro. Lasciamo che ci cerchino.»

Ora che si era fermato, Perrin non avrebbe voluto più muoversi: le gambe gli tremavano, gli dicevano di starsene disteso per una settimana. Passato quel temporaneo senso di ristoro, gli erano tornati stanchezza e dolori. Si costrinse a muovere un passo, poi un altro. Egwene fece schioccare le redini per incitare Bela. Elyas riprese la corsa senza sforzo apparente, ma rallentò quando capì che gli altri non riuscivano a stargli dietro.

«Perché non... restiamo qui?» ansimò Perrin. Respirava dalla bocca e forzava le parole fra un ansito e l’altro. «Se è davvero... uno stedding... saremo al sicuro. Niente Trolloc. Niente Aes Sedai. Perché... non ci fermiamo qui... finché non è tutto finito?» E pensò: “Forse qui non entreranno nemmeno i lupi".

«Per quanto tempo?» Elyas girò la testa e lo guardò, inarcando il sopracciglio. «Cosa mangerete? Erba, come i cavalli? Altri conoscono questo rifugio e niente impedisce l’accesso alle persone, nemmeno alle più malvage. E c’è solo un posto dove si trova ancora acqua.» Corrugò la fronte e descrisse un giro completo, scrutando il territorio. Poi scosse la testa e borbottò tra sé. Perrin percepì il richiamo rivolto ai lupi: Presto. Presto. «Scegliamo il male minore e corriamo il rischio» continuò Elyas. «I corvi sono un pericolo certo e immediato. Andiamo. Ancora un paio di miglia.»

Perrin si sarebbe lamentato, se avesse avuto fiato da sprecare.

Massi enormi cominciarono a punteggiare le basse colline, grumi irregolari di pietra grigia, ricoperti di licheni, mezzo sepolti nel terreno, alcuni grossi come case. Rovi e bassi arbusti ne nascondevano gran parte. Qua e là, tra il marrone secco dei rovi e degli arbusti, un solitario germoglio verde annunciava che quello era un posto speciale. Qualsiasi cosa ferisse la terra, danneggiava anche quel luogo, ma la ferita era meno profonda.

Alla fine risalirono a fatica ancora un pendio e alla base dell’altura trovarono una pozza d’acqua, larga un paio di passi; ma l’acqua, limpida e pulita, lasciava vedere, come lastra di vetro, il fondo sabbioso. Perfino Elyas scese con entusiasmo il pendio.

Arrivato alla pozza, Perrin si gettò per terra, lungo e disteso, e tuffò nell’acqua la testa. L’attimo dopo, sputacchiava per l’acqua fredda che sgorgava dalle profondità della terra. Scosse la testa e schizzò un cerchio di goccioline. Egwene sorrise e lo schizzò a sua volta. Perrin tornò serio. Egwene corrugò la fronte e aprì la bocca, ma Perrin infilò di nuovo la testa in acqua. “Non voglio udire domande” si disse. “Non ora. E non voglio dare spiegazioni. Mai." Ma una vocina lo beffò: “Però l’avresti fatto, vero?"

Dopo un poco Elyas li chiamò. «Abbiamo tutti fame» disse «e io voglio dormire un poco.»

Egwene lavorò allegramente, tra risa e scherzi, a preparare la parca cena, a base di formaggio e di carne affumicata, perché non avevano avuto occasione di cacciare. Ma almeno avevano ancora un po’ di tè. Perrin eseguì la sua parte di lavoro, ma in silenzio. Sentiva su di sé lo sguardo di Egwene, sempre più preoccupata, ma evitò di guardarla negli occhi. Egwene smise di ridere e distanziò le battute, ciascuna più stiracchiata della precedente. Elyas li osservava, senza parlare. L’allegria si mutò in depressione e cenarono in silenzio. Il sole divenne rosso e le ombre si allungarono.

"Meno di un’ora al tramonto” pensò Perrin. “Senza lo stedding, saremmo già morti. L’avrei risparmiata? L’avrei abbattuta come un cespuglio? I cespugli non sanguinano, no? E non gridano, e non ti guardano negli occhi e non ti chiedono perché."

Si chiuse maggiormente in se stesso. Nel suo intimo, sentiva qualcosa ridere di lui. Una presenza crudele. Non il Tenebroso. Quasi l’avrebbe preferito. No, se stesso.

Per una volta Elyas infranse la regola sul fuoco. Non c’erano alberi, ma spezzò dai cespugli rami secchi e preparò un focherello contro un grosso spuntone di roccia sul fianco della collina. Dallo strato di fuliggine, Perrin ritenne che quella sorta di focolare era stato usato da generazioni di viandanti.

Lo spuntone era arrotondato, ma presentava lateralmente una frattura netta, dove del muschio vecchio e secco copriva la superficie scabra e irregolare. Le scanalature e le cavità erose nella parte arrotondata parevano insolite, ma Perrin era troppo preso dall’umore cupo per sorprendersi. Egwene, però, le studiò, mentre mangiava.

«Sembra un occhio» disse infine. Perrin batté le palpebre: sembrava davvero un occhio, sotto la fuliggine.

«Lo è» disse Elyas. Seduto con la schiena al fuoco e alla roccia, scrutava la zona e masticava un pezzo di carne secca dura come cuoio. «L’occhio di Artur Hawkwing. L’occhio del Gran Monarca in persona. Ecco come si sono ridotti il suo potere e la sua gloria.» Lo disse in tono distratto. Anche il suo modo di mangiare era distratto: lo sguardo e l’attenzione erano sulle colline.

«Artur Hawkwing!» esclamò Egwene. «Mi prendi in giro? Non è affatto un occhio. Perché qualcuno scolpirebbe l’occhio di Artur Hawkwing in una roccia, qui?»

Elyas le lanciò un’occhiata, girando solo la testa. Brontolò: «Cosa insegnano, a voi cuccioli di villaggio? Artur Paendrag Tanreall, Artur Hawkwing, il Gran Monarca, unì tutte le terre, dalla Grande Macchia al mare delle Tempeste, dall’oceano Aryth al deserto dell’Aiel, e anche alcune terre al di là del deserto. Mandò pure un esercito dall’altra parte dell’Aryth. Le storie dicono che governò sul mondo intero, ma quel che governò in realtà bastava per qualsiasi uomo che non fosse un eroe delle storie. E portò pace e giustizia sulla terra.»

«Tutti erano uguali, di fronte alla legge, e nessuno alzava la mano su di un altro» disse Egwene.

«Ah, le storie le hai ascoltate, almeno» ridacchiò Elyas. «Artur Hawkwing portò pace e giustizia, ma col ferro e col fuoco. Un bambino poteva cavalcare da solo, con una borsa d’oro, dall’Aryth alla Dorsale del Mondo, senza paura. Ma la giustizia del Gran Monarca era dura come questa pietra, per chiunque sfidasse il suo potere, anche solo manifestando la propria personalità o ritenendo di costituire una sfida. La gente comune aveva pace, e giustizia, e la pancia piena; ma Artur assediò per vent’anni Tar Valon e pose una taglia di mille corone sulla testa di ogni Aes Sedai.»

«Credevo che le Aes Sedai non ti piacessero» disse Egwene. Elyas rise di storto. «Non conta quel che mi piace, ragazza. Artur Hawkwing era uno sciocco pieno d’orgoglio. Una guaritrice Aes Sedai l’avrebbe salvato, quando si ammalò, o fu avvelenato, come sostengono alcuni; ma le Aes Sedai ancora in vita erano tutte dietro la Muraglia Lucente, impegnate a usare il Potere per tenere a bada un esercito che con i suoi fuochi di campo illuminava la notte. Comunque, Artur non avrebbe permesso a una di loro di avvicinarsi a lui. Odiava le Aes, Sedai quanto odiava il Tenebroso.»

Egwene serrò le labbra, ma si limitò a dire: «E tutto questo cosa c’entra col fatto che questa pietra sia o non sia l’occhio di Artur Hawkwing?»

«Solo questo, ragazza. Con la pace, a parte quel che accadeva dall’altra parte dell’oceano, con la gente che lo acclamava dovunque andasse... tutti gli volevano davvero bene, vedi; era un uomo rude, ma mai con la gente comune... be’, con tutto questo, decise che era tempo di costruirsi una capitale. Una nuova città, non associata nella mente di nessuno a un’antica causa o fazione o rivalità. E qui la costruì, al centro esatto della terra circondata dai mari e dal deserto e dalla Macchia. Qui, dove nessuna Aes Sedai sarebbe mai venuta spontaneamente né avrebbe potuto usare il Potere, se ci fosse venuta. Una capitale da dove, un giorno, il mondo intero avrebbe ricevuto pace e giustizia. Nell’udire il proclama, la gente comune raccolse denaro sufficiente a costruirgli un monumento. La maggior parte lo riteneva solo un gradino al di sotto del Creatore. Un gradino piccolo. Occorsero cinque anni, per edificarlo e scolpirlo. Una statua di Hawkwing, cento volte più grande dell’uomo. La eressero proprio qui e la capitale doveva sorgere tutt’intorno.»

«Qui non c’è mai stata nessuna città» sbuffò Egwene. «Altrimenti qualcosa sarebbe rimasto.»

Elyas annuì, senza interrompere la vigilanza. «E infatti non ci fu. Artur Hawkwing morì il giorno stesso in cui la statua fu terminata; e i suoi figli e i suoi parenti lottarono per stabilire chi dovesse sedere sul trono. La statua rimase abbandonata fra queste colline. Figli, nipoti, cugini morirono; l’ultimo sangue di Hawkwing scomparve dalla faccia della terra... a parte forse qualche parente sull’altra riva dell’Aryth. Alcuni ne avrebbero cancellato anche il ricordo, se avessero potuto. Libri furono bruciati solo perché facevano il suo nome. Alla fine di lui restarono solo le storie, per la maggior parte piene d’errori. A questo si ridusse la sua gloria.

«La lotta non si fermò, naturalmente, solo perché Hawkwing e i suoi consanguinei erano morti. C’era ancora un trono da conquistare e ogni lord e lady in grado d’arruolare guerrieri lo voleva. Fu l’inizio della Guerra dei Cento Anni. In realtà ne durò centoventitré e gran parte dei documenti di quel periodo andò perduta nel fumo delle città incendiate. Molti si impadronirono di territori, ma nessuno di tutta la terra; e a un certo punto, durante quegli anni, la statua fu abbattuta. Forse i nuovi sovrani non sopportavano più di misurarsi con lui.»

«Prima sembra che lo disprezzi» disse Egwene «e ora sembra che lo ammiri.» Scosse la testa.

Elyas si girò a fissarla. «Prendi ancora del tè, se ne vuoi. Prima che sia buio, bisogna spegnere il fuoco.»

Ora Perrin vedeva chiaramente l’occhio, nonostante la scarsa luce. Era più grande di una testa umana e le ombre, colpendolo, lo facevano sembrare l’occhio d’un corvo, duro e nero e spietato. Avrebbe preferito dormire da un’altra parte.

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