5 La Notte d’Inverno

Il sole era a metà strada dal tramonto, quando il carretto arrivò alla fattoria. L’edificio non era grande, meno di altre fattorie disseminate verso levante, che nel corso degli anni erano cresciute fino a ospitare intere famiglie. Nei Fiumi Gemelli, sotto lo stesso tetto vivevano a volte tre o quattro generazioni, compresi zie e zii, cugini e nipoti. Tam e Rand erano considerati due eccentrici, sia perché vivevano da soli, sia perché coltivavano terreni nel Westwood.

La fattoria consisteva quasi tutta in un solo piano, un semplice rettangolo senza aggiunte, ma c’erano due stanze da letto e la dispensa nella soffitta sotto il tetto di stoppie assai inclinato. Anche se, dopo le bufere dell’inverno, l’intonaco era quasi sparito dalle robuste pareti di legno, la casa era in buone condizioni: il tetto di stoppie teneva bene e porte e finestre chiudevano alla perfezione.

La casa, la stalla e il recinto di pietra per le pecore formavano le punte di un triangolo intorno al cortile, dove alcune galline raspavano il terreno gelato. La tettoia per la tosatura e il trogolo di pietra erano posti vicino al recinto. Al limitare dei campi tra il cortile e gli alberi si alzava il cono del capanno per la concia. Pochi contadini dei Fiumi Gemelli riuscivano a tirare avanti, se non avevano da vendere lana e tabacco.

Quando Rand diede un’occhiata al recinto di pietra, il capo del gregge, un ariete dalle grosse corna, gli restituì lo sguardo, ma gran parte delle pecore dal muso nero rimase placidamente distesa o in piedi con la testa nella greppia. Le pecore avevano il pelo folto e riccio, ma faceva ancora troppo freddo per iniziare la tosatura.

«Non credo che quell’uomo sia venuto qui» gridò Rand a suo padre, che lancia in pugno, faceva il giro della fattoria ed esaminava attentamente il terreno. «Le pecore non sarebbero così tranquille.»

Tam annuì, ma continuò l’ispezione. Completò il giro della casa e passò alla stalla e al recinto delle pecore, esaminando sempre il terreno. Controllò perfino la camera di fumigazione e la tettoia della conceria. Tirò su dal pozzo un secchio pieno, prese nel cavo della mano un poco d’acqua, l’annusò e l’assaggiò con la punta della lingua. Si mise a ridere e bevve rapidamente.

«No, non è venuto» disse a Rand, asciugandosi la mano sulla giubba. «Tutte queste storie di uomini e di cavalli che non posso vedere mi fanno guardare con sospetto ogni cosa.» Riempì d’acqua un altro secchio e si diresse alla casa. «Metto sul fuoco la minestra per la cena. Abbiamo il tempo per qualche lavoretto.»

Rand fece una smorfia, rimpiangendo la Notte d’Inverno a Emond’s Field. Ma Tam aveva ragione. In una fattoria, non si finisce mai di lavorare: terminata una cosa, ce ne sono subito altre due. Rand esitò, poi decise di tenere a portata di mano arco e frecce. Se il cavaliere nero fosse comparso, non voleva affrontarlo con solo una zappa.

Come prima cosa mise Bela nella stalla. Le tolse i finimenti e la sistemò accanto alla mucca; poi, messo da parte il mantello, la strofinò con manciate di paglia secca e la strigliò con un paio di brusche. Salì nel fienile e col forcone tirò giù il fieno da darle da mangiare. Le portò pure una misura d’avena, anche se ne rimaneva poca e forse non ce ne sarebbe stata per un pezzo, a meno che il tempo non migliorasse. La mucca, munta quella mattina alle prime luci, aveva dato solo un quarto del latte che produceva di solito: pareva prosciugarsi, col perdurare dell’inverno.

Per le pecore era rimasto foraggio per due giorni: ormai avrebbero dovuto essere nei pascoli, ma l’erba non spuntava ancora. Rand rinnovò la provvista d’acqua e passò a raccogliere le uova. Ne trovò solo tre. Sembrava che le galline diventassero più furbe, nel nasconderle.

Si apprestava a zappare l’orto dietro la casa, quando Tam uscì e si sedette sulla panca di fronte alla stalla a riparare dei finimenti; tenne accanto a sé la lancia. Rand si tranquillizzò, perché aveva lasciato l’arco sopra il mantello, a qualche passo di distanza.

Nell’orto c’erano poche erbacce, ma i cavoli erano rachitici e si vedeva solo qualche germoglio di fagioli e piselli e nessun segno delle bietole. Non avevano piantato tutto, certo, nella speranza che il freddo finisse e permettesse di fare un po’ di raccolto, prima che non ci fosse più niente in cantina. Sarchiato l’orto, c’era la legna da spaccare.

A Rand pareva che fossero passati anni, da quando non c’era legna da spaccare. Ma lamentarsi non avrebbe riscaldato la casa; perciò prese la scure, appoggiò al ceppo arco e faretra e si mise al lavoro. Pino, per fiamme rapide e calde; quercia, per fuoco più lento. Ben presto era tanto accaldato da togliersi la giubba. Quando il mucchio di legna fu abbastanza grosso, formò una catasta contro la parete della casa, accanto alle altre; alcune erano alte fino alla gronda, mentre di solito, in quel periodo dell’anno, erano quasi consumate. A furia di spaccare e di accatastare, si lasciò prendere dal ritmo dei colpi di scure; fu riportato al presente, con un sobbalzo di sorpresa, dalla mano di Tam sulla spalla.

Il crepuscolo era sceso e già svaniva rapidamente nella notte. La luna piena, alta sopra gli alberi, brillava, livida e gonfia, come se fosse pronta a cadere. Anche il vento era diventato più freddo e nuvole sbrindellate correvano nel cielo sempre più buio.

«Andiamo a lavarci, figliolo, e mangiamo un po’ di minestra. Ho già portato l’acqua per un bagno caldo prima d’andare a letto.»

«Purché sia calda, mi va bene qualsiasi cosa» disse Rand, gettandosi sulle spalle il mantello. Il sudore gli inzuppava la camicia; il vento, di cui non si era accorto manovrando l’ascia, ora sembrava volerlo gelare. Rand soffocò uno sbadiglio e rabbrividì. «E anche una bella dormita. Mi sento di dormire per tutta la Festa.»

«Vuoi fare una scommessa?» sorrise Tam. E Rand si ritrovò a sogghignare: non si sarebbe perso Bel Tine nemmeno con una settimana di sonno arretrato.

Tam aveva abbondato con le candele e nell’ampio camino scoppiettava un bel fuoco, per cui la stanza principale dava una sensazione di tepore e d’allegria. Oltre al camino, la stanza conteneva un largo tavolo di quercia, sufficiente per dieci e più persone, anche se di rado c’erano stati tanti commensali, dopo la morte della madre di Rand. Lungo le pareti c’erano armadietti e cassapanche, quasi tutti opera di Tam stesso, e intorno al tavolo alcune sedie dall’alta spalliera. Quella, imbottita, che Tam chiamava la sua poltrona di lettura, era sistemata sul tappeto davanti al camino. Lo scaffale di libri, accanto alla porta, era meno ricco di quello della locanda, ma non era facile procurarsi libri. Pochi ambulanti ne portavano più d’una manciata e bisognava accontentare tutte le richieste.

La stanza non sembrava linda e lustra come la maggior parte delle case del villaggio — il portapipe di Tam e I viaggi di Jain Farstrider erano sulla tavola, mentre un altro libro rilegato in legno era rimasto sul cuscino della poltrona; sulla panca vicino al camino c’era un finimento da riparare e alcune camicie da rammendare facevano mucchio sopra una sedia — ma era comunque pulita, calda e confortevole. Lì era possibile dimenticare il gelo dell’esterno. Lì non c’era alcun falso Drago, né guerre, né Aes Sedai. E neppure uomini dal mantello nero. Il profumo della pentola col minestrone, appesa sopra il fuoco, riempiva l’ambiente e stuzzicava l’appetito.

Con un lungo mestolo di legno Tam rimestò il minestrone e fece l’assaggio. «Ci vuole ancora un momento» disse.

Rand si lavò in fretta viso e mani, servendosi della brocca e della bacinella poste nel portacatino sistemato accanto alla porta. Avrebbe preferito un bagno caldo, per togliersi di dosso il sudore e il freddo, ma l’avrebbe fatto quando ci fosse stato il tempo di riscaldare la grossa caldaia nella stanza posteriore.

Tam frugò nell’armadietto e prese una chiave lunga una spanna. La girò nella grossa serratura della porta. All’occhiata stupita di Rand, spiegò: «Meglio stare al sicuro. Forse è un capriccio, o forse il tempo mi mette di malumore, ma...» Sospirò e fece saltellare sul palmo la chiave. «Vado a chiudere la porta posteriore» disse; e scomparve nel retro della casa.

Rand non l’aveva mai visto chiudere a chiave le porte. Nessuno, nei Fiumi Gemelli, le chiudeva: non ce n’era bisogno. Finora, almeno.

Dalla stanza da letto di Tam, situata in soffitta, provenne un rumore, come d’un oggetto trascinato sul pavimento. Rand corrugò la fronte. A meno che Tam non avesse deciso a un tratto di spostare i mobili, di sicuro aveva tirato da sotto il letto il vecchio baule. Un’altra cosa mai fatta, a memoria di Rand.

Il ragazzo riempì d’acqua il bricco per il tè e l’appese al gancio sopra il fuoco, poi apparecchiò la tavola. Lui stesso aveva intagliato le ciotole e i cucchiai. Gli scuri della finestra non erano ancora chiusi e di tanto in tanto Rand scrutò all’esterno, ma era scesa la notte e si vedevano solo ombre proiettate dalla luna. Il cavaliere nero poteva benissimo essere là fuori, ma Rand si sforzò di non pensarci.

Quando Tam tornò, Rand lo fissò, sorpreso. Tam aveva alla cintola un largo cinturone dal quale pendeva una spada, con un airone di bronzo sul fodero e un altro sull’elsa. Gli unici uomini che Rand avesse visto portare la spada erano le guardie dei mercanti. E Lan, ovviamente. Non aveva mai pensato che suo padre ne possedesse una. A parte gli aironi, la spada sembrava assai simile a quella di Lan.

«E quella da dove spunta?» domandò. «L’hai avuta da un ambulante? Quanto ti è costata?»

Tam sguainò la spada, che scintillò alla luce del fuoco. Era assai diversa dalle rozze lame che Rand aveva visto in mano alle guardie dei mercanti. Non era adorna d’oro né di gemme, ma sembrava ugualmente splendida. La lama, lievemente ricurva e affilata solo da una parte, aveva un altro airone inciso nell’acciaio. I corti bracci dell’elsa erano lavorati a forma di treccia. Sembrava fragile, a paragone delle spade delle guardie, quasi tutte a doppio taglio e tanto massicce da abbattere un albero.

«L’ho avuta molto tempo fa e molto lontano da qui» disse Tam. «E l’ho pagata davvero molto. Due monete di rame sono troppe, per una di queste. Tua madre non approvò l’acquisto, ma è sempre stata più saggia di me. Ero giovane, allora, e mi parve che valesse il prezzo. Tua madre voleva che me ne liberassi e più d’una volta ho pensato che avesse ragione e che avrei dovuto darla via.»

Il riflesso del fuoco pareva incendiare la lama. Rand trasalì. Aveva sognato spesso di possedere una spada. «Darla via?» protestò. «Come si fa a dar via una spada simile?»

Tam sbuffò. «Non serve, per pascolare le pecore. E neppure per arare la terra e mietere il grano.» Per un poco fissò la spada come se si chiedesse come mai la teneva in mano. Alla fine mandò un lungo sospiro. «Ma, se non sono stato preso da fantasie morbose, se la fortuna ci pianta in asso, forse nei prossimi giorni sarò lieto d’averla conservata in quel vecchio baule.» Rimise la spada nel fodero e con una smorfia si pulì le mani sulla camicia. «La minestra dovrebbe essere pronta. Mentre riempio i piatti, prepara il tè.»

Rand andò a prendere il barattolo del tè, ma era incuriosito. Perché Tam aveva comprato una spada? Non riusciva a immaginare un motivo. E fin dove era andato, per averla? Pochissimi si allontanavano dai Fiumi Gemelli. Rand aveva sempre vagamente immaginato che suo padre fosse andato in altri paesi... sua madre era forestiera... ma, una spada? Avrebbe fatto un mucchio di domande, a tavola.

L’acqua del tè bolliva e Rand fu costretto ad avvolgere uno straccio intorno al manico del bricco per toglierlo dal gancio. Mentre si raddrizzava, un forte colpo alla porta fece tremare il catenaccio. Tutti i pensieri della spada, o del bricco caldo, svanirono.

«Un vicino» disse, incerto. «Mastro Dautry verrà a chiedere in prestito...» Ma la fattoria dei Dautry, la più vicina, era a un’ora di cammino anche di giorno, e Oren Dautry, per quanto non si vergognasse mai di chiedere qualcosa in prestito, difficilmente avrebbe lasciato la casa di notte.

Tam posò sul tavolo la pentola di minestra e si scostò. Tenne le mani sull’elsa della spada. «Non credo...» iniziò. Ma in quel momento il catenaccio volò in pezzi e la porta si spalancò di colpo.

Una figura riempì il vano, più massiccia di qualsiasi uomo Rand avesse mai visto, coperta di nera maglia d’acciaio lunga fino al ginocchio e munita di punte ai polsi, ai gomiti e alle spalle. Una mano stringeva una pesante spada a forma di falce; l’altra schermava gli occhi, come per difenderli dalla luce.

Rand provò un certo sollievo: quell’uomo, chiunque fosse, non era il cavaliere nero. Poi vide le ritorte corna d’ariete che sfioravano l’architrave e il muso irsuto al posto di bocca e naso. Emise un grido di terrore e, d’istinto, scagliò il bricco bollente contro quella testa animalesca.

La creatura mandò un ruggito, tra il ringhio e l’urlo di dolore, quando sentì sul muso gli schizzi d’acqua bollente. Nello stesso istante la spada di Tom guizzò con la rapidità d’un lampo. Il ruggito si mutò in gorgoglio e l’enorme creatura cadde all’indietro. Non aveva ancora toccato terra e già un’altra cercava di aprirsi la strada a colpi d’artiglio. Rand vide una testa deforme munita di corna dritte come chiodi, prima che Tam colpisse di nuovo e due corpi bloccassero la porta.

«Scappa, figliolo!» gli gridò suo padre. «Nasconditi nei boschi!» I corpi sulla soglia si mossero perché altre creature cercavano di sgombrare la porta. Con la spalla Tam sollevò il massiccio tavolo di quercia e lo spinse contro la porta. «Sono troppi per resistere!» gridò ancora. «Esci dal retro! Vai! Vai! Ti raggiungo subito!»

Rand si girò, ma fu preso dalla vergogna per avere ubbidito con tanta prontezza. Voleva restare ad aiutare suo padre, anche se non sapeva come; ma la paura lo soffocava e le gambe parvero muoversi di volontà propria. Si lanciò verso il retro della casa, seguito da rumore di schianti e grida.

Aveva già messo le mani sulla sbarra che bloccava la porta posteriore, quando l’occhio gli cadde sul catenaccio: non veniva mai chiuso a chiave, ma quella sera Tam l’aveva serrato. Rand lasciò stare la sbarra e andò alla finestra laterale. Sganciò il saliscendi e spalancò gli scuri. La notte aveva preso il posto del crepuscolo. La luna piena e le nuvole in movimento proiettavano ombre pezzate che si rincorrevano nel cortile.

Ombre, si disse Rand. Solo ombre. La porta posteriore scricchiolò quando qualcuno, o qualcosa, spinse per aprirla. Rand si sentì la bocca secca. Un forte urto scosse la porta nell’intelaiatura e spinse Rand a muoversi velocemente: con l’agilità d’una lepre, il ragazzo balzò fuori della finestra e si acquattò contro la parete esterna. Il battente si schiantò con fragore di tuono.

Facendosi forza, Rand si alzò a mezzo e scrutò nella stanza, con un occhio solo, dall’angolo della finestra. Nel buio non vide molto, ma più di quanto gli piacesse. La porta pendeva di sghimbescio e sagome scure si muovevano con cautela, parlando con voce bassa e gutturale. Rand non capì che cosa dicessero: le parole avevano un suono aspro, inadatto a lingue umane. Asce e lance e cose piene di punte brillarono ai raggi di luna. Stivali strisciarono sul pavimento e ci fu anche uno scalpiccio ritmico, come di zoccoli.

Rand inspirò a fondo e gridò con tutto il fiato che aveva in corpo: «Vengono dal retro!» Le parole uscirono come un gracidio, ma almeno uscirono. Rand aveva dubitato di riuscire a gridare. «Io sono fuori! Scappa, padre!» E si allontanò come una saetta.

Grida rauche e furibonde risuonarono nella stanza posteriore. Ci fu un rumore di vetri rotti, forte e secco; qualcosa cadde pesantemente per terra alle spalle di Rand. Il ragazzo immaginò che una creatura avesse sfasciato la finestra, anziché cercare di varcarla, ma non si girò a guardare se aveva ragione. Come una volpe che fuggisse i segugi, schizzò nell’ombra più vicina, fingendo di puntare verso i boschi, poi si lasciò cadere carponi e strisciò verso la stalla, dove il buio era più fitto. Qualcosa gli cadde sulla schiena. Rand agitò le braccia, incerto se lottare o scappare, finché non si accorse che si trattava del nuovo manico per la zappa, che Tam aveva iniziato a sagomare.

"Che idiota!" pensò. Per un attimo rimase lì disteso, cercando di smetterla d’ansimare. “Idiota come un Coplin!" Alla fine strisciò lungo il retro della stalla, portando con sé il manico di zappa. Non era molto, ma sempre meglio di niente. All’angolo, sporse cautamente la testa per scrutare l’aia e la casa.

Non c’era segno della creatura che era saltata fuori dietro di lui. Poteva essere dovunque. Gli dava la caccia, di sicuro. Forse proprio in quel momento strisciava verso di lui.

Alla sua sinistra, belati di terrore riempivano il recinto delle pecore; il gregge si agitava come se cercasse una via di fuga. Ombre scure passavano davanti alle finestre illuminate sulla facciata della casa e il rumore di acciaio contro acciaio risuonava nel buio. A un tratto, una finestra esplose verso l’esterno, con una pioggia di vetri e di schegge: Tam, spada in pugno, era balzato all’aperto. Atterrò in piedi, ma invece di scappare lontano dalla casa, si lanciò di corsa verso il retro, senza badare alle mostruose creature che uscivano dalla finestra e dalla porta distrutte e lo inseguivano.

Rand lo fissò, incredulo. Perché non cercava di allontanarsi? Poi capì. Il suo grido d’avvertimento era giunto dal retro della casa. «Padre!» gridò. «Sono qui!»

Tam si girò di scatto: non corse verso Rand, ma in un’altra direzione. «Scappa, figliolo!» gridò, muovendo la spada come se avesse qualcuno davanti. «Nasconditi!» Una decina di sagome enormi sciamarono al suo inseguimento, fra grida rauche e striduli ululati.

Rand si ritrasse nell’ombra dietro la stalla. Lì non potevano vederlo dalla casa, se dentro c’era ancora qualcuno. Per il momento era al sicuro. Ma Tam no. Tam cercava di portarsi dietro quelle creature, lontano dal figlio. Rand serrò le mani sul manico di zappa e strinse i denti per non ridere. Un manico di zappa! Affrontare una di quelle creature armato d’un manico di zappa era come combattere con il bastone ferrato contro Perrin. Ma non poteva lasciare che Tam le affrontasse da solo.

«Se mi muovo come quando m’avvicino di nascosto a un coniglio selvatico» mormorò a se stesso «non mi sentiranno né mi vedranno.» Le grida spettrali echeggiarono nel buio e Rand deglutì. «Sembrano un branco di lupi affamati.» Senza far rumore si allontanò dalla stalla in direzione della foresta, stringendo il manico di zappa, con tanta forza da sentire male alle mani.

All’inizio, circondato dagli alberi, si sentì confortato: le piante lo nascondevano. Però, mentre strisciava nel bosco, le ombre proiettate dalla luna si muovevano e pareva quasi che pure il buio della foresta cambiasse e si movesse. Gli alberi incombevano come creature malevole, agitavano i rami verso di lui. Ma erano solo alberi e rami? Rand quasi udiva il ridacchiare rauco e soffocato, mentre lo aspettavano. Gli ululati degli inseguitori di Tam non riempivano più la notte, ma ora, nel silenzio, Rand trasaliva ogni volta che il vento spingeva un ramo contro l’altro. Si tenne acquattato e si mosse sempre più lentamente. Quasi non osava respirare per paura che lo udissero.

All’improvviso, da dietro, una mano gli tappò la bocca e una stretta d’acciaio gli bloccò il polso. Con la mano libera cercò freneticamente da sopra la spalla di artigliare l’assalitore.

«Non rompermi il collo, figliolo.» Il mormorio rauco di Tam.

Rand fu invaso dal sollievo che gli mutò in acqua i muscoli. Quando suo padre lo lasciò, cadde carponi e ansimò come se avesse corso per miglia intere. Tam si lasciò cadere al suo fianco, sostenendosi sul gomito.

«Non ci avrei provato, se avessi pensato quanto sei cresciuto negli ultimi mesi» disse piano Tam. Muoveva gli occhi in continuazione, scrutava nelle tenebre. «Ma dovevo assicurarmi che tu non gridassi. Certi Trolloc hanno l’udito d’un cane. Forse più acuto.»

«Ma i Trolloc sono solo...» Rand non concluse la frase. Non erano solo storie, dopo quella notte. Quelle creature potevano essere Trolloc o il Tenebroso in persona, per quanto lui ne sapeva. «Sei sicuro?» sussurrò. «Voglio dire, sono proprio Trolloc?»

«Certo. Ma cosa li abbia portati nei Fiumi Gemelli... Non ne avevo mai visto uno, prima d’ora, ma ho parlato con gente che li ha visti, perciò ne so qualcosa. Forse quanto basta a restare vivi. Ascoltami bene. Nel buio i Trolloc vedono meglio degli uomini, ma la luce li rende ciechi, per un poco. Forse solo per questo siamo sfuggiti a tanti di loro. Certi sanno seguire una pista, con il fiuto o l’udito, ma si dice che siano pigri. Se riusciamo a stare lontano dalle loro grinfie il tempo sufficiente, dovrebbero rinunciare alla caccia.»

Rand si sentì un po’ meglio, ma non tanto. «Nelle storie, odiano gli uomini e servono il Tenebroso.»

«Se qualcosa appartiene alle greggi del Pastore della Notte, figliolo, questi sono i Trolloc. Uccidono per il piacere di uccidere, almeno così ho sentito dire. Ma non so altro. A parte il fatto che non ci si può fidare di loro se non hanno paura di te, e comunque non per molto.»

Rand rabbrividì. Non gli sarebbe piaciuto incontrare uno di cui i Trolloc avessero paura. «Credi che ci diano ancora la caccia?»

«Forse. Non sembrano molto intelligenti. Appena sono entrato nella foresta, non ho avuto difficoltà a mandare verso le montagne quelli che m’inseguivano.» Tam si tastò il fianco destro, poi si portò la mano all’altezza degli occhi. «Comunque, è meglio comportarsi come fossero intelligenti.»

«Sei ferito!»

«Parla sottovoce. Solo un graffio, ma tanto ora non posso farci niente. Sembra che faccia meno freddo.» Si distese, con un sospiro profondo. «Forse non sarà tanto brutto, passare la notte all’aperto.»

Invece Rand cominciava a rimpiangere la giubba e il mantello. Gli alberi riparavano dal vento, ma lasciavano passare raffiche taglienti come coltelli di ghiaccio. Esitando, Rand toccò il viso del padre e trasalì. «Ma tu scotti! Devo portarti da Nynaeve.»

«Fra poco, figliolo.»

«Non abbiamo tempo da perdere. La strada è lunga, nel buio.» Si tirò in piedi e cercò di far alzare il padre. Un gemito a denti stretti, appena soffocato, lo indusse subito a desistere.

«Fammi riposare un poco, figliolo. Sono stanco.»

Rand si batté il pugno sulla coscia. In casa, con fuoco e coperte, abbondanza d’acqua e di corteccia di salice, forse avrebbe aspettato l’alba, prima di attaccare Bela e portare Tam nel villaggio. Ma lì non aveva fuoco, né coperte, né carretto, né Bela. Forse poteva andarle a prendere, in parte, almeno. Se i Trolloc se n’erano andati. Dovevano andarsene, prima o poi.

Rand guardò il manico di zappa e lo lasciò cadere. Sguainò invece la spada di Tam. La lama brillò al chiaro di luna. La lunga elsa gli diede una sensazione bizzarra: peso e bilanciamento erano insoliti. Provò a menare colpi all’aria, ma smise quasi subito, con un sospiro. Così era facile. Se avesse dovuto colpire i Trolloc, probabilmente sarebbe scappato, o sarebbe rimasto lì fermo come una pietra, finché il Trolloc non avesse vibrato una di quelle spade bizzarre e... “Piantala!" si disse. “Così non ti fai certo coraggio!"

Si mosse per alzarsi, ma Tam lo afferrò per il braccio. «Dove vai?»

«Ci occorre il carretto» rispose Rand, in tono gentile. «E delle coperte.» Fu sorpreso della facilità con cui staccò la mano del padre. «Tu riposa. Tornerò presto.»

«Sii prudente» mormorò Tam.

Rand non vedeva il viso del padre, ma ne sentì lo sguardo. «Sarò prudente» lo rassicurò. “Come un topo che esplori un nido di falco” soggiunse tra sé.

Silenzioso come un’ombra, scivolò nel buio. Pensò a tutte le volte che, da bambino, nei boschi aveva giocato ad acchiapparsi con gli amici, e si avvicinava furtivamente a uno di loro, cercando di non farsi sentire finché non gli metteva la mano sulla spalla. Per quanto cercasse di convincersi, non era la stessa cosa.

Strisciando d’albero in albero, provò a fare un piano; quando raggiunse il limitare dei boschi, ne aveva fatti e scartati almeno dieci. Tutto dipendeva dalla presenza dei Trolloc sul posto. Se non c’erano, poteva entrare in casa e prendere quel che gli occorreva. Se erano ancora lì... poteva solo tornare da Tam. Non ne era entusiasta, ma non gli avrebbe reso un bel servizio, facendosi ammazzare.

Scrutò gli edifici della fattoria. La stalla e il recinto delle pecore erano solo macchie scure nel chiaro di luna. Però dalle finestre e dalla porta spalancata proveniva luce. “Le candele accese da mio padre o Trolloc in agguato?"

Sobbalzò al verso stridulo d’un caprimulgo e si lasciò andare contro un albero, tremando. A quel modo non risolveva niente. Si mise carponi e prese a strisciare reggendo goffamente davanti a sé la spada. Tenne il mento contro il terreno, finché non raggiunse la parte posteriore del recinto delle pecore.

Acquattato contro il muretto di pietra, tese l’orecchio: non un rumore disturbava la notte. Con prudenza si alzò quanto bastava a guardare da sopra: nell’aia non c’era movimento, nessun’ombra si stagliava contro le finestre illuminate o nel vano della porta. “Prima Bela e il carretto, oppure le coperte e le altre cose?" Fu la luce a farlo decidere: la stalla era buia, dentro poteva esserci qualsiasi cosa in agguato e se ne sarebbe accorto troppo tardi. Invece, se nella casa c’era qualcuno, l’avrebbe visto subito.

All’improvviso si bloccò. Non c’era nessun rumore. Certo la maggior parte delle pecore si era calmata ed era tornata a dormire, per quanto fosse poco probabile, ma qualcuna era sempre sveglia anche nel cuor della notte, si muoveva e belava di tanto in tanto. Distingueva a malapena i monticelli scuri delle pecore distese per terra. Uno era quasi sotto di lui.

Cercando di evitare rumori, si sollevò sopra il muretto e allungò la mano verso la sagoma confusa. Toccò lana crespa, una macchia umida. La pecora non si mosse. Rand si lasciò sfuggire il fiato e si ritrasse di scatto; quasi perdette la spada, mentre ricadeva a terra. Uccidono per divertimento, ricordò. Sfregò la mano nel terriccio per ripulirla.

Si disse ferocemente che nulla era cambiato. I Trolloc avevano fatto la loro carneficina e se n’erano andati. Continuò a ripeterlo, mentre attraversava l’aia, tenendosi più basso possibile, ma cercando anche di guardare in ogni direzione. Non aveva mai pensato che un giorno avrebbe invidiato i lombrichi.

Raggiunta la facciata della casa, si tenne contro il muro, sotto la finestra distrutta, e tese l’orecchio. Lentamente si alzò e scrutò dentro la casa.

La pentola del minestrone, capovolta, giaceva nella cenere del focolare. Pezzi di legno erano sparpagliati su tutto il pavimento; non un mobile era rimasto intatto. Anche la tavola era rovesciata e di due gambe restava solo il mozzicone. I cassetti erano stati fracassati, credenze e armadietti erano aperti, quasi tutti gli sportelli pendevano da un solo cardine. Il contenuto era disseminato sopra i rottami e su ogni cosa c’era un velo di polvere bianca. Farina e sale, a giudicare dai sacchi squarciati, gettati accanto al camino. Quattro cadaveri deformi facevano mucchio sui resti del mobilio. Trolloc.

Rand riconobbe quello con corna d’ariete. Gli altri erano più o meno simili: un repellente miscuglio di facce umane deformate da corna, piume pelo. Le mani, quasi umane, peggioravano solo lo spettacolo. Due portavano stivali; gli altri avevano piedi caprini. Rand li osservò, senza battere le palpebre, finché gli occhi non gli bruciarono. Nessun Trolloc si mosse. Erano certamente morti. E Tam aspettava.

Varcò di scatto la porta e si bloccò, soffocato dal fetore, paragonabile solo al lezzo di una stalla non governata da mesi. Macchie disgustose lordavano le pareti. Rand cercò di respirare dalla bocca e frugò tra i rottami. In una credenza una volta c’era un otre.

Udì alle spalle un raspio che gli gelò le ossa fino al midollo. Si girò di scatto, quasi inciampando nei resti della tavola. Riprese subito l’equilibrio e mandò un gemito, stringendo forte i denti per non batterli dalla paura.

Un Trolloc si tirò in piedi. Un muso da lupo sporgeva fra gli occhi incavati. Occhi piatti, inespressivi e fin troppo umani. Le orecchie, appuntite e irsute, si muovevano in continuazione. Il Trolloc pestò i compagni morti, con grandi zoccoli fessi. La cotta di maglia nera gli grattava contro brache di cuoio; dalla cintura gli pendeva una grande spada ricurva come falce.

Il Trolloc borbottò qualche parola, con voce gutturale e stridula, poi disse: «Altri vanno via. Narg resta. Narg furbo.» Le parole erano distorte e poco comprensibili, pronunciate da una bocca non intesa per il linguaggio umano. Il tono mirava a tranquillizzare, pensò Rand, ma non riuscì a distogliere lo sguardo dai denti giallastri, lunghi e aguzzi, che balenavano a ogni parola. «Narg sa che uno torna prima o poi. Narg aspetta. Spada non ti serve. Metti giù spada.»

Solo in quel momento Rand si rese conto d’impugnare a due mani, con presa malferma, la spada di Tam e di puntarla contro il Trolloc. La mostruosa creatura lo sovrastava di tutta la testa e le spalle; aveva torace e braccia tanto robusti da far sembrare rachitico mastro Luhhan.

«Narg non fa male.» Il Trolloc si avvicinò d’un passo. «Tu metti giù spada.» Sul dorso delle mani i peli neri erano folti come vello.

«Indietro» disse Rand, con voce non troppo ferma. «Perché avete distrutto ogni cosa? Perché?»

«Vlja daeg roghda!» Il ringhio si mutò subito in un sorriso tutto zanne. «Metti giù spada. Narg non fa male. Myrddraal vuole parlare a te.» Un lampo d’emozione gli attraversò il viso deforme: paura. «Altri tornano, tu parli a Myrddraal.» Mosse un altro passo e posò la mano sull’elsa. «Metti giù spada.»

Rand si umettò le labbra. Myrddraal! Un Fade, Colui che svanisce nelle ombre! I peggiori personaggi delle storie si aggiravano sulla terra, quella notte. A confronto del Fade, il Trolloc era una minaccia trascurabile. Rand doveva trovare il modo di andarsene. Ma se il Trolloc avesse sguainato quella massiccia spada, lui era finito. Si sforzò di sorridere. «D’accordo.» Serrò il pugno sull’elsa e abbassò le braccia lungo i fianchi. «Gli parlerò.»

Il sorriso lupesco si mutò in ringhio e il Trolloc si avventò. Rand non pensava che una creatura così massiccia si muovesse con tanta rapidità. Disperato, alzò la spada. Il mostro vi finì addosso e sbatté Rand contro la parete. Senza fiato, Rand lottò per respirare, mentre cadeva a terra, travolto dal Trolloc. Si dibatté per non farsi schiacciare, per evitare le fauci e le mani irsute che cercavano di afferrarlo.

A un tratto il Trolloc sussultò e rimase inerte. Pieno di lividi e di escoriazioni, mezzo soffocato dalla massa che lo schiacciava, per un attimo Rand non si mosse, incredulo. Ma si riprese in fretta, almeno quanto bastava a strisciare da sotto il corpo del Trolloc. La creatura era proprio morta: la punta insanguinata della spada gli sporgeva dalla schiena. Rand aveva le mani coperte di sangue e una macchia scura sul davanti della camicia. Si sentì rivoltare lo stomaco e deglutì con forza per resistere alla nausea. Tremava violentemente, non di terrore, ma di sollievo.

Altri tornano, aveva detto il Trolloc. Gli altri suoi simili sarebbero tornati alla casa. Con un Myrddraal, un Fade. Le storie dicevano che i Fade erano alti venti piedi, avevano occhi di fuoco e cavalcavano le ombre come se fossero cavalli. Quando un Fade si girava di lato, scompariva; e nessuna parete poteva fermarlo. Rand doveva sbrigarsi.

Con un grugnito per lo sforzo, sollevò il cadavere del Trolloc per ricuperare la spada... e quasi se la diede a gambe, quando gli occhi sbarrati lo fissarono. Gli occorse un minuto per capire che erano vitrei per la morte.

Si pulì le mani in uno straccio lacero — solo quel mattino era una camicia di Tam — e con uno strattone liberò la spada. Pulita la lama, gettò a terra lo straccio, con riluttanza, ma non era certo quello, il momento d’essere ordinato, si disse con una risata che riuscì a fermare solo serrando i denti. Non vedeva come avrebbero potuto ripulire la casa in modo che fosse di nuovo abitabile. A quest’ora il legno stesso aveva probabilmente assorbito l’orribile fetore. Ma non aveva tempo di pensare a queste cose: Tam lo aspettava e i Trolloc stavano tornando.

Prese tutto quello che gli venne in mente. Coperte e panni puliti per fasciare la ferita di Tam. Il mantello e la giubba, suoi e di Tam. Una ghirba che portava con sé quando andava a pascolare le pecore. Una camicia pulita. Alla prima occasione si sarebbe liberato di quella sporca di sangue. I sacchetti di pelle che contenevano corteccia di salice e altri medicamenti erano finiti in un mucchio scuro e fangoso. che non trovò la forza di toccare.

Vicino al caminetto vide un secchio d’acqua intatto. Riempì la ghirba e col resto si lavò in fretta le mani. Diede ancora un’occhiata in giro, casomai avesse dimenticato qualcosa. Fra i rottami trovò l’arco, spezzato di netto nel punto più spesso. Con un brivido lo lasciò cadere. Doveva accontentarsi di quel che aveva già preso. Ammucchiò il tutto fuori della porta.

Prima di lasciare la casa, come ultima cosa ricuperò dai rottami una lanterna cieca. Conteneva ancora dell’olio. L’accese a una candela e chiuse gli scuretti, perché il vento non spegnesse la fiamma e soprattutto per non attirare l’attenzione; uscì in fretta, lanterna in una mano e spada nell’altra. Non sapeva che cosa avrebbe trovato nella stalla, ma non nutriva molte speranze, dopo lo spettacolo nel recinto delle pecore. Però gli serviva il carretto per portare Tam a Emond’s Field; e per tirare il carretto occorreva Bela. La necessità lo indusse a sperare un poco.

La porta della stalla era spalancata; un battente cigolò, spinto dal vento. Sulle prime l’interno parve quello di sempre. Poi Rand vide gli stalli vuoti, gli sportelli divelti dai cardini: Bela e la mucca erano scomparse. Andò rapidamente sul retro della stalla: il carretto giaceva sul fianco, metà dei raggi delle ruote era rotta. Una stanga era solo uno spuntone lungo due spanne.

Fu travolto dalla disperazione tenuta a bada fino a quel momento. Non era sicuro di farcela, a portare a spalla Tam fino al villaggio, ammesso che suo padre resistesse e che il dolore non lo uccidesse prima della febbre. Eppure non gli restava scelta. Aveva fatto tutto il possibile. Nel girarsi per andarsene, vide sul terreno coperto di strame la stanga mozzata del carretto. A un tratto sorrise.

Posò a terra lanterna e spada; con la spalla spinse il carretto e lo rimise dritto, fra schiocchi di raggi che si spezzavano. Prese la spada e colpì la stanga intatta di frassino ben stagionato. Con sorpresa e piacere scoprì che a ogni colpo schizzavano via grandi schegge: poteva tagliarla come se avesse usato una buona scure.

Mozzata la stanga, Rand guardò con stupore la spada. Perfino la scure più tagliente avrebbe perso il filo, su di un legno così duro e stagionato; ma la spada sembrava intatta. Col pollice saggiò la lama e subito si succhiò il dito: era sempre affilata come rasoio.

Ma non aveva tempo per stupirsi. Spense la lanterna — meglio non rischiare che la stalla bruciasse, completando l’opera — raccolse le stanghe e corse a prendere la roba lasciata davanti alla casa.

Era un carico poco maneggevole. Non pesante, ma difficile da portare: le stanghe gli scivolavano da tutte le parti, mentre Rand attraversava il campo arato. Nella foresta fu anche peggio: si impigliavano negli alberi e rischiavano di mandarlo a gambe levate. Sarebbe stato più facile trascinarle, ma così avrebbero lasciato una traccia chiarissima. E lui voleva aspettare il più possibile, prima d’essere obbligato a lasciare tracce.

Tam non si era mosso, pareva addormentato. Rand si augurò che lo fosse. Colto da paura improvvisa, lasciò cadere il carico e toccò il viso del padre. Tam respirava ancora, ma la febbre era aumentata.

Il tocco destò Tam, ma solo in uno stato di veglia confusa. «Sei tu, figliolo?» mormorò. «Ero preoccupato per te. Sognavo giorni ormai passati. Incubi.» E sprofondò di nuovo nell’incoscienza.

«Non preoccuparti» disse Rand. Lo coprì con la giubba e col mantello, per proteggerlo dal vento. «Ti porterò da Nynaeve più in fretta che posso.» Senza smettere di parlare, per farsi coraggio e per rassicurare Tam, si tolse la camicia macchiata di sangue, senza nemmeno accorgersi del freddo, tanta era la fretta di liberarsene, e s’infilò quella pulita. Gettò via l’altra e si sentì come se avesse appena fatto il bagno. «Fra poco saremo al sicuro nel villaggio. La Sapiente sistemerà ogni cosa. Vedrai. Andrà tutto bene.»

Quel pensiero fu come un faro, mentre si metteva la giubba e si chinava a fasciare la ferita del padre. Sarebbero stati al sicuro, se fossero arrivati al villaggio; e Nynaeve avrebbe guarito Tam. Bastava arrivarci.

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