Il McCandless Building era proprio come me l’ero immaginato. Era fatto come tutti i vecchi palazzi di uffici.
Il corridoio del terzo piano era silenzioso, con la luce del tramonto che filtrava dalle finestre. La moquette era consumata, le pareti consumate; le modanature, con il loro vecchio lucore, avevano un’aria stanca e sbattuta.
Le porte degli uffici avevano vetri smerigliati con i nomi delle ditte scritti in lettere dorate. Ogni porta, come notai, era chiusa con una serratura diversa da quelle che erano state in origine.
Attraversai l’atrio in tutta la sua lunghezza, sicuro di non trovare nessuno. Tutti gli uffici erano apparentemente deserti. Era venerdì sera, gli impiegati dovevano essersene andati via in fretta pensando al fine settimana. C’era ancora tempo, invece, per l’arrivo delle signore delle pulizie.
L’ufficio della Ross, Martin, Park Gobel era verso la fine del corridoio. Tentai di aprire la porta abbassando la maniglia, ma come previsto era chiusa. Tirai fuori di tasca il tagliavetro e mi misi al lavoro. Ma non fu facile. Normalmente il tagliavetro viene usato su una lastra disposta orizzontalmente. Il mio pezzo era invece diritto, infisso nel telaio di una porta.
In qualche modo, dopo un certo tempo, riuscii praticare un’incisione. Rimisi in tasca l’attrezzo e rimasi immobile per un istante a sentire se arrivava qualcuno. Poi diedi un colpo deciso al vetro, con il gomito, sulla parte intaccata. Il pezzo di vetro si incrinò e si ruppe, inclinandosi verso l’interno ma rimanendo attaccato al telaio. Diedi un’altra gomitata, si ruppe del tutto e cadde a terra. Ora c’era un buco delle dimensioni di un pugno proprio sopra la serratura.
Facendo attenzione a non ferirmi con i frammenti ancora attaccati alla cornice della porta, passai il braccio attraverso il buco e girai il pomello. Quindi con l’altra mano abbassai la maniglia e spinsi, aprendo la porta.
Entrai cauto, richiudendomi la porta alle spalle. Scivolai lungo il muro e rimasi a lungo lì incollato. I capelli mi si erano rizzati sulla nuca, e il cuore batteva forte: perché nell’aria c’era quel profumo da dopobarba di Bennett. Una traccia molto lieve, ma inconfondibile, come se l’uomo se ne fosse dato alcune gocce al mattino e mi fosse passato accanto al pomeriggio. Non riuscivo a definire il tipo di sensazione olfattiva, non trovando alcun termine di paragone, ma era un tipo di odore che non avevo mai sentito prima in vita mia. Non era così terribilmente sgradevole, era inquietante perché era assolutamente ignoto.
Là, nello spazio di fronte a me, che me ne rimanevo con la schiena contro il muro, galleggiavano forme scure e confuse. Man mano che i miei occhi si abituavano al buio, vedevo che non si trattava di cose strane, ma ovvie. Quelle sagome nere erano infatti scrivanie, archivi e tutto quel genere di mobilio che ci si aspetta di trovare in un ufficio.
Rimasi fermo ancora un poco, con i sensi tesi, ma non accadde nulla. I toni grigi della luce del crepuscolo filtravano attraverso le finestre senza riuscire a rischiarare l’ufficio, che rimaneva silenzioso e tranquillo, immerso in una quiete snervante.
Diedi uno sguardo in giro, e notai qualcosa di insolito. In un angolo, c’era una nicchia nascosta da una tenda. Molto strano, per un ufficio.
Guardai di nuovo attorno, forzando gli occhi a osservare ogni particolare, in cerca di qualunque altro segno non ordinario. Ma non ce n’erano altri, tranne quella nicchia. E il profumo del dopobarba.
Cautamente, mi staccai dalla parete e attraversai la stanza. Non sapevo di che cosa avessi paura, ma quel locale mi comunicava un senso di timore.
Accesi la lampada sul tavolo di fronte alla nicchia. Sapevo che potevo cacciarmi nei guai, essendo entrato come un ladro, ma consapevolmente decisi di aggravare la situazione, accendendo anche la luce. Volevo vedere subito che cosa si nascondeva dietro la tenda della nicchia.
Il drappeggio era di materiale scuro, pesante, ed era fissato a una guida. Da un lato c’erano le corde che regolavano lo scorrimento. Ne tirai una; i tendaggi si aprirono dolcemente, rivelando una fila di indumenti, ordinatamente appesi ad attaccapanni sostenuti da un’asta.
Mi soffermai a osservarli uno per uno. C’erano abiti da uomo e soprabiti, una mezza dozzina di camicie, una gruccia carica di cravatte. Sullo scaffale in alto, alcuni cappelli. Inoltre c’erano abiti e soprabiti da donna, e indumenti intimi femminili, capi di biancheria da uomo e da donna, calzini e calze di nylon. Su un ripiano sotto gli abiti appesi, una quantità di scarpe, da uomo e da donna, sistemate ordinatamente.
Questo era veramente folle. Se mancava un mobiletto per cappotti, impermeabili, giacche e cappelli, qualche trafficone avrebbe ben potuto inventare una soluzione tipo quella della nicchia. Ma qui c’era l’intero guardaroba di tutti gli impiegati, dal boss all’ultima delle segretarie.
Mi arrovellavo il cervello senza trovare una spiegazione plausibile. L’ufficio era chiuso, tutti erano andati via lasciando là i loro abiti. Ma non potevano essere usciti senza niente addosso!
Passai la mano sugli abiti appesi, per assicurarmi che fossero davvero lì e si trattasse di reali capi di abbigliamento. Lo erano.
Mentre compivo quel gesto, avvertii alle caviglie un soffio di aria gelida, come se qualcuno avesse aperto la finestra. Questa sensazione durò solo un attimo, e cessò appena avanzai di un passo.
Nel tornare indietro, sentii di nuovo la sensazione di freddo alla caviglia.
La cosa non mi convinceva. Le finestre erano chiuse e non c’era possibilità di spifferi. Una corrente d’aria, poi, non mi avrebbe colpito solo alle caviglie, scomparendo appena muovevo il piede.
La sfilza di abiti appesi doveva nascondere qualcosa. Ma cosa, santo cielo?
Senza pensarci due volte, scostai gli abiti e scoprii la fonte della corrente gelida.
Proveniva da un buco che attraversava il McCandless Building, ma senza uscire all’aperto, altrimenti si sarebbero intravisti fari e lampioni in strada.
Niente luci, invece. Buio completo, con un senso di vertigine e di gelo che era qualcosa di più del freddo di una corrente d’aria. Era come la mancanza totale di calore. Avvertii, non so come, la mancanza di qualcosa, forse di tutto. La completa negazione della forma, della luce e del calore delle cose della Terra. Ebbi anche una sensazione di movimento, benché nulla si muovesse. Sembrava che l’oscurità si fondesse con il freddo di un misterioso vortice. Mentre tentavo di vedere in quel foro, il vortice tentò di risucchiarmi dentro. Saltai indietro terrorizzato, e caddi disteso sul pavimento.
Mentre stavo allungato a terra, paralizzato dalla paura, gli abiti tornarono al loro posto, mascherando il buco nel muro.
Lentamente mi rialzai e andai a mettermi al di là del tavolo, per creare una barriera tra me e quel che c’era oltre la tenda.
Mi domandavo, con martellante insistenza, che cosa avevo scoperto, ma non trovavo risposta.
Allungai la mano per toccare il tavolo, volendo ancorarmi a qualcosa di solido contro quella minaccia sconosciuta. Invece del tavolo, urtai con le dita un portacarte che si rovesciò, facendo cadere sul pavimento i fogli che conteneva. Mi inginocchiai, tastando per terra per raccoglierli. Erano tutti ben piegati, con quel curioso aspetto solenne che hanno i documenti legali.
Mi rialzai e deposi le carte sul tavolo, scorrendole con occhio rapido. Erano tutti documenti per trasferimento di proprietà, e tutti intestati a un certo Fletcher Atwood.
Quel nome mi fece suonare un campanello in testa, mentre andavo a tentoni nei meandri della memoria in cerca di indizi. Da qualche parte, in passato, Fletcher Atwood aveva significato qualcosa per me. Dovevo già averlo incontrato, o avergli scritto, o telefonato. Quel nome era archiviato in profondità nel cervello, tuttavia era finito nel dimenticatoio da molto tempo, e forse fin dall’inizio era stato classificato come così poco importante che adesso mi sfuggivano i dettagli dei fatti, dei luoghi e dell’epoca a esso collegati.
Qualcosa che mi aveva raccontato Joy, mi pareva. Passando vicino alla mia scrivania per scambiare quattro chiacchiere. Parole vaganti in un ufficio rumoroso, dove nessun nome sopravvive a lungo nella corrente di informazioni che si inseguono.
C’era di mezzo una casa. Sì! Fletcher Atwood era quello che aveva acquistato la proprietà Belmont a Tìmber Lane. Era un tipo misterioso, che non aveva fatto lega con i suoi altolocati vicini in quella zona esclusiva. Non aveva mai realmente abitato quella casa, a parte una giornata o una settimana ogni tanto. Non aveva famiglia né amici, né sembrava interessato a farsene.
La gente di Tìmber Lane aveva notato quello strano individuo, poi in breve aveva smesso di fargli caso. Nella piccola, sofisticata società di Timber Lane, Fletcher Atwood veniva considerato una specie di vecchio fossile riposto in una cassapanca piena di polvere.
Mentre passavo in rassegna gli atti legali alla luce della lampada, mi chiesi se questa non fosse la sua vendetta. Ma non lo ritenevo probabile, perché non c’erano prove che ad Atwood importasse di ciò che pensavano di lui a Timber Lane.
C’erano proprietà per miliardi di dollari. Ecco grandi industrie che grondavano tradizioni e nomi altisonanti. Ecco piccole aziende. Ecco antichi edifici che da sempre erano un simbolo della città. Tutto trasferito nelle mani di Fletcher Atwood, con un pomposo e inesorabile linguaggio giuridico. Tutto impilato lì, in attesa di riscossione. Documenti rimasti su quel tavolo, rimuginavo, perché non si era ancora trovato il tempo di archiviarli. Perché c’era troppo altro lavoro da fare. Troppo lavoro… di che tipo?
Sembrava incredibile, ma eccola qua: la prova legale che un uomo si era accaparrato, prendendo nel mucchio, per così dire, una parte più che rispettabile della zona industriale della città.
Nessuno sembrava in grado di possedere tutto il denaro necessario per concludere le transazioni rappresentate da quel mucchio di carte. Neanche una società. Ma, dato che qualcuno c’era riuscito, qual era lo scopo che si prefiggeva?
Comprare l’intera città?
Davanti a me c’erano solo pochi atti, lasciati in una cartelletta su uno scrittoio, forse perché poco importanti. Quindi in quello stesso ufficio ce ne dovevano essere altri. E se Fletcher Atwood, o coloro di cui era agente, avevano comprato la città, cosa volevano farne?
Rimisi i documenti al loro posto e ritornai verso gli abiti appesi. Sullo scaffale dove erano allineati i cappelli, mi parve di vedere una scatola da scarpe. Conteneva altri atti?
Mi sollevai in punta dei piedi, e lavorando un poco con le dita, riuscii a prenderla. Era più pesante di quanto immaginassi. La deposi sul tavolo, sotto la lampada, e sollevai il coperchio.
La scatola era piena di pupazzetti, molto ben fatti, senza quel tocco di artificiale tipico dei giocattoli. Avevano un aspetto assolutamente credibile, tanto che veniva da chiedersi se non si trattasse di esseri umani ridotti a non più di dieci centimetri di altezza, che avessero mantenuto inalterate le proporzioni.
E, nel mucchio dei pupazzi, ce n’era uno che riproduceva alla perfezione le sembianze di quel Bennett che avevo visto seduto a fianco di Bruce Montgomery al tavolo della conferenza!