Cera un’auto in sosta davanti alla capanna.
— E adesso, che c’è di nuovo? — chiesi senza rivolgermi a nessuno in particolare.
— Sai se Carleton ha l’abitudine di prestare questa casa a qualcuno? — chiese Joy.
— Che io sappia, no — risposi.
Scesi e andai vicino alla macchina. Il vento passava fischiando tra i bassi pini, che gli rispondevano. Le onde sembravano ridere sottovoce in riva al lago, e si distingueva il tump-tump della barca di Stirling contro il molo.
Anche Joy e il Cane smontarono, e mi vennero accanto. Avevo lasciato il motore acceso, i fari illuminavano la casa.
Ne uscì un uomo. Doveva essersi vestito in tutta fretta, perché stava ancora allacciandosi la cintura dei pantaloni. Ci osservò, quindi si mosse lentamente verso di noi. Indossava la maglia del pigiama, con le pantofole ai piedi.
Noi rimanemmo al nostro posto ad aspettarlo. Esitava, abbagliato dalla luce dei fari. Probabilmente non superava i cinquant’anni, ma ne dimostrava di più. Aveva una barba corta e ispida, e i capelli sparati in tutte le direzioni.
— Cercate qualcuno? — ci chiese. Si era fermato a un paio di metri, sempre distinguendoci a fatica a causa dei fari.
— Siamo venuti a passare la notte qui — dissi. — Non sapevamo che ci fosse gente.
— Lei è il proprietario?
— No, un suo amico.
L’uomo deglutì, imbarazzato. — Lo so, non avevamo diritto… — disse. — Ci siamo trasferiti qui perché sembrava l’unica soluzione. Non la usava nessuno.
— Senza chiedere il permesso?
— Senta — disse l’uomo — non voglio guai. Ce n’erano tante di capanne vuote, potevamo andare lì o là. Ma per caso siamo finiti qui. Non avevano nessun posto, e Ma’, mia moglie, stava poco bene. Sono state le preoccupazioni, penso, perché non si ammala mica mai.
— Come sarebbe a dire che non avevate un posto?
— Sono rimasto senza lavoro — spiegò l’uomo — e non ne ho trovato un altro, e insieme ho perso anche la casa. La banca ci aveva dato lo sfratto, poi è arrivata la polizia e ci ha sloggiati con la forza. Cioè, loro non volevano farlo, ma il dovere è dovere. Erano dispiaciuti pure loro.
— Chi sono i padroni della banca?
— Dei forestieri — rispose. — Sono arrivati e si sono comprati la banca. Quelli di prima non ci avrebbero mandati via. O almeno, ci avrebbero lasciato un po’ di tempo.
— Questi forestieri hanno comprato anche il posto dove lei lavorava? — chiesi.
Mi guardò sorpreso. — Come fa a saperlo? — chiese.
— Perché così tutto quadra.
— Avevo un negozio di generi vari — disse — poco dopo la stazione di servizio giù a valle. Soprattutto articoli sportivi, del tipo esche e attrezzi per la pesca e per la caccia. Senza guadagnare un granché, ma si tirava avanti.
Non sapevo che dirgli.
— Mi dispiace per la serratura — si scusò. — Abbiamo dovuto romperla, per entrare dalla porta posteriore. Se avessimo trovato una capanna aperta, non avremmo forzato questa.
— Forse potevate entrare da una delle finestre. Stirling le lascia sempre aperte, per permettere l’ingresso a qualche amico di passaggio — gli dissi. — È un po’ difficoltoso, perché bisogna salire su un pezzo di tronco o altro per raggiungere la finestra, ma avreste potuto farcela.
— Chi è questo Stirling? — mi chiese. — Il proprietario?
Annuii.
— Gli dica che siamo davvero spiacenti di essere entrati nella sua capanna e di aver rovinato la serratura. Adesso sveglio gli altri e ce ne andiamo subito.
— No, lasci stare — dissi. — Piuttosto, c’è un posto per far riposare la signora?
— Non importa — disse Joy. — Posso dormire in macchina.
— Ma si gela — osservò l’uomo. — La notte è fredda e umida in questa stagione.
— Ci si potrebbe arrangiare con delle coperte sul pavimento — dissi.
— Senta — intervenne l’uomo — davvero non se l’è presa con me?
— Amico mio — gli risposi — non è il momento per prendersela con nessuno. Dobbiamo invece aiutarci l’un l’altro, proteggerci, stare uniti.
Mi osservò con aria sospettosa, e chiese: — È un predicatore, o qualcosa del genere?
— Per niente — risposi. Poi mi rivolsi a Joy: — Farei un salto alla stazione di servizio per telefonare a Stirling e dirgli che stiamo bene. Forse ci stava aspettando al laboratorio.
— Io rientro per vedere come ci si può arrangiare per la notte — disse l’uomo. — Ma se vuole che sgombriamo, ce ne andiamo subito.
— Non si preoccupi — lo rassicurai.
L’uomo rimase a osservarci mentre risalivamo in macchina.
— Insomma, che sta succedendo? — chiese Joy, mentre tornavamo verso la strada principale.
— Siamo appena all’inizio — le dissi. — Ne sentiremo altre di storie come questa. Gente che perde il lavoro e la casa. Banche acquistate per impedire i finanziamenti. Aziende rilevate per togliere lavoro, interi quartieri comprati per sfrattare gli abitanti e mandarli allo sbaraglio.
— Ma è inumano! — protestò Joy.
— Certo, inumano.
Lo era, letteralmente. Queste cose non erano umane, e non gl’importava niente del genere umano. Per loro, era solo una forma di vita installata su un pianeta che si poteva sfruttare ad altri fini. Avrebbero trattato gli esseri umani come questi avevano trattato gli animali che una volta occupavano la Terra. Li avrebbero eliminati, in un modo o nell’altro. Li avrebbero emarginati, schiacciati e costretti a morire.
Mi era difficile farmi un’idea di come si sarebbero svolti i fatti. Era evidente la loro linea generale di condotta, ma l’insieme dell’operazione aveva dimensioni inimmaginabili. Per essere efficace, il piano doveva abbracciare tutto il mondo. Se si era scesi al livello di una banca locale o di negozietti di paese, voleva dire che si erano messe le mani sull’industria, sul commercio e sulla finanza degli interi Stati Uniti. Non si sarebbe rilevata una botteguccia insignificante, se non si fossero già posseduti i grandi complessi industriali che erano la linfa del Paese. Nessuno si sarebbe preoccupato di una banca locale, senza tenere in pugno i grandi gruppi. Per anni e anni, le palle da bowling avevano comprato azioni e obbligazioni, riuscendo a inserire esseri “pseudoumani”, come Atwood, in posti chiave. Non avrebbero potuto permettersi di agire apertamente, come invece adesso stavano facendo, senza prima avere in mano la potenza economica del Paese.
In altre nazioni però la loro strategia non avrebbe avuto successo. Poteva funzionare solo dove fioriva l’impresa privata, dove erano i privati a controllare le risorse industriali, finanziarie e anche naturali. Niente da fare, perciò, nella Russia e nella Cina comuniste, ma forse non era necessario. Forse non occorreva che il piano fosse applicabile dappertutto, bastava che lo fosse nella maggior parte dei Paesi a forte sviluppo industriale. Colpite lo zoccolo duro dell’industria mondiale, neutralizzate le grandi reti finanziarie, e la Terra è fritta. Sarebbero scomparsi il commercio e il flusso di denaro. Una tragica battuta d’arresto per quella che chiamiamo civiltà.
E c’era un’altra domanda senza risposta, che continuava a riaffiorare ed esplodere dentro ogni pensiero: da dove arrivavano i fondi? Perché si richiedeva una somma pari a tutto il denaro esistente al mondo, se non di più.
E ancora, domanda altrettanto pertinente: quando e come erano stati effettuati i pagamenti?
La risposta era che non potevano essere stati effettuati. In quel caso, infatti, le banche si sarebbero ritrovate sovraccariche, e ci si sarebbe accorti che qualcosa non andava.
A proposito. Mi tornò in mente che Dow Crane aveva scritto, proprio quel pomeriggio, che le banche erano insolitamente in esubero di liquidità. Moneta contante che, da una settimana circa, la gente si affollava a depositare.
Allora, la gigantesca macchina dei pagamenti si era davvero messa in moto, almeno in parte. Tutto organizzato in modo che i versamenti non superassero l’arco di una settimana, con tutte le compravendite e gli accordi pianificati in modo da non turbare il quadro finanziario, così da non sollevare sospetti.
Se si era già a questo punto, riflettei, l’umanità era ormai spacciata, o quasi.
Ma restava la grande domanda: da dove proveniva tutto quel denaro?
Non si poteva pensare che le sfere avessero venduto sulla Terra qualcosa portato dai loro pianeti. Per accumulare gli immensi capitali necessari, avrebbero dovuto commerciare quantità enormi di tale materiale, e tutto questo avrebbe dato nell’occhio. A meno che non si trattasse di qualcosa dal valore stratosferico, di cui non si immaginava neppure l’esistenza. Qualcosa che avrebbe garantito al compratore il possesso di tesori nascosti ed esclusivi, che sarebbero diminuiti di prezzo se li avesse immessi sul Mercato. Se non era qualcosa del genere, non sarebbe stato possibile introdurre sulla Terra un bene alieno senza che ne trapelasse nulla.
— Andiamo a comunicare con il biologo? — mi chiese il Cane.
— Sì — risposi. — Si starà chiedendo che fine abbiamo fatto.
— Dobbiamo avvisarlo di stare molto attento — disse il Cane. — Non ricordo se l’altra volta lo abbiamo fatto. Quelle sfere nel sacco possono giocargli brutti scherzi.
— Niente paura — lo rassicurai. — Stirling è in gamba. Forse ne sa più di noi.
— Quindi — disse Joy — lo chiamiamo, poi ce ne andiamo a nanna, e domattina si vedrà?
— Mi possano dannare se lo so — risposi. — Penseremo a un piano. Dobbiamo fare in modo che la gente sappia. E scoprire il sistema per dirglielo senza venire presi a torte in faccia.
Raggiungemmo la stazione di servizio, che restava aperta tutta la notte. Mi avvicinai a una distributore e dissi al benzinaio di fare il pieno. Poi chiesi se c’era un telefono. Con la mano mi indicò l’apparecchio, accanto a una macchinetta per le sigarette.
Entrai nella cabina, formai il numero e lasciai cadere i gettoni. Udii il segnale di chiamata.
Mi rispose una voce rauca, dal tono perentorio, che non era quella di Stirling.
— Chi parla? — chiesi. — Cercavo il professor Carleton Stirling.
Non rispose, in compenso ributtò indietro la domanda: — Lei chi è?
Stavo per perdere la pazienza, tuttavia mi controllai e gli diedi il mio nome.
— Da dove sta telefonando? — chiese ancora.
— Senta…
— Signor Graves — disse la voce — qui è la polizia. Gradiremmo avere un colloquio con lei.
— La polizia… Che cosa…?
— Carleton Stirling è morto. L’ha scoperto il portinaio un’ora fa.