Casa Belmont era una grossa macchia nera e rettangolare, affondata in mezzo alle macchie nere degli alberi. Sorgeva su un piccolo promontorio che si spingeva nel lago. Quando fermai la macchina, potei sentire la risacca sulla spiaggia. Attraverso gli alberi scorgevo il luccichio della luna sull’acqua e in alto, da un abbaino, un vetro rifletteva la luce, ma sia la casa sia gli alberi che le facevano da sentinella erano avvolti nell’oscurità. Il fruscio delle foglie smosse nel silenzio della notte sembrava il rumore furtivo di tante zampette.
Scesi dalla macchina e chiusi dolcemente lo sportello, per evitare di far rumore. Mi fermai a osservare la casa. Adesso non ero spaventato, il terrore e l’orrore del pomeriggio si stavano disperdendo, ma non mi sentivo molto coraggioso lo stesso.
Forse anche lì erano state disposte alcune trappole. Magari diverse da quella pronta davanti alla mia porta, ma molto più efficienti.
Subito dopo mi sembrò un’idea stupida. Secondo la logica più elementare, sistemando trappole in quel luogo, si correva il rischio di catturare persone che passavano per andare al lago, o bambini che giocavano, ottenendo così di attirare l’attenzione proprio là dove non si voleva attirarla. Se trappole c’erano, si trovavano all’interno della casa. A ripensarci, anche questo era improbabile. Là dentro infatti loro, chiunque fossero, erano sul loro terreno, e per sistemare gli intrusi non avevano bisogno di trappole.
Probabilmente, andando avanti con il ragionamento, i miei sospetti sarebbero diventati pura fantasia, e casa Belmont non avrebbe avuto niente a che fare con tutte quelle storie. Tuttavia, sentivo la necessità di accertarmene. Dovevo sapere. Dovevo andare fino in fondo e levarmi il dubbio, o avrei continuato per tutta la vita a chiedermi se non mi fossi perso degli indizi importanti.
Percorsi il viale, con la schiena curva per essere pronto a fronteggiare un attacco da qualunque direzione. Provai a distendermi, ma era più forte di me.
Salii gli scalini dell’ingresso principale. Poi mi fermai, esitante. Ma decisi di agire apertamente: avrei suonato il campanello o avrei bussato. Al tatto, nell’oscurità, riuscii a trovare il pulsante. Era mezzo staccato, si capiva che non funzionava, ma ci provai. Dall’interno della casa non venne alcuno squillo. Riprovai, tenendolo premuto a lungo, ma con lo stesso risultato. Bussai allora con le nocche. Il rumore risuonò nella quiete notturna.
Attesi, non accadde nulla. Mi parve di udire dei passi. Ascoltai, più nulla.
Scesi la gradinata e girai intorno alla casa. Le piante erano cresciute disordinatamente. Il terreno era coperto di foglie secche che, fermentando, emettevano un odore acre.
La quinta finestra che esaminai era solo accostata. Mi parve facile, troppo facile. Se mi aspettavo una trappola, poteva essere proprio lì.
Spinsi un battente della finestra e attesi di nuovo. Ancora niente. Nessun rumore. Solo il frangersi delle onde sulla spiaggia, e il rumore del vento tra le poche foglie secche rimaste sugli alberi. Con la mano toccai la pistola nella tasca del cappotto, insieme alla torcia che avevo preso dalla macchina di Joy.
Aspettai ancora un po’, poi mi introdussi in casa dalla finestra. Subito mi tirai di lato, strisciando col dorso contro il muro, per non mettere in risalto la mia silhouette contro il riquadro della finestra. Stetti fermo, dritto contro il muro, quasi trattenendo il respiro, per percepire il minimo rumore.
Tutto tranquillo.
Accesi la torcia e proiettai il fascio di luce sui mobili coperti di polvere. C’erano quadri alle pareti, e un trofeo sulla cappa del caminetto.
Spensi di nuovo la torcia. Mi mossi rapidamente lungo il muro, giusto in caso ci fosse qualcuno in agguato tra i mobili. Non c’era.
Attesi ancora un po’.
La stanza cominciava ad apparirmi come nient’altro che una stanza.
L’attraversai in punta di piedi, passai nell’ingresso. Vidi la cucina, la sala da pranzo, e uno studio dove le scaffalature, vuote di libri, sembravano la risata muta di un vecchio sdentato.
Non trovai niente di sospetto.
La polvere si era accumulata sul pavimento, e io vi lasciavo le orme dei miei passi; il mobilio era tutto rovinato, l’aria sapeva di stantio. Aveva tutte le caratteristiche di una casa abbandonata, i cui abitanti se ne fossero andati per non tornare mai più.
Ero stato uno stupido a venire qui, mi dissi. Mi ero lasciato trascinare dall’immaginazione. Comunque, già che c’ero, meglio approfittarne. Per quanto fosse stata un’idea stupida, a questo punto diventava assurdo non dare un’occhiata anche al resto, al piano di sopra e allo scantinato.
Tornai all’ingresso e cominciai a salire la scalinata, una di quelle a spirale, dalla ringhiera luccicante.
Avevo appena fatto tre gradini che una voce mi fermò.
— Signor Graves… — disse.
Una voce pastosa, da persona colta, che mi si era rivolta in tono tranquillo. Pur con un accento interrogativo, suonava colloquiale. L’effetto, in ogni caso, fu che mi si rizzarono i capelli.
Mi voltai di scatto, cercando di estrarre la pistola dalla tasca del cappotto.
Mi ero girato solo a metà, quando la voce parlò di nuovo.
— Sono Atwood — disse. — Purtroppo il campanello è rotto.
— Ho anche bussato — dissi.
— Non l’ho sentita. Ero da basso a lavorare.
Ora riuscivo a vederlo, una sagoma oscura nell’atrio. Lasciai riscivolare la pistola in tasca.
— Potremmo andare giù — disse Atwood. — Qui non è il posto adatto per conversare comodamente.
— Come vuole — risposi.
Scesi i pochi gradini che avevo salito, e lui mi guidò verso la porta del seminterrato, attraverso la sala d’ingresso. La scala era illuminata e ora potevo vedere bene il padrone di casa. Era un comunissimo uomo d’affari, dall’aria tranquilla e rasserenante.
— Mi piace lavorare laggiù — disse Atwood, scendendo i gradini come se pattinasse. — Il vecchio proprietario aveva allestito quel locale per i suoi svaghi, e io lo trovo molto più confortevole del resto della casa. Forse perché l’edificio è vecchio, mentre quella stanza è stata aggiunta in epoca più recente.
Al termine della scala, aggirato un angolo, ci trovammo nel locale decantato.
Era grande, lungo quanto tutto il piano, con un caminetto a ognuna delle due estremità e alcuni mobili disposti disordinatamente sul pavimento di mattoni rossi. Contro una parete c’era un tavolo ingombro di carte. Di fronte al tavolo, nella parete che dava sull’esterno, si apriva un foro rotondo, della misura di una palla da bowling. Dal foro giungeva una corrente di aria fredda che mi colpiva alle caviglie. Nell’aria, una lieve traccia di quell’odore di dopobarba.
Con la coda dell’occhio mi accorsi che Atwood mi osservava, e tentai di mantenere la massima calma. Non per mettermi una maschera rigida, ma per assumere quello che presumevo fosse il mio aspetto normale. Forse ci riuscii, perché Atwood non sorrise ironicamente, come avrebbe fatto se avessi manifestato segni di imbarazzo o di paura.
— Ha ragione — dissi. — Questa stanza è molto confortevole.
Lo dissi tanto per dire qualcosa. Non era affatto confortevole. C’era la stessa polvere che c’era di sopra, e tante cose disseminate in un disordine indescrivibile.
— Si vuole accomodare? — disse Atwood, indicando una poltrona dai cuscini soffici, disposta obliquamente rispetto al tavolo.
Camminando per raggiungere la poltrona, sentivo qualcosa frusciare sul pavimento al mio passaggio. Guardai a terra e vidi che avevo calpestato un ampio foglio di plastica trasparente, che giaceva spiegazzato a terra.
— L’ha lasciato il vecchio proprietario — spiegò con noncuranza Atwood. — Un giorno o l’altro dovrò fare una pulizia radicale, in questo posto. Sedetti.
— Vuole togliere il cappotto? — chiese Atwood.
— No, grazie. Preferisco tenerlo. C’è un po’ di corrente quaggiù.
Osservai il suo volto, che rimase impassibile.
— Lei afferra rapidamente — disse Atwood, ma senza toni di minaccia nella voce. — Forse un po’ troppo rapidamente.
Non dissi nulla. Lui aggiunse: — Tuttavia sono lieto che sia venuto. Difficilmente ci si imbatte in uomini che abbiano la sua perspicacia.
Lo provocai: — Nel senso che sta per offrirmi un posto nella sua organizzazione?
— Ci avevo pensato, infatti.
Scossi la testa. — Non credo che lei abbia bisogno di me. Se l’è cavata benissimo da solo, a comprare la città.
— La città! — esclamò Atwood, in tono offeso.
Annuii.
Lui venne a sedersi di fronte a me, con calma. — Vedo che non ha capito — aggiunse. — Devo fornirle dei chiarimenti.
— Sono qui per questo — dissi.
Atwood si protese verso di me. — Non si tratta della città — disse garbatamente, ma con fermezza. — Non deve sottovalutarmi. Molto di più di una città, signor Graves. Credo di poterlo dire senza timore, ora che nessuno può fermarmi. Sto comprando il pianeta.