20

Joy abitava in una villetta nella zona nord-occidentale della città. Dopo la morte della madre, aveva avuto più volte l’intenzione di venderla per trasferirsi in un palazzo più vicino all’ufficio. Ma non l’aveva mai fatto. Forse per motivi sentimentali, forse temendo che la nuova sistemazione non la soddisfacesse.

Presi la strada in cui sapevo di poter saltare i semafori, e fu una buona mossa.

Sul sedile al mio fianco stava seduto il Cane. Il vento che entrava dal finestrino semiaperto gli lisciava il pelo sul muso. Mi rivolse una sola domanda.

— Questa Joy — disse — è una sua buona amica?

— La migliore — risposi.

Rimase immerso nelle sue elucubrazioni a questo proposito, e non disse altro.

Passavo con il rosso e andavo oltre il limite di velocità, pensando a cosa dire in caso un poliziotto mi avesse fermato. Fortunatamente non ne incontrai. Arrivato di fronte alla casa di Joy, frenai di colpo. Il Cane, colto di sorpresa, finì contro il parabrezza.

La casa sorgeva a una certa distanza dalla strada. Era circondata da uno steccato vecchio stile, al cui interno un giardinetto pullulava di alberi, cespugli e aiuole a zigzag. La porticina dello steccato era aperta, come al solito, e cigolava sui cardini arrugginiti. Vidi le luci accese sotto il portico, nella sala e nel soggiorno.

Saltai fuori dalla macchina con il fucile in mano. Il Cane entrò in giardino prima di me e si precipitò nel folto della vegetazione. Prima che scomparisse, feci in tempo a notare le orecchie riversate all’indietro lungo il cranio, le labbra tese in un ringhio, la coda diritta.

Attraversai il cancelletto, e mi stavo dirigendo verso l’ingresso quando, dalla direzione in cui era scomparso il Cane, giunse all’improvviso un pandemonio che mi gelò il sangue nelle vene.

Joy comparve sulla porta, attraversò di corsa il portico. Le andai incontro sugli scalini, mentre lei esitava, guardando verso il punto da cui proveniva quel baccano.

Il frastuono cresceva. Difficile da descrivere: sembrava il grido di una ossessa, con sullo sfondo un rumore come quello prodotto da un grosso corpo che si muovesse all’impazzata in un campo di erba alta e secca.

Afferrai Joy per un braccio e la condussi verso la macchina.

— Cane! Cane! — gridavo intanto.

Il rumore continuava. Raggiungemmo il marciapiede; feci salire Joy sul sedile anteriore, richiudendo lo sportello.

Il Cane non si vedeva ancora. Nel frattempo, in alcune case vicine, si accesero le luci e sentii il rumore di una porta che si apriva sbattendo.

Tornai indietro al cancelletto. — Cane! — chiamai ancora.

Finalmente spuntò dai cespugli, con la coda tenuta aderente alla groppa e una schiuma densa che gli colava dalla bocca. Qualcosa correva dietro di lui. Qualcosa di nero e bitorzoluto, con tutta la parte anteriore trasformata in una bocca affamata.

Non riuscii a farmi un’idea di che si trattasse. Né sapevo che fare.

Così, agii d’istinto. Afferrai il fucile come una mazza da golf… Non so perché non sparai. Forse non ne ebbi il tempo; forse per un altro motivo; forse pensai che contro quella bocca semovente avrei solo sprecato un proiettile. In un baleno, afferrata la canna con entrambe le mani, portai il calcio dietro le spalle preparandomi a vibrare il colpo.

Il Cane mi aveva già sorpassato. Quando la cosa superò il cancelletto, la colpii con violenza. Il fucile sibilò come una clava. Sentii di aver centrato l’obiettivo, ma senza ricevere nessun contraccolpo. Il calcio del fucile passò attraverso quella sostanza con la facilità con cui un coltello taglia il burro. Sul marciapiede e sulla staccionata rimasero tracce di qualcosa di gommoso e fluido.

Dai cespugli giunse un tramestio. Sapevo che c’erano altre cose in agguato, ma non rimasi ad attenderle. Corsi alla macchina, buttai dentro il fucile, e partii a tutto gas. Fortunatamente avevo lasciato il motore acceso.

Joy era sprofondata nel sedile e singhiozzava sommessamente.

— Su, fatti forza — le dissi.

Ci provò, senza riuscirci.

— È sempre così — intervenne il Cane dal sedile posteriore. — Fanno le cose a metà. Non avranno mai abbastanza intestino.

— Fegato — lo corressi.

Joy smise di piangere.

— Carleton mi ha detto che con te c’era un cane parlante — disse, mezzo spaventata e mezzo irritata. — Ma non riesco a crederci. Dov’è il trucco?

— Nessun trucco, mia cara — disse il Cane. — Non trova che la mia pronuncia sia chiara e corretta?

— Joy — le dissi — dimentica tutto quello che sai. Butta via tutte le tue precedenti convinzioni. Non c’è più niente di esatto, di logico, di sensato. Pensa che ti trovi in una terra di orchi, dove può avvenire di tutto, specialmente il peggio.

— Ma… — cercò di obiettare Joy.

— È così — proseguii. — Le cose cambiano dal mattino alla sera. Abbiamo un cane che parla, e tuttavia non è un cane. E ci sono palle da bowling che possono assumere la forma che vogliono. Stanno comprando la Terra, e l’umanità tra breve non possederà più nulla, e io, tu, tutti dovremo nasconderci come topi.

Al barlume della luce del cruscotto potevo vedere la faccia di Joy. Esprimeva confusione, meraviglia, sofferenza. Avrei voluto passarle un braccio attorno alle spalle, per stringerla a me, per darle coraggio. Ma non potevo. Dovevo guidare e pensare a tutte le cose da fare che ci attendevano.

— Non capisco — disse lei, con una voce calma da cui trasparivano note di terrore. — La tua macchina…

Allungò la mano e mi si attaccò al braccio.

— La tua macchina… — ripeté.

— Non ci pensare, cara — risposi. — Quello è il passato. Preoccupiamoci piuttosto per il futuro.

— Avevi paura di andar fuori a prendere l’auto — insisté Joy. — Non sapevi spiegarti quel senso di paura. Invece, ti ha salvato la vita.

Dal sedile posteriore, il Cane annunciò: — Se la cosa vi interessa, c’è una macchina che ci segue.

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