Per prima cosa, notai che la finestra era stata chiusa. L’avevo lasciata aperta la sera prima, e mi ero sentito ridicolmente colpevole di quella mancanza. Adesso invece era chiusa, con tanto di tende, e cercai invano di ricordarmi se c’erano anche la sera prima.
La casa, alla luce del giorno, appariva in tutta la sua decrepitezza. Da est arrivava lo sciabordìo delle onde del lago. Non c’era nulla da temere, continuavo a ripetermi, era la solita vecchia villa con le ossa che biancheggiavano al sole.
— Allora, devo aspettarla? — mi chiese l’autista.
— Sì, non starò molto — risposi.
— Dottò, dipende da lei. Per me, fa lo stesso. Ricordi che il tassametro cammina.
Mi avviai lungo il vialetto. Le foglie secche crepitavano sotto le mie suole.
Decisi che avrei anzitutto tentato di farmi ricevere secondo le usanze civili, cioè suonando il campanello. Se non fossi riuscito a entrare in quel modo, sarei passato dalla finestra, come la sera prima. Forse l’autista si sarebbe chiesto casa facevo, ma non erano affari suoi. Lui doveva solo aspettare.
Tuttavia poteva darsi che la finestra fosse chiusa dall’interno. Ma non mi sarei arreso. Niente poteva fermarmi, benché, se me lo fossi chiesto, non avrei saputo spiegare perché sentissi tanta urgenza di vedere Atwood. Era l’istinto a spingermi? Era un tema a cui aveva accennato Joy… o era stato Atwood? Non ricordavo. Comunque, era l’istinto a portarmi verso di “lui”, senza uno straccio di idea di cosa gli avrei detto, o di che scopo mi prefiggessi?
Salii gli scalini, suonai il campanello, attesi. Mentre stavo per suonare di nuovo, udii dei passi nell’ingresso.
Mi tornò in mente che il campanello non funzionava la sera prima. Era addirittura mezzo staccato, e ballava sotto il mio dito mentre tentavo di suonarlo. Ora invece funzionava, e la finestra era stata chiusa, e qualcuno veniva ad aprire.
Mi aprì una ragazza. Una cameriera in grembiule nero, con colletto e crestina inamidati. Restai a bocca aperta. La ragazza non si mosse, in attesa che parlassi. Aveva uno sguardo sbarazzino.
— Desidero vedere il signor Atwood — dissi finalmente.
— Si accomodi, prego.
Anche dentro trovai una bella differenza. La notte precedente, c’erano polvere e disordine dappertutto, con lo scarso mobilio coperto da panneggi. Adesso aveva l’aspetto di una casa abitata. Niente più polvere, i pannelli di legno alle pareti e i pavimenti erano tirati a lucido. In un angolo, un attaccapanni vuoto, con accanto un grande specchio perfettamente terso.
— Dia a me — disse la cameriera, indicando cappello e cappotto. — La signora è nello studio.
— Ma era Atwood che…
— Il signor Atwood non c’è — mi disse.
Mi prese il cappello di mano, aspettando che le porgessi il cappotto. Glielo diedi.
— Da questa parte, prego — indicò quindi.
Attraverso una porta già aperta, passai in una camera ricoperta di scaffali pieni di libri. Vicino alla finestra, seduta a un tavolo, rividi la bionda glaciale che avevo incontrato al bar, quella che mi aveva dato il biglietto da visita con la scritta “Trattiamo qualsiasi affare”.
— Buongiorno, signor Graves — mi salutò. — Lieta di rivederla.
— Atwood mi ha detto di…
— Il signor Atwood, purtroppo, non è più con noi.
— E lei, naturalmente, aspira alla successione.
Avvertivo di nuovo la sua freddezza, e il profumo di violette. Era per metà una dea nordica, per metà una segretaria superefficiente. E ancora, una cosa da un altro mondo, e una bambola che avevo tenuto in mano.
— Stupito, signor Graves?
— Non molto. Ormai non mi stupisco più di niente.
— Speravamo che sarebbe venuto a parlare con Atwood. Abbiamo bisogno di gente come lei.
— Voi avete bisogno di me come io ho bisogno di una seconda testa — commentai.
— Perché non si accomoda, signor Graves? E per favore, non faccia sempre lo spiritoso.
Presi posto di fronte a lei, di là del tavolo.
— Cosa vuole che faccia? — le chiesi. — Che cada in ginocchio e mi metta a piangere?
— Non occorrono pagliacciate — disse. — Sia semplicemente se stesso, e cerchiamo di parlare come fossimo due esseri umani.
— Cosa che lei non è, ovviamente.
— No, signor Graves. Non lo sono.
Rimanemmo a fissarci, e mi sentivo maledettamente a disagio. Dal suo volto non traspariva la minima emozione: era una bellezza scolpita.
— Se lei fosse stato un uomo diverso, avrei cercato di farle dimenticare che non appartengo alla sua razza — dichiarò. — Ma con lei non sarebbe servito a niente.
Scossi la testa. — Mi spiace — le dissi. — Realmente, mi creda. Niente mi piacerebbe di più che poter pensare a lei come un’umana.
— Se fossi una donna reale, signor Graves, questo sarebbe il più bel complimento che potrei mai ricevere.
— Ma siccome non lo è…?
— Resta pur sempre un complimento.
La guardai con attenzione, per quel che aveva detto e per come l’aveva detto. — Forse, dopotutto, qualcosa di umano c’è, in lei — dissi.
— No — disse — non prendiamoci in giro l’un l’altro. Fondamentalmente, lei mi dovrebbe odiare, e credo che mi odii, sebbene forse non del tutto. E fondamentalmente io dovrei disprezzarla, ma in tutta onestà non è così. Dovremmo poter discutere con un minimo di sangue freddo.
— Perché con me? Ci sono tanti altri…
— Lei è uno dei pochi che sanno qualcosa su di noi, signor Graves. Uno dei pochissimi al mondo, lei non crederebbe a quanto è grande questo privilegio.
— Però devo tenere il becco chiuso — osservai.
— Certo, signor Graves. Lo sa meglio di me. Del resto, quante persone le hanno creduto finora?
— Una, per l’esattezza — risposi.
— La sua ragazza, immagino. Perché vi amate.
Annuii.
— Lo vede? L’unico credito che ottiene è per motivi sentimentali.
— Avrei scommesso che lo avrebbe detto — ribattei, ma sentendomi un idiota.
— Suvvia, parliamo di lavoro — proseguì. — Diciamo che le offriamo la possibilità di fare il miglior affare della sua vita. Se non fosse stato al corrente della nostra esistenza, non saremmo venuti a cercarla. Ma dato che lo è, non abbiamo niente da perdere.
— Un affare? — chiesi stupidamente.
— Be’, ovviamente — rispose. — Lei ci è… come dite voi?… ci è dentro fin dall’inizio.
— Sai che onore…
— Senta, Graves. È bene che non si faccia illusioni, come temo ne abbia. Al punto in cui siamo arrivati, non può fare niente per fermarci. Né lei né nessun altro. Avrebbe magari potuto farlo tempo fa, ma ora è troppo tardi. Mi creda sinceramente, Graves.
— Se è troppo tardi, perché perdete tempo con me?
— Lei ci serve. Ci sono certe mansioni che lei saprebbe svolgere assai bene per noi. Quando l’umanità verrà a sapere quello che sta succedendo, potrebbe prendersela a male, non è vero, signor Graves?
— Non può neppure immaginare fino a che punto, sorella — risposi.
— Be’, non vogliamo noie. O il meno possibile. Siamo sicuri di agire in base a un programma perfettamente morale e legale. Abbiamo rispettato tutte le vostre prescrizioni. Non abbiamo violato nessuna delle vostre leggi e non intendiamo imporci con la forza. E penso che anche gli umani si troverebbero d’accordo, o la cosa potrebbe diventare molto, molto dolorosa. Vogliamo portare a buon fine questo progetto per poterci dedicare ad altro, e vogliamo farlo senza eccessivi grattacapi. E lei ci può aiutare.
— E perché dovrei farlo?
— Signor Graves — disse — la sua attività andrà a beneficio non solo nostro, ma dell’intero genere umano. Ogni cosa che lei facesse per rendere morbido il passaggio, sarebbe un vantaggio anche per la sua gente. Del resto, qualunque cosa facessero gli uomini, la fine rimarrebbe sempre la stessa. E sarebbe insensato arrivare a quella stessa fine attraverso infinite sofferenze. Ora, tenendo presente che lei è un esperto di comunicazione di massa…
— Non tanto quanto suppone — osservai.
— Si intende dei metodi e della tecnica del linguaggio. Sa scrivere in modo convincente…
— Ci sono altri che scrivono meglio di me.
— Ma lei è l’unico disponibile, signor Graves — disse, in un tono che non mi piacque.
— Insomma, dovrei fare star buona la gente. Cantargli la ninna-nanna.
— Esatto. Inoltre dovrebbe suggerirci come comportarci nelle varie situazioni. Le chiediamo, per così dire, una consulenza.
— Ormai sono cose che avete imparato da soli.
— Forse ritiene che abbiamo assorbito completamente la mentalità umana. Che siamo in grado di pensare e agire come gli umani. La cosa non è così semplice. Certo, ci intendiamo di quelli che chiamate affari, e sarà d’accordo che siamo diventati discretamente esperti. Ce la caviamo bene anche con le leggi. Ma ci sono aree che non abbiamo avuto il tempo di approfondire. Conosciamo la natura umana da un solo punto di vista: quello dei suoi comportamenti in campo economico. Il resto rimane in gran parte un mistero. Non abbiamo idea di come reagiranno gli umani quando scopriranno la verità.
— Paura, eh? — chiesi.
— No, affatto. Siamo pronti a dimostrarci anche spietati, se necessario. Ma richiederebbe tempo, e non ne abbiamo.
— Se anche fossi disposto a scrivere quella roba per voi, come fareste a pubblicarla? Come arriverebbero le mie idee al resto degli uomini?
— Lei pensi a scrivere — disse l’iceberg biondo. — Al resto penseremo noi.
Avevo paura. Anche un briciolo di rabbia, ma soprattutto paura. Fino a quel momento non avevo colto fino in fondo la fredda implacabilità di questi alieni. Non portavano odio né rancore. Di fatto, non rientravano nella normale categoria di “nemici”. Erano una forza maligna che nessuna supplica avrebbe potuto piegare. Perché, semplicemente, per loro non esisteva il problema: la Terra era solo un lotto di terreno, e il genere umano una nullità.
— Mi sta chiedendo di tradire la mia razza — dissi.
Mi resi conto immediatamente che il termine “traditore” non aveva significato per loro. Potevano incasellarlo nel contesto giusto, ma senza avvertirne il peso. Perché questi esseri non avevano gli stessi princìpi morali dell’umanità. Forse avevano una loro moralità, ma lontanissima dalla nostra, e per noi incomprensibile.
— La metta in termini pratici — mi disse. — Le offriamo una buona occasione. O resta dalla parte degli uomini, e ne condividerà la sorte, o passa con noi, a condizioni molto più vantaggiose. Se rifiuta, noi non perderemo molto. Se accetta, sarà di grande aiuto tanto a se stesso quanto al resto della sua razza, anche se a loro forse un po’ meno. Si metta con noi, ne approfitti, e sarà tanto di guadagnato per tutti.
— Chi mi garantisce che manterrete i patti?
— Gli affari sono affari — ribatté seccamente.
— Pagherete bene, immagino.
— Molto bene — rispose.
Improvvisamente, vidi rotolare sul pavimento una palla da bowling, venuta fuori da chissà dove. Si fermò a circa un metro da me.
La ragazza si alzò e girò intorno al tavolo, puntando gli occhi sulla sfera. Questa cominciò a mostrare diverse striature molto sottili sulla superficie e a suddividersi in tanti strati in corrispondenza delle striature. Dall’originario colore nero passò al verde, poi continuò a suddividersi, finché al posto della sfera comparve un bel mucchio di dollari.
Non riuscii a spiccicar parola.
La ragazza si chinò, raccolse una banconota e me la porse.
Mi soffermai a fissare la banconota, mentre lei restava in attesa.
— Ebbene, signor Graves? — mi chiese.
— Sembra denaro — le dissi.
— È denaro. Dove pensa che prendiamo tutto quello che ci occorre?
— E poi dite di agire legalmente — osservai.
— Non capisco — disse.
— Avete violato una regola. La più importante di tutte: il denaro è il valore che si dà a un lavoro. Per aver aperto una strada, o dipinto un quadro, o per le ore di attività svolta.
— Quello è denaro — affermò. — Ed è tutto ciò che ci occorre.
Si chinò e raccolse tutto il mucchio. Quindi lo posò sulla scrivania e cominciò a dividerlo in mazzette.
Inutile provare a farglielo capire. Non che fosse cinica o disonesta, era che proprio non capiva. Si trattava di un punto cieco, per un alieno: il denaro era considerato un semplice prodotto, non un simbolo.
Ne fece delle mazzette ben ordinate, si chinò a raccogliere alcune banconote che erano scivolate e le aggiunse alle altre. Il bigliettone che tenevo in mano era da 20 dollari, di cui sembravano essersene prodotti parecchi, insieme a una serie di 10 e a qualche 50.
Prese tutte le mazzette e me le porse: — Sono suoi.
— Non ho ancora deciso…
— Sono suoi in ogni caso. E pensi bene a quello che le ho detto.
— Ci penserò — le dissi.
Mi alzai e intascai il denaro.
— Ma arriverà il giorno in cui questa roba non servirà più a niente — dissi, dando dei colpetti sulle tasche piene di dollari — perché non potremo comprare più nulla.
— Allora ci sarà altro, per lei. Tutto ciò che vorrà.
Rimasi fermo a pensare e, buffamente, mi venne in mente che adesso avevo il denaro per pagare il taxi. La mia mente non riusciva a pensare ad altro. L’assurdità di quell’incontro aveva cancellato tutto, tranne un senso di vuoto totale.
Dovevo uscire di lì. Andarmene da quel posto prima che si abbattesse su di me un’ondata di repulsione. Dovevo fuggire finché mi restava un briciolo di dignità, per rifugiarmi da qualche parte a pensare. E finché non fossi arrivato a una conclusione, dovevo fingere di stare dalla loro parte.
— La ringrazio — dissi. — Ma… non ricordo il suo nome.
— Non ho un nome — rispose. — A che scopo? Solo quelli come Atwood ne hanno bisogno.
— Allora, grazie. E ci mediterò su.
Lei si voltò e uscì, precedendomi verso l’ingresso. La cameriera non c’era. Attraverso l’entrata, scorsi il soggiorno pulito e in ordine, bene ammobiliato. Mi chiesi quanti di quei mobili fossero veri e quanti fossero sfere trasformate.
Ritirai il cappello e il cappotto dall’attaccapanni. La bionda mi aprì la porta.
— È stato molto gentile a venirmi a trovare — mi disse. — Spero che tornerà.
Uscii, ma non vidi il taxi. Al suo posto c’era una lunga Cadillac bianca.
— Dov’è finito il mio taxi? — chiesi. — Avevo detto all’autista di aspettarmi.
— L’abbiamo pagato e mandato via — rispose la ragazza. — Tanto, non le serviva più. Questa sarà la sua macchina. Dal momento che lavora per noi…
— Completa di bomba? — le chiesi.
Sospirò: — Come devo fare per farle capire? Diciamolo in modo brutale: finché ci sarà utile, nessuno le farà del male. Se si metterà al nostro servizio, ci prenderemo cura di lei a vita.
— Vale anche per Joy Kane? — chiesi.
— Se vuole, anche per lei. — Mi guardò con i suoi occhi di ghiaccio. — Ma se tentate di fermarci, di ostacolarci…
E fece il suono, e il gesto, di una lama che taglia una gola.
Mi avviai verso la Cadillac.