Qualcosa mi costrìnse a uscire dal sonno.
Mi alzai di scatto. Non ricordavo dove mi trovavo, chi ero. Ero completamente disorientato, ma non ubriaco. Ero ben sveglio, niente affatto confuso, con quella perfetta lucidità di mente che di colpo ti svuota di tutto, con un improvviso lampo di coscienza.
Mi sentivo dentro un nulla silenzioso, vuoto, senza luce; la mia mente fredda e lucida guizzava veloce come un serpente alla ricerca di qualcosa che non trovava, terrorizzata da tanta vacuità.
Poi arrivò il rumore, l’alto, insistente, penetrante, folle rumore, completamente gratuito perché non aveva significato né per me né per nient’altro, ma era fine a se stesso.
Tornò il silenzio, e c’erano ombre che avevano forme: un quadrato semiilluminato che si rivelò essere una finestra, un bagliore proveniente dalla cucina dove la luce era rimasta accesa, una tenebrosa mostruosità accucciata che era una sedia a dondolo.
Il telefono squillò di nuovo nell’oscurità mattutina. Saltai giù dal letto e mi trascinai a tentoni verso la porta che non riuscivo a distinguere. Quando la trovai, il telefono non squillava più.
Attraversai il soggiorno, inciampando nell’oscurità, e mentre stendevo la mano il telefono ricominciò a squillare.
Sollevai il ricevitore e balbettai qualcosa. C’era qualcosa che non andava con la mia lingua. Non voleva mettersi all’opera.
— Parker?
— Chi parla?
— Sono Joe, Joe Newman.
— Joe? — Poi ricordai. Joe Newman era il cronista di servizio notturno al giornale.
— Mi spiace svegliarti — disse Joe.
Risposi con un brontolio irritato.
— È successa una strana faccenda — riprese lui. — Ho pensato di doverti informare.
— Senti, Joe — dissi. — Chiama Gavin. È lui il capocronista, ed è pagato per essere svegliato di notte. Io sono il redattore scientifico.
— Ma questo è successo dalle tue parti, Parker. Si tratta…
— Sì, lo so — interruppi. — È atterrato un disco volante.
— Piantala! Hai mai sentito parlare di Timber Lane?
— Seee, presso il lago, a ovest.
— Bene. Da quelle parti c’è casa Belmont, che è chiusa fin da quando i Belmont si sono trasferiti in Arizona. I ragazzi ci vanno spesso in macchina con le loro amichette.
— Senti, Joe…
— Un momento, Parker, vengo al dunque. Alcuni ragazzi si trovavano da quelle parti fermi in macchina, quando hanno visto un gruppo di palle rotolare giù per la strada. Erano simili a palle da bowling, e sfrecciavano via una dopo l’altra.
— Che facevano?! — non potei fare a meno di esclamare.
— Hanno visto quelle cose alla luce dei fari mentre se ne andavano, e presi dal panico hanno chiamato la polizia.
Cercai di controllarmi, e con voce più calma chiesi: — I poliziotti hanno trovato niente?
— Solo una serie di impronte — disse Joe.
— Come di palle da bowling?
— Sì, chiamiamole pure così.
— Forse i ragazzi avevano bevuto — ipotizzai.
— I poliziotti lo escludono. Hanno parlato coi ragazzi, i quali sostengono semplicemente di aver visto quelle palle da bowling, ma non si sono fermati a investigare, si sono limitati ad andarsene.
Rimasi silenzioso, pensando a cosa dovessi dire. Ma avevo paura, tanta paura.
— Che ne pensi, Parker?
— Non so — dissi. — Forse è tutta immaginazione. O forse si sono divertiti a spese dei poliziotti.
— Ma la polizia ha trovato le tracce!
— Possono averle fatte i ragazzi stessi. Hanno fatto rotolare una serie di palle da bowling su e giù per la strada, scegliendo una zona polverosa. Contavano di vedere i loro nomi sui giornali. Quando si annoiano, inventerebbero qualsiasi cosa.
— Quindi, non te ne occuperesti?
— Joe, ti ripeto, non sono il capocronista. Non è roba per me. Chiedi a Gavin. È lui che decide cosa mettere in pagina.
— E tu non pensi che questo sia interessante? E se ci fosse sotto qualcosa?
— Come faccio a saperlo? — gridai.
Era inviperito con me, e non potevo dargli torto. — Grazie, Parker. Scusami se ti ho seccato — disse Joe, e riattaccò.
— Buona notte, Joe — continuai. — Mi spiace di avere strillato.
Mi fece bene dirlo, anche se Joe non era più là a sentirmi.
Mi chiesi perché avessi cercato di sottovalutare l’episodio, suggerendo che fosse soltanto una ragazzata. “Perché tu hai paura, coniglio” mi disse quella vocina interiore che ogni tanto ci parla. Faresti qualsiasi cosa per convincerti che non è niente. Perché non vuoi che ti si ricordi quella trappola nell’atrio.
Rimisi giù il ricevitore e notai che la mano mi tremava.
Rimasi al buio, sentivo il terrore che mi avvolgeva. Quando provai a toccare quel terrore, non incontrai nulla. Non era affatto terribile, ma comico: una trappola tesa davanti a una porta, un branco di palle da bowling che rotolano in fila indiana lungo una stradina di campagna. Scene da un cartone animato. Era semplicemente qualcosa di troppo ridicolo per crederci. Roba da farti crepare dal ridere, mentre ti faceva crepare.
Se davvero quella cosa voleva uccidere. E quella, certo, rimaneva la domanda: era fatta per uccidere?
Quella messa alla mia porta era una vera trappola, di buon acciaio? O un giocattolo di plastica o di qualche materiale simile?
Ma la domanda più difficile era: era davvero là? Ne ero certissimo, perché l’avevo vista. Ma la mia mente tentava di respingere questa certezza. E lo faceva per un egoistico senso di sicurezza, mentre la logica si ribellava a questo pensiero. Sapevo di essermi ubriacato, non però fino a quel punto. Non ero ubriaco fradicio, non avevo avuto visioni; mi tremavano solo un po’ le mani e non ero troppo saldo sulle gambe.
Adesso era tutto a posto. Tranne per quel tremendo e solipsistico vuoto mentale. Tipo tre sbornie, e di quelle peggiori.
Ora la vista si era adattata al buio, e potevo distinguere i contorni indefiniti del mobilio. Mi avviai in cucina senza più inciampare. La porta era accostata e filtrava una lama di luce. Avevo lasciato la luce accesa quando ero andato a letto e l’orologio sul muro segnava le tre e mezzo.
Scoprii di avere addosso ancora metà dei vestiti, ben spiegazzati. Senza scarpe e con la cravatta slacciata, ma ancora penzolante dal colletto. Ero un vero disastro.
Mi fermai a pensare. Se fossi tornato a letto, avrei dormito sodo fino a mezzogiorno e forse anche oltre, e al risveglio mi sarei sentito in uno stato miserevole.
Se invece mi fossi rimesso in ordine, avrei potuto mangiare qualcosa, andare presto in ufficio, prima degli altri, avrei fatto molto lavoro e me ne sarei uscito prima, assicurandomi un piacevole fine settimana. Era venerdì, e avevo un appuntamento con Joy. Rimasi fermo per un po’, senza far niente, sentendomi bene al solo pensiero di venerdì sera e di Joy.
Stilai un programma: c’era giusto il tempo di preparare il caffè mentre facevo la doccia. Per colazione, un toast, uova al prosciutto e tanto succo di pomodoro, che fa un sacco di bene quando uno sente un gran vuoto in testa.
Ma, prima di qualunque altra cosa, volli dare un’occhiata alla moquette di fuori. Aprii la porta e guardai. Di fronte a me c’era l’assurdo semicerchio di pavimento nudo.
Visto?, dissi alla mia mente dubbiosa. Tornai in cucina a far bollire l’acqua per il caffè.