Intrappolato nel suo guscio di noia come un cavalluccio marino ancora vivo in un portachiavi di plastica, Breton trovò quasi gradevole lo squillo del telefono. Si alzò e attraversò il soggiorno per andare in anticamera.
— Chi può essere, caro? — chiese Kate Breton, accigliandosi, un po’ seccata per l’interruzione.
Breton passò in rassegna tutta una serie di risposte ironiche che gli erano subito venute in mente, ma alla fine, per riguardo verso gli ospiti, scelse la meno pungente.
— Non riconosco lo squillo — disse con indifferenza, e notò che Kate stringeva le labbra color rosa-gesso. Si sarebbe ricordata di quella frase e ne avrebbe fatto una storia, magari alle tre di mattina, quando lui moriva di sonno.
— E bravo il nostro John, sempre tagliente come un rasoio. — Gordon Palfrey parlava in fretta, con il suo caratteristico tono conciliante, e Miriam Palfrey gli rivolse il suo blando sorriso azteco, guardandolo con occhi che parevano capocchie di spillo. I Palfrey erano i più recenti acquisti di Kate, e la loro presenza in casa procurava solitamente a Breton un irritante bruciore allo stomaco.
— Pronto — disse. — Qui John Breton.
— Ah, ci chiamiamo John, adesso, eh? Una volta eri Jack.
La voce al telefono era tesa e controllata, come se chi parlava stesse dominando una forte emozione: paura, forse, o trionfo.
— Chi parla? — Breton cercò, senza riuscirci, di identificare la voce. Ebbe la sgradevole sensazione che l’apparecchio telefonico fosse come una porta attraverso cui chiunque poteva penetrare direttamente in casa sua. Quando rispondeva a una chiamata, si sentiva in posizione di svantaggio a meno che l’altro non si presentasse; ed era una sensazione spiacevole. — Chi siete?
— Dunque, non lo sai proprio? Molto interessante.
In quelle parole ci fu qualcosa che fece scattare un campanello d’allarme in Breton. — Sentite — disse — o vi presentate, o riattacco.
— Non arrabbiarti, John. Sarò ben felice di farlo. Ho chiamato solo per accertarmi che tu e Kate foste in casa, prima di venire. Adesso appendo.
— Un momento — si affrettò a dire Breton, accorgendosi di lasciarsi influenzare troppo dallo sconosciuto. — Non mi avete ancora detto cosa volete.
— Mia moglie, naturalmente — rispose amabilmente la voce. — Sono nove anni, quasi, che vivi con mia moglie, e sono venuto a riprendermela.
Uno scatto, poi il telefono prese a ronzare sommessamente nel l’orecchio di Breton che, imprecando tra i denti, depose il ricevitore e rimase indeciso accanto all’apparecchio per qualche secondo.
Doveva essersi trattato di uno scherzo di cattivo gusto, ma da parte di chi? Lui conosceva una sola persona amante delle burle: Carl Tougher, il geologo dell’azienda di consulenza tecnica Breton. Ma quando aveva visto per l’ultima volta il geologo in ufficio, Tougher era preoccupato perché non riusciva a spiegare una discordanza di dati, in un sondaggio vicino a Silverstream, dove eseguivano perforazioni alla ricerca di un terreno adatto a sostenere fondamenta di cemento. Breton non aveva mai visto Carl tanto preoccupato e meno incline a far scherzi, specie poi di quel genere. La conversazione inoltre non aveva senso, il che non era poi così strano, considerando il tipo di mentalità di chi si diverte a telefonare senza scopo alla gente; tuttavia aveva avuto un sottofondo sgradevole. Per esempio, quell’allusione al fatto che lui non si faceva più chiamare Jack. Breton aveva cominciato a servirsi del suo nome di battesimo, e non più del diminutivo, per ragioni di prestigio, quando l’azienda aveva preso a svilupparsi; ma era ormai una cosa vecchia di anni, e, pensò indignato, riguardava solo lui. Malgrado tutto, un cocciuto angolino della sua mente non aveva mai approvato il cambiamento del nome, e adesso aveva l’impressione che lo sconosciuto avesse guardato dentro di lui, individuando quella minuscola ombra, quella specie di tumore del suo senso di colpa.
Breton si soffermò sulla soglia del soggiorno, rendendosi conto che stava reagendo proprio secondo il desiderio dello sconosciuto burlone, continuando cioè a rimuginare sulla cosa, invece di non pensarci più. Passò lo sguardo sui pannelli arancione che tappezzavano l’anticamera, provando un improvviso senso di rammarico per non aver accontentato Kate, quando, un anno prima, aveva espresso il desiderio di traslocare in un appartamento più grande. Quella vecchia casa non era più adatta a lui, e l’avrebbe dovuta lasciare senza rimpianti già da tempo. “Sono nove anni, quasi, che vivi con mia moglie.” Breton corrugò la fronte ricordando quelle parole; l’uomo non aveva certo voluto dire di essere stato sposato in precedenza con Kate, o qualcosa del genere, perché Kate e Breton erano sposati da undici anni. Ma quell’espressione “nove anni” significava qualcosa di specifico, si collegava a un senso d’ansia, come se una parte del subconscio di Breton ne avesse afferrato il senso e ora aspettasse con apprensione la prossima mossa.
— Per amor del cielo! — esclamò Breton, battendosi la mano sulla fronte con aria disgustata. — Sono pazzo quasi quanto lui.
Aprì la porta e rientrò nel soggiorno. Mentre era via, Kate aveva spento quasi tutte le luci, e aveva accostato un tavolino da caffè alla poltrona dov’era seduta Miriam Palfrey. Sul tavolino erano pronti un blocco di carta bianca e una matita, e su questi oggetti le dita tozze e grassocce di Miriam stavano già facendo dei gesti vaghi e fluttuanti. Breton mugugnò tra sé: evidentemente avevano intenzione di fare una seduta. I Palfrey erano tornati di recente da un viaggio di tre mesi in Europa, e, per tutta la serata, non avevano fatto altro che parlarne, tanto da fargli sperare che quella sera non ci sarebbe stata seduta. E proprio questa speranza gli aveva dato la forza di ascoltare educatamente le loro chiacchiere di turisti.
— Chi era al telefono, caro?
— Non lo so. — Breton non aveva voglia di parlarne.
— Avevano sbagliato numero?
— Sì.
Kate lo scrutò sospettosamente. — Ma sei stato via tanto. E mi pareva di sentirti gridare.
— Diciamo allora che il numero era giusto, ma era sbagliata la persona — disse Breton con impazienza.
Gordon Palfrey sbuffò divertito, e negli occhi di Kate l’interesse si tramutò in fredda delusione, come se Breton avesse spento due minuscoli televisori. Ecco un altro argomento per le loro discussioni notturne, quando tutta la gente normale dormiva, e perfino le tende della loro camera respiravano regolarmente alla brezza della notte. “Perché” si domandò con un senso di colpa “offendo Kate davanti ai suoi amici? Ma, se la mettiamo in questo modo, perché lei urta me in continuazione, non dimostrando il minimo interesse per il mio lavoro, e sottoponendomi a un ‘terzo grado’ in pubblico, solo per una stupida telefonata?” Si sedette pesantemente e allungò macchinalmente la destra verso il bicchiere di whisky, mentre si guardava intorno, elargendo ai Palfrey un sorriso benevolo.
Gordon Palfrey stava gingillandosi col quadrato di velluto nero a stelle d’argento che serviva a coprire la faccia di sua moglie nel corso delle sedute, ma aveva voglia di continuare a parlare dell’Europa. Attaccò uno sproloquio senza lasciarsi intimorire dalle occhiate sarcastiche che Breton non risparmiava tutte le volte che sentiva affermazioni tipo: “I francesi hanno un eccellente senso del colore". Tema dello sproloquio era l’arredamento delle ville europee, che rivelavano invariabilmente un gusto superiore a quello dei migliori arredatori americani. Lasciandosi sprofondare nella noia, Breton si dimenò sulla poltrona domandandosi come avrebbe fatto a sopportare ancora quella serata, sapendo per di più che sarebbe dovuto andare in ufficio ad aiutare Carl Tougher a risolvere il problema delle fondamenta da gettare. Con la naturalezza e l’impercettibile mutamento di tono che sono le caratteristiche dello scocciatore nato, Palfrey passò a parlare di un vecchio contadino scozzese che, cieco, tesseva a mano; ma Miriam cominciava a dar segno di quell’irrequietezza che precedeva lo stato di trance.
— Di cosa stai parlando, Gordon? — Miriam Palfrey si appoggiò allo schienale della poltrona, mentre la sua mano destra, posata sul blocco, si agitava come un aquilone al vento.
— Stavo raccontando a Kate e John del vecchio Hamish.
— Oh, sì… ci siamo proprio divertiti col vecchio Hamish. — La voce di Miriam era ridotta a un mormorio monotono, che suonava alle orecchie di Breton come un’imitazione incredibilmente banale di un vecchio film di Bela Lugosi. Notando l’espressione tesa e rapita di Kate, decise di lanciarsi in una accanita difesa del buonsenso, senza risparmiare colpi.
— Ah, così vi siete divertiti col vecchio Hamish — disse in tono di forzata allegria, e a voce molto alta. — Che quadretto! Mi par di vederlo, il vecchio Hamish, rintanato in un angolo della sua casupola, vecchio e rinsecchito, che fa divertire i Palfrey.
Ma Kate gli impose il silenzio con un cenno della mano, e Gordon Palfrey, che aveva spiegato il quadrato di velluto, lo drappeggiò sulla faccia di Miriam, sollevata verso l’alto. Immediatamente, la mano paffuta afferrò la penna e cominciò a volare sulla carta, tracciando righe su righe di nitida scrittura. Gordon si inginocchiò vicino al tavolinetto per tener fermo il blocco, mentre Kate staccava i fogli man mano che venivano riempiti. Li maneggiava con una deferenza che, per Breton, rappresentava l’aspetto più irritante di tutta quella ridicola faccenda. Se a sua moglie piaceva interessarsi alla cosiddetta scrittura automatica, non avrebbe potuto farlo con un po’ più di raziocinio? Lui stesso sarebbe stato disposto a parlarne, a esaminare il fenomeno, se Kate non avesse messo ogni riga nella categoria generica dei Messaggi dall’Aldilà.
— Nessuno ha bisogno di una bevutina? — Breton si alzò per andare al mobile-bar tappezzato internamente di specchi. “Bevutina” pensò. “Cristo! Come mi stanno riducendo?” Si versò una generosa dose di scotch, lo allungò con la soda, e si appoggiò al bar osservando la scena all’altro capo della stanza. Il corpo di Miriam Palfrey stava abbandonato sulla poltrona, ma la mano si muoveva con un’incredibile rapidità per scrivere, senza abbreviazioni, al ritmo di trenta parole al minuto. Il materiale che abitualmente produceva era una prosa fiorita, antiquata, che trattava di soggetti disparati, con una notevole abbondanza di parole come Bellezza e Amore, scritti sempre con la maiuscola. I Palfrey sostenevano che quegli scritti erano dettati dagli spiriti di autori defunti, che loro cercavano poi di identificare, in base allo stile. Breton aveva una sua opinione, in proposito, ed era più disgustato di quanto non ammettesse, nel vedere Kate accettare supinamente quelli che lui considerava trucchetti tolti di peso da un salotto vittoriano.
Bevendo il suo whisky, Breton guardava Kate raccogliere i fogli, numerarli e disporli in un mucchietto ordinato. Undici anni di matrimonio non avevano cambiato per niente il suo aspetto fisico: alta e ancora snella, vestiva abiti di seta dalle tinte vivaci, che portava come se fossero un piumaggio naturale, facendo venire in mente a Breton uno smagliante uccello esotico. Ma gli occhi erano invecchiati, e molto. “Nevrosi suburbana” pensò Breton. “Frammentazione della famiglia riflessa nell’individuo. Mettiamoci un’etichetta e non pensiamoci più. Una donna non è mai completamente moglie, finché tutti i membri della sua famiglia d’origine non sono morti. Riunite gli orfanotrofi e le agenzie matrimoniali. Bevo troppo…”
Un’esclamazione soffocata di Kate lo costrinse a riportare l’attenzione al gruppo intorno al tavolino. La mano di Miriam Palfrey aveva cominciato a tracciare qualcosa, che, da lontano, pareva un disegno a cerchi concentrici, come un garofano appena sbocciato. Breton si avvicinò e si accorse che la donna scriveva seguendo una spirale molto stretta e intanto gemeva e tremava. Un lembo del quadrato di velluto si sollevava e si riabbassava seguendo il ritmo affannoso del suo respiro, simile a quello di una foca.
— Cos’è? — chiese in tono annoiato Breton. Non voleva mostrare troppo interesse, ma si era accorto che stava succedendo qualcosa d’insolito. Al suono delle sue parole, Miriam si raddrizzò a sedere e suo marito le circondò le spalle col braccio.
— Non lo so — rispose Kate rigirando il foglio fra le dita. — Cioè… è una poesia.
— Be’, sentiamola. — Breton parlava con tollerante giovialità, seccato di essersi lasciato coinvolgere, ma comunque impressionato, se non altro, dall’abilità manuale di cui aveva fatto sfoggio Miriam.
Kate si schiarì la gola, e lesse:
Ti ho desiderato per mille notti
Mentre la verde fosforescenza della lancetta
si spostava lenta.
Il desiderio di te mi faceva piangere,
Ma tu non potevi assaporare le mie lacrime.
Senza che Breton riuscisse a capire perché, queste parole lo turbarono. Tornò al mobile-bar, e mentre gli altri esaminavano il frammento di poesia, rimase a fissare accigliato le bottiglie e i bicchieri moltiplicati dagli specchi. Sorseggiò la bibita ghiacciata e fissò i propri occhi nel microcosmo di cristallo; poi, di colpo, la sua mente trovò la spiegazione della frase “sono nove anni, quasi…". Se l’intuizione era esatta, queste erano le parole che lo avevano veramente colpito: una specie di bomba di profondità psicologica perfettamente centrata, e lanciata allo scopo di colpire a fondo. Nove anni prima, proprio in quello stesso mese, una macchina della polizia aveva trovato Kate che vagava nel buio della Cinquantesima Strada, con brandelli di cervello umano appiccicati alla faccia…
Allo squillo del telefono in anticamera Breton si sentì gelare, depose il bicchiere facendolo tintinnare, e lasciò la stanza per andare a rispondere.
— Qui Breton — disse seccamente. — Chi parla?
— Ciao, John, cosa succede? — Questa volta riconobbe subito la voce. Era quella di Carl Tougher.
— Carl! — Breton si abbandonò su una sedia e cercò le sigarette. — Sei stato tu a chiamarmi, meno di mezz’ora fa?
— No. Avevo troppo da fare.
— Ne sei certo?
— Ma cosa ti prende, John? Ti ho detto che avevo troppo da fare… quei sondaggi a Silverstream si stanno rivelando un bel guaio.
— I controlli non corrispondono?
— Proprio così. Stamattina ho fatto una serie di otto rilevamenti a caso, nell’area designata, e ho controllato con un gravimetro diverso dopo pranzo. Arrivati a questo punto, tutto quel che ti posso dire è che i sondaggi fatti il mese scorso erano completamente sballati. Secondo i nuovi rilevamenti, sono di circa venti milligal inferiori a quanto dovrebbero essere.
— Venti! Ma questo fa pensare che si tratti di una formazione rocciosa più leggera di quanto avessimo previsto. Potrebbe trattarsi di qualcosa come…
— Sale — concluse per lui Tougher. — Al tuo cliente interesserebbe una miniera di sale, invece di una costruzione in cemento?
Breton prese una sigaretta e l’accese, chiedendosi perché il mondo avesse scelto proprio quella sera per comportarsi in modo strano. — Senti, Carl. Queste discordanze possono essere interpretate in due modi. O, come dici tu, il calcare, e sappiamo che là sotto c’era calcare, si è trasformato di punto in bianco in sale, e, se me lo permetti, escluderei senz’altro questa ipotesi; oppure, chissà come, i nostri gravimetri vanno rettificati… giusto?
— Penso di si — ammise con voce stanca Tougher.
— Perciò domani prenderemo in affitto un altro paio di strumenti e rifaremo le prove.
— Immaginavo che avresti detto questo. Sai quante miglia ho fatto, John? Mi pare di aver attraversato a piedi tutto il Montana.
— La prossima volta verrò con te — promise Breton. — Ho bisogno di fare un po’ d’esercizio. Arrivederci a domattina, Carl.
— Sì, arrivederci. Oh, John… hai tralasciato la terza ipotesi.
— E cioè?
— Che da ieri sia diminuita la forza di gravità.
— Hai bisogno di riposo, Carl. Anche le tue battute risentono della stanchezza. — Breton riagganciò e sorrise, pensando con ammirazione al geologo che non si lasciava mai abbattere o deprimere. Uno squilibrato che avesse voluto giocargli uno scherzo telefonico avrebbe dovuto fare i conti col robusto schermo protettivo del suo buonsenso… Eppure, proprio in questo frangente, l’unica persona di cui lui avesse sospettato era proprio Tougher. I suoi scherzi, di solito, erano a livello di caserma, ma un paio d’anni prima Tougher non aveva esitato a spendere di tasca sua circa quindici dollari per portar in ufficio una latta di benzina per alcuni giorni e versarla di nascosto nel serbatoio della macchina del custode. In seguito, Tougher aveva spiegato con la massima naturalezza che lo aveva fatto per studiare le reazioni del custode di fronte alla scoperta che la sua macchina, invece di consumare benzina, ne produceva. Uno scherzo simile poteva stare alla pari con la frase: “Vivi con mia moglie da nove anni, quasi, ormai"? Breton non ne era sicuro. Percorse in tutta la sua lunghezza la moquette color mostarda dell’anticamera battendo automaticamente a ogni passo le nocche sulla parete per evitare la formazione di energia statica nell’aria secca.
Kate non lo guardò, quando rientrò in soggiorno, e Breton provò un leggero senso di colpa, ricordando la risposta sarcastica di poco prima.
— Era Carl — disse senza che lei glielo chiedesse. — Lavora fino a tardi.
Kate annui, senza interesse, e il senso di colpa si trasformò di punto in bianco in risentimento: nemmeno davanti agli amici, sua moglie fingeva di interessarsi al suo lavoro. “È fatta così” pensò irritato “si fa comodamente mantenere da me, ma, nello stesso tempo, si arroga il diritto di disprezzare il mio lavoro e tutto quanto lo riguarda da vicino.”
Breton fissò con aria rannuvolata sua moglie e i Palfrey, intenti a riesaminare tutto il materiale prodotto da Miriam, e d’un tratto si rese conto che barcollava un po’. Prese il bicchiere e lo vuotò d’un fiato, poi se ne riempì un altro. “Continuo a sopportare che mi tratti cosi!” I vecchi e ben noti motivi di risentimento riaffiorarono alla superficie della sua mente. “Ma fino a che punto può resistere un uomo? Ho una moglie che si lamenta giorno e notte perché sto troppo in ufficio, ma quando mi prendo una serata di libertà… ecco il bel risultato. Spiritismo da strapazzo e una dose massiccia della sua maledetta indifferenza. E pensare che ho pianto, sissignore, proprio pianto di sollievo, perché era salva la notte che la trovarono coi brandelli del cervello di Spiedel sparsi tra i capelli. Allora non lo sapevo, ma Spiedel stava per farmi un grosso favore. Adesso però lo so. Se soltanto potessi…”
Breton smise di pensare allarmato: si era accorto che stava preparandosi a un viaggio.
Ma ormai era troppo tardi.
Senza rimpicciolire, le luci arancione attenuate e la pietra bianca del camino cominciarono a indietreggiare a distanza planetaria, stellare, galattica. Breton cercò di parlare, ma la sovrastruttura trasparente del linguaggio stava mutando sulla superficie della realtà, privando le parole del loro significato, facendo asserzioni impossibili. Strane figure geometriche si sovrapposero alla prospettiva della stanza, trasportandolo con un senso di nausea da un polo a un altro polo sconosciuto. Una faccia si volse verso di lui, una forma pallida, anonima, senza significato. Uomo o donna, amico o nemico? Con passo deciso, ineluttabilmente, varchiamo il limite…
Breton sbatté il cofano della Buick con tanta furia, che la grossa macchina sussultò come un pesante animale, dondolando sulle fiancate lustre. Dentro, Kate aspettava immobile, nel buio, come una Madonna: e proprio perché era cosi calma, l’ira di lui diventò incontrollabile.
— La batteria è scarica. Questo sistema tutto. Non andiamo.
— Non dire sciocchezze, Jack.
Kate scese dall’auto. — I Maguire ci aspettano. Possiamo telefonare per un tassi. — Il suo abito da sera era troppo leggero per proteggerla contro la brezza di fine ottobre, e lei si avvolse nel mantello con una dignità quasi disperata.
— Non essere così irragionevole, Kate. Siamo già in ritardo di un’ora, e non ho intenzione di andare a un ricevimento con le mani così sporche. Torniamo a casa.
— Sei puerile.
— Grazie. — Breton chiuse a chiave gli sportelli, sporcando d’olio nero la levigata vernice azzurra. — Andiamo.
— Io vado dai Maguire — insisté Kate. — Tu puoi anche tornare a casa a smaltire il cattivo umore, se vuoi.
— Non essere stupida. Non puoi fare tutta questa strada da sola.
— Posso andare e tornare benissimo sola… l’ho fatto per anni, prima di conoscerti.
— So che sei andata molto in giro, tesoro… ma ho sempre avuto il buon gusto di non parlarne, ecco tutto.
— Grazie! Almeno non avrai l’imbarazzo di farti vedere in pubblico con me, stasera.
Sentendo che le tremava la voce, Breton provò una punta di gioia maligna. — E come hai intenzione di andarci? Hai portato del denaro?
Lei esitò, poi tese la mano. — Dammi qualcosa per il tassi, Jack.
— Niente da fare, cara. Non mi hai detto che sono puerile? Andiamo a casa. — Assaporò per un momento la disperazione di lei, traendo in qualche modo vendetta dalla propria crudeltà, poi la situazione gli sfuggì di mano. “È troppo anche per me” si disse. “Cosa importa se arrivo tardi a un ricevimento, con le mani e la faccia sporche? Una persona equilibrata coglierebbe l’occasione di far l’imitazione di Al Jolson. Lasciamo che mi preghi ancora una volta e cederò. Andremo alla festa.”
Invece, Kate si limitò a pronunciare una sola parola tagliente, riempiendolo di costernazione, e si allontanò sul marciapiede illuminato dalle vetrine dei negozi. Con la mantella argentata strettamente avvolta sull’abito leggero e le lunghe gambe, rese ancor più slanciate dai tacchi altissimi dei sandali, pareva la versione, idealizzata per lo schermo, della pupa di un gangster. Per un attimo, Breton ne percepì la presenza fisica più di quanto gli fosse mai capitato, come se un meccanismo di messa a fuoco, da lungo tempo in disuso, fosse tornato a funzionare dietro i suoi occhi. La luminosità delle vetrine incorniciava Kate proiettandone l’immagine nitida nella sua mente, e lui vide, con lo stupore che desta sempre una nuova scoperta, la rete delle sottili vene azzurre nella parte posteriore delle sue ginocchia. Breton si sentì sopraffatto da un’ondata di puro affetto. “Non puoi lasciare che Kate vada sola di notte per la città” gli disse una voce. Ma l’unica alternativa era strisciarle dietro e cedere alla sua volontà. Dopo aver esitato, si voltò incamminandosi nella direzione opposta, pieno di disgusto per se stesso e imprecando tra i denti.
Circa due ore dopo si fermò davanti a casa sua una macchina della polizia.
Breton, affacciato da un pezzo alla finestra, si precipitò ad aprire la porta. C’erano due agenti in borghese, dagli occhi scuri e indagatori e, dietro a loro, alcune figure in uniforme blu.
Uno dei due esibì un distintivo. — Il signor John Breton?
Breton annuì, incapace di parlare. “Mi spiace, Kate” pensò “mi spiace… torna, e andremo al ricevimento.” Ma, contemporaneamente, stava accadendo una cosa incredibile. Sentiva un senso di sollievo crescere in un angolo riposto della mente. “Se è morta, è morta. Se è morta, è tutto finito. Se è morta, sono libero…”
— Sono il tenente Convery. Squadra Omicidi. Vi spiace rispondere a qualche domanda?
— No — rispose Breton intontito. — Sarà meglio che entriate. — Li guidò fino al soggiorno, e dovette fare uno sforzo per non mettersi a sprimacciare i cuscini, come una massaia nervosa.
— Non sembrate sorpreso di vederci, signor Breton — disse lentamente Convery. Aveva una faccia larga, cotta dal sole e un naso piccolo che si distingueva appena tra gli occhi azzurri molto distanziati.
— Cosa volete, tenente?
— Avete un fucile, signor Breton?
— Ah… sì. — Breton era sbalordito.
— Vi spiace andarlo a prendere?
— Sentite, potrei sapere cosa succede?
Gli occhi di Convery erano svegli, attenti. — Uno dei miei uomini vi accompagnerà, mentre andate a prendere il fucile.
Breton alzò le spalle e precedette il poliziotto nell’officina dello scantinato. Poteva sentire in modo palpabile la tensione dell’altro mentre scendevano la scala di legno che portava alla cantina, e si fermò indicando l’armadio in cui custodiva un guazzabuglio di attrezzi: lenze, l’equipaggiamento per il tiro con l’arco e il fucile. Il poliziotto gli passò davanti, aprì l’armadio e tirò fuori il fucile dopo aver liberato la cinghia da un amo che vi si era impigliato.
Tornati in soggiorno, Convery prese il fucile e fece scorrere un dito sul leggero strato di polvere che copriva il calcio. — Non l’adoperate molto.
— No. L’ultima volta è stato un paio d’anni prima di sposarmi.
— Uhm. È un modello ad aria compressa, vero?
— Sì. — Lo stupore cresceva sempre più dentro di lui fino a provocargli un senso di oppressione. Cos’era successo?
— Brutti aggeggi! — commentò Convery. — Spappolano gli animali. Non capisco perché la gente li adoperi.
— Perché hanno un ottimo meccanismo. — spiegò Breton. — E a me piacciono i meccanismi che funzionano bene. Oh, dimenticavo… questo non funziona.
— Come mai?
— Una volta ho abbassato l’otturatore, e credo di aver guastato il percussore.
— Uhm. — Convery tolse l’otturatore, lo esaminò, annusò la culatta, sbirciò attraverso la canna la lampada da tavolo, poi restituì il fucile al poliziotto. — È l’unico fucile che avete?
— Sì. Sentite, tenente mi sembra che le cose stiano andando troppo per le lunghe. Perché siete venuti? — Breton esitò. — È successo qualcosa a mia moglie?
— Pensavo che non vi sareste mai deciso a chiedermelo. — Gli occhi azzurri di Convery rimasero fissi sulla faccia di Breton. — Vostra moglie sta bene. È stata così avventata da attraversare il parco stasera, da sola, e un uomo l’ha assalita… Ma sta bene.
— Non capisco… come può star bene se è stata assalita?
— Be’, ha avuto molta fortuna, signor Breton. Un altro uomo che, fra parentesi, corrisponde alla vostra descrizione, è comparso da dietro un albero e ha fatto saltare la testa dell’assalitore con una fucilata.
— Cosa? Non penserete… Dov’è adesso quell’uomo?
Convery sorrise. — Non lo sappiamo. Sembra che sia svanito…
…Un senso di dolorante vastità, un mutamento di prospettiva e parallasse, inimmaginabili transizioni in cui le curve dello spazio-tempo ondeggiano tra il positivo e il negativo, e l’infinito si apre al centro minaccioso, illusorio, pungente…
— Guardalo come beve! — stava dicendo Gordon Palfrey. — Stasera vuol proprio andare in orbita.
Gli altri si voltarono a guardare Breton che, in preda al disperato bisogno di trovare il tempo per riacquistare l’orientamento, rivolse a tutti un sorriso vacuo e si lasciò sprofondare nella poltrona. Notò che gli occhi di Kate avevano un’espressione indagatrice, e si chiese se un osservatore estraneo avesse mai la possibilità di scoprire che si era totalmente estraniato dalla realtà. Un analista di nome Fusciardi, dopo un’indagine con scarsi risultati, lo aveva rassicurato, dicendo che quelle assenze di coscienza avevano la durata di pochissimi istanti. Breton tuttavia faticava a crederci perché spesso i viaggi coprivano parecchie ore di tempo soggettivo. Fusciardi aveva aggiunto che il suo caso era insolito, ma non unico; insolita era la capacità di ricordare fatti e avvenimenti lontani apparentemente durati ore ma che, nel tempo oggettivo, duravano solo qualche frazione di secondo. Aveva anche proposto di riferire il caso a un gruppo di psicologi a livello universitario, ma a questo punto, Breton aveva perso ogni interesse.
Si abbandonò nell’ampia poltrona, apprezzandone la solida comodità. L’episodio che aveva rievocato gli si ripresentava con sempre maggiore frequenza negli ultimi tempi; trovava la cosa deprimente, anche se Fusciardi lo aveva avvertito che gli avvenimenti chiave della sua vita, specialmente quelli in cui aveva provato una forte tensione psicologica, gli si sarebbero presentati con maggiore probabilità. Il viaggio di quella sera era stato insolitamente lungo, e l’aveva colpito ancora di più perché era cominciato quasi senza preavviso. Non era stato preceduto da nessuna di quelle turbe visive che, a detta di Fusciardi, preludevano di solito a un attacco di emicrania.
Turbato dal tuffo nel passato, Breton si sforzò di aggrapparsi maggiormente al presente, ma Kate e i Palfrey erano ancora immersi nell’esame dello strano campione di scrittura automatica. Rimase ad ascoltarli per un momento mentre eseguivano il rituale per cercare di identificare l’autore, poi lasciò che la sua mente fluttuasse nella calda nebbia alcolica. In quella serata, cominciata in un’atmosfera di monotonia distillata, erano successe molte cose insolite. “Sarei dovuto restare in ufficio con Carl” pensò Breton. I sondaggi per la “Blundell Company” dovevano essere completati nel giro di qualche giorno, e lui se l’era presa comoda anche prima che saltasse fuori quell’assurda discrepanza di venti milligal nel rilevamento al gravimetro. Forse i gravimetri non erano stati messi a punto bene. Carl era un ottimo geologo, ma nelle misurazioni sulla gravità si dovevano tener presenti moltissimi fattori: la posizione del sole e della luna, i moti delle maree, la deformazione elastica della crosta terrestre, e via dicendo. Chiunque poteva commettere un errore, persino Carl. E chiunque poteva fare o ricevere una telefonata anonima. “Ero pazzo a volerci trovare tutti quei sottintesi… sono stato colto di sorpresa, ecco tutto. Quella telefonata è stato un trabocchetto psicologico, ecco tutto. Buona sera… e buono anche il whisky. Anche i Palfrey sono delle brave persone, a prenderli dal verso giusto, specie Miriam. Non è male. Peccato che si sia lasciata influenzare dal fatto di aver avuto in dono da madre natura quella faccia da sacerdotessa egiziana ‘made in Hollywood’. Se somigliasse a Elizabeth Taylor, potrebbe venir qui anche tutte le sere… Anche se somigliasse a Robert Taylor…”
Sentendosi invischiato in una nuvola di appiccicosa benevolenza, Breton riportò l’attenzione su gli altri. In quel momento Kate stava parlando di Oscar Wilde.
— Oh, no! — protestò, senza ombra di asprezza. — Basta, con Oscar Wilde.
Kate lo ignorò, e Miriam sorrise con quel suo sorriso da statua, ma Gordon Palfrey era disposto a parlare.
— Non dicevamo che sia stato proprio Oscar Wilde a comunicare queste parole, John. Però qualcuno lo ha fatto, e lo stile di qualche brano è lo stesso delle prime prose di Wilde…
— Le sue prime prose! — lo interruppe Breton. — Qui ti voglio. Vediamo un po’… Wilde è morto verso il millenovecento, no? E adesso siamo nel millenovecentottantuno. Dunque, in ottantun anni da che sta nell’Aldilà, o che ha varcato la cortina, o come diavolo dite voialtri, non solo non è riuscito a evolversi come scrittore, ma è anche regredito fino all’inizio della sua carriera di letterato.
— Sì, ma…
— E non può trattarsi neppure di mancanza di pratica, perché, a dar retta a quel che ho letto nei libri che mi ha dato Kate, è stato uno dei più assidui, dopo la morte, fra gli esperti di scrittura automatica. Credo che Wilde sia l’unico autore della storia, la cui produzione sia aumentata dopo la morte. — Breton rise, compiaciuto nel constatare che si trovava in quel piacevole stato di ebrezza in cui era sempre capace di pensare e di parlare con maggiore intensità e velocità di quando era sobrio.
— Secondo te, dunque, esisterebbe una corrispondenza individuale fra questo piano d’esistenza e un altro? — disse Palfrey. — Ma non è detto che sia così.
— Ma no, non volevo dir questo. Dai dati di cui disponete riguardo all’altro piano d’esistenza, si direbbe che esso sia popolato di scrittori privi di carta e penna, che trascorrono il tempo proiettando telepaticamente vaniloqui in questo piano. E, non si sa bene come, Oscar Wilde è lo stakanovista del gruppo… Forse è la punizione per aver scritto il De Profundis.
Palfrey sfoderò un sorriso paziente. — Ma noi non dicevamo che…
— Non perder tempo a discutere con lui — lo interruppe Kate. — È proprio quello che va cercando. John fa l’ateo di professione, e comunque parla troppo. — Gli lanciò un’occhiata sprezzante, ma esagerò troppo, al punto da sembrare, per un attimo, una bambina arrabbiata. “Che sentimento poco adatto per sembrare più giovane!” pensò Breton.
— Mia moglie ha ragione — disse. — Tutta la costruzione della mia fede è crollata quand’ero bambino… Il primo colpo di piccone l’ha dato la scoperta che F.T. Woolworth non era un uomo d’affari locale.
Kate accese una sigaretta. — Ha bevuto dieci whisky: quando ne ha bevuti dieci, tira sempre fuori questa battuta.
“E tu tiri sempre fuori quella dei dieci whisky” pensò Breton. “Sgualdrina priva di umorismo, che pretendi di farmi passare per un robot alimentato ad alcol.” Nonostante questo, continuò a mostrarsi loquace e gioviale, benché risentisse ancora del trauma provocato dal viaggio. Continuò a essere cordiale anche quando presero il caffè e le tartine, e seguì Kate sulla porta al momento dei commiati.
Era una frizzante sera d’ottobre, e le costellazioni invernali cominciavano a risalire sull’orizzonte, a est, quasi a ricordare che presto la neve avrebbe iniziato la sua marcia partendo dal Canada.
Breton provava un senso di caldo benessere. Si soffermò a fumare sulla soglia, mentre Kate scambiava qualche parola coi Palfrey, già in macchina. Due stelle cadenti attraversarono fulminee il cielo: “Fine del viaggio, benvenute sulla Terra” pensò Breton guardandole. E finalmente l’auto si mosse frantumando e facendo schizzare la ghiaia, mentre la luce dei fanali sciabolava sui tronchi degli olmi che fiancheggiavano il vialetto. Kate salutò con la mano, e poi rientrò in casa, rabbrividendo un poco. Breton cercò di cingerla col braccio mentre gli passava vicino, ma Kate continuò a camminare decisa, e lui ricordò com’era stato pungente, prima. Nelle ore piccole ci sarebbero stati i commenti, mentre le tende della camera da letto respiravano lievi nel sonno.
Breton alzò le spalle per dimostrare a se stesso quanto poco gliene importasse, poi fece volare sul prato il mozzicone, che si spense nell’erba umida.
Infine aspirò a fondo un’ultima boccata di aria che sapeva di foglie morte, e si voltò per rientrare.
— Non chiudere la porta, John. — La voce proveniva dal tunnel buio della siepe che fiancheggiava il vialetto. — Sono venuto a riprendere mia moglie. Te n’eri forse dimenticato?
— Chi è? — Breton si lasciò sfuggire la domanda vedendo un’alta figura maschile avanzare verso la luce. Ma aveva già riconosciuto la voce. Quella della telefonata anonima. Di colpo lo assalì un’ondata d’ira impotente.
— Non hai ancora capito, John? — Lo sconosciuto era arrivato al portico e stava salendo lentamente i gradini. La luce gli batté sulla faccia, rivelando la sua identità.
Breton, paralizzato da una paura travolgente e inesplicabile, si ritrovò a fissare la propria faccia.