8

Ci volle un giorno intero perché la costernazione suscitata in Jack Breton dalla scoperta del brano di poesia cominciasse a diminuire.

Aveva interrogato Kate in proposito il più a fondo possibile, senza destare sospetti, e quando lei gli rivelò l’origine di quei versi, finse un blando interesse per la scrittura automatica. Kate sembrava lieta e compiaciuta, e si diffuse a spiegargli tutti i particolari a lei noti delle facoltà di cui era dotata Miriam Palfrey.

Con un crescente senso di disagio, Breton aveva esaminato centinaia di campioni di scrittura automatica, e aveva saputo che quel frammento di poesia era unico nel suo genere. Per di più, era stato scritto nelle ore in cui lui stava arrivando nel Tempo B; non poteva trattarsi di una coincidenza. L’unica risposta che la sua mente fu capace di trovare, per quanto singolare fosse la circostanza, era la telepatia… e l’ultima cosa che desiderava, era che qualcuno gli leggesse nella mente.

La mattina dopo la sua supposizione, per assurda che potesse sembrare, ricevette un’inaspettata conferma. L’apparente rottura nei rapporti tra Kate e John s’era accentuata dopo il suo arrivo. John, più chiuso che mai, diventava sempre più caustico nei confronti della moglie; si capiva che stava maturando un rivolgimento completo della propria vita. E, come a dimostrare il suo diritto a un’esistenza indipendente nel proprio universo, continuava a girare per casa con una radio sotto il braccio, aprendola a tutto volume quando venivano trasmessi i notiziari.

Le notizie che senza volerlo era costretto ad ascoltare, informarono Jack Breton del verificarsi di eventi insoliti. Ma era troppo assorto a pianificare il proprio destino personale per prestare attenzione a storie di interesse scientifico. Se non avesse avuto il problema che Miriam Palfrey era riuscita in chissà che modo a sottrargli qualche cosa dalla mente, non avrebbe nemmeno fatto caso alla notizia che gli esperimenti telepatici tenuti in numerose università stavano dando dei risultati insolitamente positivi. Così si rese conto che il caso di Miriam non era più una singola minaccia inesplicabile, ma si poneva sullo stesso piano degli altri fenomeni in corso.

Non senza sorpresa, Jack Breton scoprì poi che i rapporti con il suo “alter ego” non peggioravano. L’atmosfera della casa era percorsa da tangibili correnti di emozioni, mentre John e Kate manovravano incessantemente, ciascuno in attesa che l’altro rompesse la stasi in cui erano chiusi. Ma, di tanto in tanto, Jack si trovava in mezzo a un periodo di bonaccia, in cui lui e John potevano parlare come due gemelli che non si vedessero da tempo. Aveva anche scoperto, non senza sorpresa, che i ricordi di John riguardo alla loro comune infanzia erano molto più particolareggiati e completi dei suoi. Si ritrovò a discutere parecchie volte con lui sull’autenticità di qualche particolare, finché il relativo scomparto della sua mente non si spalancava dimostrandogli che John aveva ragione.

Jack aveva avanzato l’ipotesi che i ricordi diventavano più vivi a forza di ripeterli nella memoria traendone una sola conclusione plausibile: in un momento di quegli ultimi nove anni, John Breton doveva aver cominciato a rivivere il passato. Di fronte all’insoddisfazione di molteplici aspetti della sua esistenza nel Tempo B, aveva cercato un rifugio nei consolanti momenti di una vita passata.

Anche nel brevissimo periodo trascorso nella casa, Jack aveva avuto modo di osservare l’ossessivo interesse di John per i vecchi film e il modo con cui inevitabilmente confrontava la gente con i vecchi attori e le vecchie attrici del cinema. Nell’officina dello scantinato erano affisse foto di vecchie macchine degli anni Trenta, coi loro stretti parabrezza verticali. ("Mi piacerebbe poter guidare una di quelle vecchie caffettiere” aveva detto John. “Non ti pare di sentire l’odore della polvere su quei sedili di stoffa?") E quando non si era rivolto verso il passato, evitava la realtà umana del presente, immergendosi nei problemi tecnici della sua azienda.

Jack Breton fu grato di sentirgli esporre dettagliatamente le ultime novità del suo lavoro perché, al momento opportuno, tutte quelle informazioni gli sarebbero state necessarie. Inoltre gli offrivano l’occasione di assodare un fatto vitale per la realizzazione del suo progetto…

— I rilevamenti gravimetrici sono diventati impossibili — disse quel giorno John, dopo colazione. — Stamattina l’Ufficio Pesi e Misure ha dichiarato che la forza di gravità sta diminuendo. Visto che è sempre stata fluttuante mi auguro che questa sia una diminuzione più forte del solito, e nulla più; però è strano che non si facciano altre supposizioni, più catastrofiche. Forse c’è stato qualche fenomeno interno di portata imprevista.

— Mi pare impossibile — rispose Jack distrattamente. Pensava a Kate, che era nella stessa casa, e forse nella camera da letto intenta a cambiarsi le piume.

— Meno male che i miei gravimetri non sono guasti. Io e Carl eravamo preoccupati. Nel tuo mondo, c’era Carl Tougher?

— Sì, avevo affidato l’azienda a lui e a Hetty.

Kate stava muovendosi nuda nel crepuscolo complice delle persiane chiuse.

— Per fortuna, anche se fossero stati guasti, non mi sarei dovuto preoccupare granché — continuò John. — C’è stata un’epoca in cui un gravimetro, un teodolite e un paio di livelle Dumpy, residuati militari, costituivano tutto il mio capitale in fatto di equipaggiamento. Ma questo avveniva prima che assumessi i contratti di trivellamento e accettassi dei lavori veramente importanti.

L’interesse di Jack si ridestò di colpo. — E quel nuovo tipo di trivelle che non trivellano? Quei congegni che si usano per disintegrare la materia? Ne avete?

— Sì, tre — rispose John accalorandosi. — Ci servono per i lavori su vasta scala. A Carl non piacciono perché non si estraggono campioni utilizzabili, ma fanno un lavoro veloce e pulito. Si può scavare un foro di sessanta centimetri in strati di qualsiasi materiale, e si tira fuori solo micropolvere.

— Non ne ho mai visto funzionare una — disse Jack. — Ce n’è qualcuna installata nei paraggi?

— La più vicina è a una ventina di miglia da qui, sulla strada per Silverstream. Ma non vedo come potrei portartici. Cosa direbbe la gente, vedendoci insieme?

— Oh, tutto si aggiusterà presto.

— Davvero? — John pareva insospettito, e Jack si domandò se, per caso, non avesse intuito il destino che lui gli riserbava.

— Ma certo — si affrettò a continuare. — Tu e Kate dovrete giungere al più presto a una decisione. Non capisco come l’abbiate tirata tanto per le lunghe, al punto in cui siete. Perché non ammettete che siete arcistufi di vivere insieme e non vi separate?

— Kate ti ha detto qualcosa?

— No — rispose cauto Jack. Non voleva far precipitare la crisi, senza essere sicuro di poterla padroneggiare.

— Be’, in qualunque momento le verrà voglia di parlare, io sarò pronto ad ascoltarla. — Un’espressione di rabbia infantile passò sulla faccia quadrata di John; e Jack capì che il suo istinto non aveva sbagliato. Nessun uomo sarebbe mai stato disposto a cedere una donna come Kate. L’unica soluzione al problema del triangolo l’avrebbero trovata due macchine: la pistola nascosta in camera sua e il congegno che disintegrava la materia installato lungo l’autostrada per Silverstream.

— Sei convinto che tocchi a Kate fare la prima mossa?

— Se non vuoi che ti analizzi, non analizzare me — replicò John, in tono significativo.

Jack gli sorrise, senza prendersela. L’allusione all’analisi gli aveva fatto venire in mente l’idea del corpo di John ridotto in micropolvere. Un pulviscolo completamente anonimo e a prova di qualsiasi indagine.

Quando John tornò in ufficio, Jack attese con impazienza che Kate scendesse da lui, ma la donna arrivò in completo di tweed con un gran collo di pelliccia.

— Esci? — le domandò lui nascondendo la sua delusione.

— Vado a far spese — rispose Kate, con un’indifferenza che gli fece male.

— Non andare.

— Dobbiamo pur mangiare. — Jack sentì nella sua voce una sfumatura di ostilità, e si rese conto solo in quel momento che lei cercava di evitarlo, dopo quel loro unico incontro fisico. L’idea che potesse sentirsi colpevole, e che lui fosse associato al suo senso di colpa, riempì Breton di un panico irragionevole.

— John parlava di andarsene. — Non fu capace di evitare quella bugia da adolescente innamorato, pur sapendo bene che occorreva prepararla all’idea della partenza di John con estrema cautela. Kate esitava, tra lui e la porta. La luce che le batteva sulle guance pareva rugiada, e per un attimo ebbe la terribile impressione di rivederla come quella sera, nel cassetto scorrevole dell’obitorio. Jack cominciò ad avere paura.

— John è libero di andarsene, se vuole — disse lei finalmente, e uscì. Un minuto dopo, Jack senti il motore della MG che rombava in garage. Andò alla finestra per aspettare di vederla passare, ma Kate aveva tirato su la capote, e tutto quello che poté scorgere fu un’immagine indistinta dietro i frammenti di cielo riflessi sui finestrini.

Breton si allontanò dalla finestra. Era offeso. Le sue creature, coloro a cui aveva dato la vita come se fosse sceso sulla Terra tra le folgori bibliche per soffiare il respiro nell’argilla inerte, avevano vissuto per nove anni un’esistenza indipendente da lui. E adesso, nonostante tutto quello che erano venuti a sapere, insistevano a voler vivere come prima, ignorandolo, se necessario, e lasciandolo solo in casa: e lui detestava la solitudine. Breton attraversò le stanze vuote e silenziose, stringendo i pugni. Si era preparato a una settimana di attesa, ma le cose erano cambiate e continuavano a cambiare. Doveva agire con maggiore celerità e decisione.

Da una finestra che guardava sul retro, osservò la cupola argentea, al di là dei faggi, e provò un’improvvisa curiosità per quella costruzione. Fin dal momento in cui aveva messo piede in casa, c’era stato un tacito, istintivo accordo che nessun estraneo dovesse mai sospettare dell’esistenza dei due Breton, e per questo lui non poteva uscire. Ma il giardino sul retro era ben protetto dalla vista dei vicini, e gli sarebbero bastati pochi secondi per andare dalla casa all’osservatorio.

Scese in cucina, sbirciò da dietro le tendine, e infine uscì nel patio coperto. Il sole giallo del pomeriggio di ottobre filtrava attraverso i rami degli alberi, e di lontano si sentiva il ronzio di una falciatrice. Breton si incamminò verso l’osservatorio.

— Ehi! Niente lavoro, oggi?

Breton si girò di scatto, a quella voce. Chi aveva parlato era un uomo alto, sulla quarantina, che aveva appena girato l’angolo della casa. Indossava un abito sportivo e aveva i capelli grigi sulle tempie. La faccia, larga e cotta dal sole, era caratterizzata da due occhi azzurri, molto distanziati, e da un naso troppo piccolo.

Breton provò un senso di paura, quasi superstiziosa, riconoscendo in lui il tenente Convery: l’uomo che, in un’altra corrente temporale, era venuto ad annunciargli che Kate era morta. Ma rimase perfettamente padrone di sé.

— Oggi no — disse sorridendo. — Ogni tanto ci vuole un po’ di riposo.

— Non credevo che la pensaste così, John.

— Sì, invece… solo che lo faccio molto di rado, ecco tutto.

Breton notò il tono confidenziale. Convery l’aveva chiamato per nome… ma qual era il suo nome di battesimo? “Incredibile!” pensò. “Non è possibile avere tanta scalogna!”

Convery sorrise, mettendo in mostra i denti candidi. — Sono felice di sentire che non lavorate sempre, John… così mi sento meno fannullone.

“’John’ un’altra volta” pensò Breton. “Non posso chiamarlo tenente, se c’è una certa confidenza tra noi.” — Be’, qual buon vento vi porta fin da queste parti?

— Niente di speciale… un paio di chiamate nella zona. — Convery si fruga in tasca. — Già che passavo di qui ho pensato di portare questo — e porse a Breton un oggetto color marrone, che pareva un ciottolo.

— Oh, già — fece Breton esaminando l’incisione a spirale dell’oggetto. — Già.

— L’ha avuto mio figlio da un compagno di scuola. Gli ho promesso di farvelo vedere…

Breton fissava la pietra incisa, frugando disperatamente nella memoria. Kate gli aveva detto che Convery veniva qualche volta a prendere il caffè con John, e parlavano insieme di fossili. Questo probabilmente perché John aveva delle nozioni professionali di geologia. Ma comprendevano anche i fossili? Jack cercò di tornare con la memoria al periodo prima degli ultimi nove anni, quando si interessava solo ai viaggiatori del tempo imbalsamati nella roccia.

— È una discreta ammonite — disse, augurandosi che Convery si accontentasse di quella spiegazione.

Convery annuì. — Età?

— Circa duecentocinquanta milioni di anni… ma è difficile dirlo con una certa approssimazione, ignorando il luogo di provenienza.

— Grazie. — Convery prese il fossile e se lo rimise in tasca. I suoi intelligenti occhi azzurri ebbero un rapido guizzo, e Breton capì che i rapporti tra il poliziotto e l’altro Breton dovevano essere complessi e difficili. — Dicevate, John?

— Eh? — “Perché diavolo insiste a dire ‘John’?” pensò Breton.

— Mi sembrate dimagrito.

— Grazie di esservene accorto. A volte uno segue una dieta ferrea per settimane, e nessuno si accorge del risultato.

— Direi che dovete aver perso tre o quattro chili.

— Sì, pressappoco. E mi sento molto meglio così.

— Secondo me, stavate meglio prima — osservò l’altro. — Avete l’aria stanca.

— Mi sono preso un pomeriggio di libertà appunto perché sono stanco — rise Breton, e Convery si unì alla risata.

Breton si ricordò del caffè. — Vi sentite di correre il rischio di bere un caffè preparato da me? Kate è uscita a far spese.

— E la signora Fitz?

Sulle prime Breton non capì, poi ricordò che la signora Fitz era la cuoca-tuttofare. — Le abbiamo dato qualche giorno di libertà — rispose. — Anche lei ha diritto a un po’ di riposo.

— E allora credo che dovrò proprio correre il rischio di bere il vostro caffè, John.

Convery spalancò la porta di cucina e gli cedette il passo. Mentre stava preparando il caffè, Breton pensava che se il tenente frequentava abbastanza spesso la casa, lui avrebbe dovuto sapere se preferiva il caffè con il latte o la panna, con lo zucchero o senza, e, a scanso di equivoci, mise latte, panna e zucchero sul tavolo di cucina. Trovò rilassante quel lavoro domestico, e si accorse d’essersi inutilmente allarmato alla vista di Convery. Kate aveva detto che il poliziotto veniva qualche volta a parlare di fossili e a bere un caffè, e così era infatti. Se anche Kate fosse tornata in quel momento, Convery non avrebbe avuto ragione di insospettirsi; quanto a John Breton, sarebbe rimasto in ufficio per almeno altre tre ore.

Breton bevve il caffè senza panna né latte, e così caldo che dalla superficie della tazza si levavano piccole volute di fumo grigio. Convery prese panna, ma niente zucchero e sorseggiò il liquido con evidente soddisfazione. Bevendo, intavolò il discorso della pioggia di stelle cadenti che stavano trasformando il cielo in un continuo spettacolo di fuochi artificiali. Breton gli dette corda, contento che la conversazione avesse preso una piega tale da permettergli di parlare dell’argomento come un qualunque abitante dell’universo di Tempo B.

— E adesso, al lavoro — disse Convery dopo aver finito la seconda tazza. — I tutori della legge non dovrebbero oziare come faccio io. — Si alzò e andò a deporre tazza e piattino nel lavello.

— Così è la vita — commentò Breton, tanto per dire qualcosa.

Salutò Convery nel patio, e rientrò in casa soddisfatto. Niente più ostacolava l’attuazione del suo progetto di sostituirsi a John Breton. L’unico dubbio che aveva avuto era se sarebbe stato in grado di parlare con gente che conosceva bene John senza destarne i sospetti, o, quanto meno, la curiosità. Ma l’incontro col tenente Convery era andato benone, senza intoppi, ed era chiaro che non ci sarebbe stato niente da guadagnare a tirare le cose per le lunghe, tenendo anche conto del fatto che le reazioni emotive di Kate cominciavano a dare qualche segno di complicazione.

Jack Breton salì nella stanza degli ospiti, prese la pistola dal sottofondo di un cassetto e si portò il metallo freddo e liscio alle labbra.

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