Erano trascorsi parecchi decenni da quando il generale Theodor Abram aveva messo piede su un campo di battaglia, ma era sempre convinto di vivere in una specie di provvisoria terra di nessuno, che divideva due delle più grandi macchine da guerra mai viste nell’antica e insanguinata storia della regione.
Non passava un’ora, un minuto, un solo istante, senza che la sua mente fosse dominata dalla consapevolezza che lui rappresentava una parte essenziale nelle linee difensive del suo paese. Se mai fosse scoppiato il conflitto decisivo, non gli avrebbero chiesto di schiacciare dei bottoni. I suoi strumenti erano di carta, non di acciaio, però era ugualmente un guerriero, e il peso delle responsabilità della preparazione tecnica lo faceva sentire un patriota e un eroe.
L’incubo del generale Abram nasceva dal fatto che aveva due specie completamente diverse di nemici.
Uno era la nazione contro cui il suo popolo sarebbe stato chiamato un giorno a combattere; l’altro era rappresentato dai missili e dai tecnici che li progettavano e si occupavano della loro manutenzione. Sgretolata fortezza d’uomo creato dalla natura per combattere con la mazza e la spada, il generale Abram era dotato di scarso istinto per la tecnologia bellica, e ancor meno per l’interminabile attesa che costituiva l’alternativa a una guerra tecnologica. Per quanto gli era possibile, evitava di recarsi personalmente a visitare le basi sotterranee… Capitava troppo spesso che sette missili di una batteria da otto presentassero qualche difetto di funzionamento in quelle loro anime così maledettamente complicate.
I tecnici di turno parevano non tenere conto del fatto che questi “trascurabili difetti” e le conseguenti sostituzioni e collaudi riducevano il potenziale d’attacco del paese a una frazione del suo valore nominale.
Abram non riusciva a comprendere perché un missile balistico dovesse esser composto da un milione di parti. E capiva ancor meno le regole matematiche secondo cui un insieme di singoli pezzi in perfetta efficienza e in così gran numero dava invariabilmente un risultato capriccioso e variabile Da quando ricopriva quella carica, e cioè da anni, il generale aveva imparato a disprezzare dal profondo del cuore gli scienziati e i tecnici che gli avevano imposto simili circostanze e non perdeva l’occasione di dimostrarlo.
Guardò l’orologio. Il dottor Rasch, capo degli scienziati che lavoravano per il ministero della Difesa, aveva telefonato poco prima chiedendo un appuntamento, e doveva arrivare di lì a pochi minuti.
Il pensiero di essere costretto a sopportare nel tardo pomeriggio la loquacità scientifica di quell’ometto magro, faceva gemere i nervi già tesi del generale Abram, come un temporale fa gemere i cavi dell’alta tensione. Quando sentì la porta esterna del suo ufficio aprirsi, si piegò sulla scrivania, truce in volto, pronto a schiacciare lo scienziato sotto il peso del suo odio.
— Buongiorno, generale — disse il dottor Rasch, entrando. — È stato molto gentile da parte vostra ricevermi con un preavviso così breve.
— ’Giorno… — Abram fissava attentamente Rasch, chiedendosi cosa fosse successo. Gli occhi giallastri dell’ometto avevano una strana luce, che poteva essere di paura ma anche di sollievo, e perfino di trionfo. — Quali sono le novità?
— Non so come dirvelo, generale — Abram si accorse che l’altro si divertiva, e la sua depressione aumentò. Dovevano aver trovato un grave difetto nel disegno di una delle parti (una pompa forse, o una valvola microscopica) che esigeva una modifica retrospettiva in tutte le installazioni.
— Spero che troverete le parole per spiegarmelo — disse con intenzione Abram. — Altrimenti non capisco perché siate venuto qui.
La faccia smunta di Rasch si contrasse violentemente. — La difficoltà non dipende tanto dalla mia abilità di esprimermi, quanto dalla vostra di comprendere. — Anche in preda all’ira, Rasch parlava sempre con cauta e misurata pedanteria.
— Semplificate le cose, in modo che possa capirle — ribatté Abram, in tono di sfida.
— Bene, generale. Immagino che abbiate notato la pioggia di stelle cadenti delle ultime notti.
— Un bellissimo spettacolo — disse ironico Abram. — Siete venuto per parlarne con me?
— Indirettamente. Avete saputo qual è la causa di questo spettacolo senza precedenti?
— Può darsi, ma comunque me la sono già dimenticata. Non ho tempo per le frivolezze scientifiche.
— Allora ve la ricorderò. — Rasch aveva riacquistato tutta la sua padronanza, cosa che seccava vagamente ad Abram. — Ormai non ci sono più dubbi che la forza di gravità stia diminuendo. Normalmente, la Terra percorre un’orbita che da tempo è priva di detriti cosmici. Ora però, c’è questo nuovo cambiamento nella costante gravitazionale, l’orbita ne è nuovamente infestata, in parte per lo spostamento del nostro pianeta, ma soprattutto in seguito all’effetto ancora maggiore esercitato sui corpi più piccoli. La pioggia di stelle cadenti è una prova visibile del fatto che la forza di gravità…
— Gravità, gravità! — esclamò Abram. — Cosa me ne importa, della gravità?
— Invece dovrebbe importarcene, caro generale! — Qui Rasch si concesse un breve sorriso. — La gravità è una delle costanti, nei calcoli che i computer dei vostri missili eseguono per indirizzarli verso il bersaglio designato… E adesso la costante non è più costante.
— Volete dire… — Abram s’interruppe perché aveva finalmente afferrato l’enormità di quanto aveva detto Rasch.
— Sì, generale. I missili non cadranno più sui bersagli prestabiliti.
— Ma ci sarà un modo per far fronte a questo cambiamento della gravità.
— Certo, però ci vorrà del tempo. La diminuzione è progressiva, e…
— Quanto?
— Forse sei mesi… Dipende.
— Ma questo mi pone in una situazione insostenibile. Cosa dirà il Presidente?
— Non so pensarci… però possiamo consolarci.
— E come?
— Tutte le nazioni del mondo si trovano di fronte allo stesso problema. Voi vi preoccupate per un numero limitato di missili a breve raggio… Pensate a come devono sentirsi i russi, gli americani, e gli altri. — Rasch parlava con una calma sognante, filosofica, che irritò al massimo Abram.
— E voi, dottor Rasch? — tuonò. — Voi non siete preoccupato?
— Preoccupato, generale, preoccupato? — Rasch guardò dalla finestra il deserto che tremolava scintillando nella crescente calura. — Se avete tempo di ascoltarmi, vi spiegherò in che cosa queste frivolezze scientifiche, come dite voi, influenzeranno il futuro dell’umanità.
Cominciò a spiegare con voce sottile e monotona, e, mentre lo ascoltava, il generale Abram scoprì che cosa significava realmente aver paura…
Nelle notti limpide, specie se c’era la luna, si poteva notare una finestra aperta all’ultimo piano della casa più alta di Ridgeway Street.
I nottambuli scorgevano una macchia chiara e indistinta che si muoveva nel rettangolo buio e sapevano di aver scorto Willy Lucas che li guardava. E Willy Lucas, con la faccia foruncolosa, cosparsa di peluria e contratta dal panico, si ritraeva dalla finestra, atterrito perché lo avevano visto.
Le donne che abitavano di fronte avevano spesso pensato che Willy cercasse di spiare nelle loro camere da letto, e lo avevano punito lamentandosene con suo fratello. Ma a Willy non interessavano le massaie dalle labbra sottili e dagli occhi maligni di Ridgeway Street: e neppure le femmine attraenti e strane che talvolta si accompagnavano a lui nei sogni.
La verità era che Willy si divertiva a guardare la città immersa nel silenzio, quando tutti gli altri dormivano. In quelle ore preziose era come se tutti quanti fossero morti e lo avessero lasciato solo, e non c’era più nessuno a sgridarlo o a guardarlo con esasperazione…
Quando cadde la prima stella, Willy era al suo posto di osservazione all’ultimo piano dell’edificio alto e stretto. Tremando per l’eccitazione, afferrò il vecchio binocolo da teatro di madreperla, che aveva rubato da Coomey, il rigattiere all’angolo, e lo mise a fuoco sulla buia calotta del cielo. Ogni volta che vedeva una stella cadente, il cui luminoso tragitto assumeva tutti i colori dell’iride per via del cattivo funzionamento del binocolo, gli si risvegliavano nella mente pensieri informi che lo turbavano. Con gli istinti affinati di chi non si trova a proprio agio negli schemi dell’esistenza normale, Willy si rendeva conto che quelle fuggevoli falene luminose recavano un messaggio destinato solo a lui… Ma quale?
Willy rimase in osservazione fin quasi all’alba, accovacciato nel buio sempre più freddo del piccolo abbaino, poi chiuse la finestra e andò a letto.
Quando si alzò e scese a far colazione, il negozio che si apriva al pianterreno della casa era pieno di clienti. Le due sorelle maggiori, Ada ed Emily, erano troppo occupate per andare a preparargli la colazione, e cosi Willy si fece dei panini abbondantemente imbottiti di marmellata d’arancia.
Mentre masticava in silenzio, immerso nei suoi pensieri, sfogliava senza vederle le pagine del libro che aveva davanti, e sentiva il rumore delle patate che venivano pesate in negozio. Perché, come è detto nella Bibbia, gli era apparsa la folgorante spiegazione, terribile e agghiacciante, di quella pioggia di stelle.
Provava una grande esaltazione al pensiero di essere stato scelto come strumento attraverso cui il messaggio si sarebbe divulgato nel mondo, ma, nello stesso tempo, ne sentiva l’enorme peso. In vita sua, Willy non aveva mai avuto la benché minima responsabilità, e non sapeva se possedeva le doti necessarie, specie in una cosa di quella importanza. Gironzolò per tutta la giornata nella vecchia casa buia, tentando di trovare il modo di scaricarsi di quelle responsabilità impostegli da Dio, ma non riuscì a escogitare una soluzione che potesse essere valida. Al tramonto, suo fratello Joe tornò a casa dall’officina del gas dove lavorava, e si arrabbiò perché Willy non aveva imbiancato il cortile. Willy non gli fece molto caso, e accettò senza ribellarsi gli aspri rimbrotti, mentre continuava a pensare come poteva onorare la fiducia che Dio aveva riposto in lui.
Quella notte, la pioggia di stelle cadenti fu ancora più spettacolare, e Willy incominciò a sentire un’urgenza a cui non era abituato, quasi un senso di colpa perché non aveva ancora fatto niente per diffondere il Verbo. Cominciò a preoccuparsi, e quando era assorto o distratto, Willy si riduceva in uno stato di completa imbecillità. Gironzolando per il negozio rovesciò una cassetta di pomodori, e un’altra volta fece cadere un cesto di bottiglie vuote.
Trascorse un’altra notte di brulicante splendore, prima che gli venisse l’idea. Era un’idea piccola, misera (se ne rendeva conto con una certa obiettività), ma era sicuro che Dio conosceva i limiti dello strumento da Lui prescelto, meglio di Willy stesso.
Una volta deciso il da farsi, Willy non vedeva l’ora di mettersi al lavoro. Invece di andare a dormire dopo aver vegliato tutta la notte, scese di corsa nel cortile posteriore a cercare gli attrezzi da falegname. Joe, che si era già vestito con la tuta marrone da lavoro, beveva il tè davanti ai fornelli. Guardò Willy con la solita espressione di antipatia, mista a disgusto.
— Willy — disse con voce tesa — se non imbianchi il cortile oggi, lo farò io, adoperando te come pennello.
— Sì, Joe.
— Ti avverto per l’ultima volta, Willy. Siamo arcistufi di mantenerti senza che tu alzi mai un dito per renderti utile.
— Sì, Joe.
— Te ne stai a letto tutta la notte e buona parte della giornata.
— Sì, Joe.
Willy fissava la faccia quadra del fratello e stava per dire quanto potessero ritenersi fortunati Joe, Ada ed Emily, e tutti gli uomini della Terra, per il fatto che lui “non” era stato a letto tutta la notte. Grazie alla sua vigilanza l’umanità aveva guadagnato un po’ di tempo. Ma poi decise che era troppo presto per parlare, e uscì in cortile.
L’esecuzione del lavoro si rivelò più difficile del previsto, soprattutto per la scarsezza di materiale. Willy sprecò del tempo a frugare nel mucchio di legna annerita dalla pioggia, in fondo al cortile, facendosi male alle mani e coprendosi gli abiti di macchie di muschio e di funghi. Infine capì che non avrebbe trovato niente che potesse servirgli; andò allora nello sgabuzzino che serviva alle sorelle come magazzino di deposito.
Vicino alla porta c’era una grande cassa di legno, piena di sacchetti e di rettangoli di carta marrone, che venivano usati per avvolgere le verdure. Incominciò a vuotarla con cura, ma i pacchi di carta erano più pesanti del previsto e le sue dita maldestre non riuscivano ad afferrarli bene. Così, cominciarono a cadere uno dopo l’altro, e fogli e sacchetti si sparpagliarono sul pavimento. Willy sopportò la malvagità di quegli oggetti inanimati finché poté, ma alla fine sollevò di lato la cassa, facendo scivolare il contenuto come una valanga sul cemento fangoso del cortile.
“Tanto ormai non importa” pensò.
Ma anche quando ebbe spaccato la cassa, il lavoro non volle riuscirgli bene. Il legno sottile si scheggiava, o si divideva in listerelle sottili quando cercava di tagliarlo e non era capace di infilarci i chiodi. Tuttavia continuò a lavorare con tenacia senza interrompersi per mangiare e nemmeno per asciugare il sudore che gli colava giù per le guance pelose. Solo nel tardo pomeriggio riuscì a terminare la rozza struttura che rispondeva malamente alle esigenze del progetto.
I morsi della fame gli torcevano lo stomaco, ma, per fortuna, né Ada né Emily mostrarono la faccia occhialuta sulla porta che dava nel cortile; e Willy decise di terminare al più presto il suo lavoro.
Trovò un barattolo di vernice rossa e un pennello, e si rimise all’opera, lasciandosi sfuggire a tratti qualche gemito; dedicava al lavoro tutta la concentrazione di cui la sua mente era capace.
Quando ebbe finito, erano già le cinque passate e, dal momento che doveva lasciare asciugare la vernice, decise di andare a darsi una pulitina e di mangiare qualcosa. Salì a quattro a quattro i gradini della scala buia, si lavò la faccia, e indossò con gesti febbrili l’abito della domenica, che gli pareva adatto alla circostanza. Soddisfatto che fuori fosse ancora giorno, scese in cortile, ansando per la fretta.
Nello stretto corridoio dietro il negozio, andò a sbattere contro suo fratello Joe che stava tornando dal lavoro.
— Be’ — disse Joe dominando l’ira. — L’hai fatto?
Willy lo fissò a bocca aperta. Si era completamente dimenticato dell’incarico di imbiancare il cortile. — Ah… non ho avuto tempo. Avevo troppo da fare.
— Me l’ero immaginato. — Joe afferrò Willy per i risvolti della giacca e lo spinse contro il muro posteriore della casa, con tutta la forza del suo corpo robusto.
— Fallo subito, Willy, altrimenti ti ammazzo. Ti ammazzo!
Joe aprì la porta del retro, scagliò Willy nel cortile e gli sbatté la porta alle spalle. Willy si guardò intorno sgomento per un istante, cogli occhi pieni di lacrime, poi corse nel ripostiglio a prendere il secchio della calce e un pennello. Si mise all’opera con accanimento feroce, schizzando il liquido gorgogliante sui mattoni disuguali con lunghe pennellate irregolari, senza badare ai vestiti. Dopo un’ora, i muri erano dipinti e Willy, esausto e con le mani coperte di vesciche, ripose il secchio. In quel preciso istante, la porta si aprì e Joe uscì in cortile.
— Mi dispiace di essere stato così brusco con te, Willy. — Joe aveva l’aria stanca. — Ora vieni in casa, a mangiare un boccone.
— Non voglio niente — rispose Willy.
— Senti, ti ho detto che mi dispiace… — Joe s’interruppe: aveva visto l’informe mucchio di carta fuori dalla porta dello sgabuzzino. Poi vide l’oggetto che era costato una giornata di lavoro a Joe, e disse con stupore: — Ma cosa diavolo…?
— Non ti avvicinare!
Willy si era spaventato, intuendo la reazione di Joe di fronte a quello che aveva visto, e capiva che non sarebbe riuscito a cavarsela tanto facilmente. Diede uno spintone al fratello, e corse a prendere il frutto del suo lavoro. Joe fece per trattenerlo, ma Willy, pieno d’ira divina, lo scostò con una gomitata. Con la coda dell’occhio, vide Joe cadere sul mucchio di legna, e provò un senso di trionfo. Sollevò la malferma struttura, se la caricò in spalla ed entrò con passo deciso in casa. Le clienti si misero a strillare quando entrò a precipizio nella bottega, per uscire di lì in strada. Willy non badò agli urli, né guardò le facce bianche e stupefatte delle sorelle, dietro il banco. Per la prima volta in vita sua aveva un vero posto al mondo, con qualcosa d’importante da fare, e nulla e nessuno l’avrebbe fermato.
Non badò nemmeno allo stridio dei freni, mentre usciva di corsa in strada, né al traffico delle auto che invano cercavano di rallentare, e non sentì neppure l’urto che gli fracassò le ossa. Pochi secondi dopo, non era in grado di sentire più niente.
La gente accorsa sul luogo dell’incidente, calpestò il cartello che Willy aveva così laboriosamente costruito. Su di esso era dipinta una frase a lettere rozze: LA FINE È VICINA PREPARATEVI A MORIRE.
— …ma — stava dicendo il generale Abram, costernato — se tutto questo è vero, significa…
Il dottor Rasch annuì come in sogno.
— Proprio così, caro generale. Significa la fine del mondo.