La mattina dopo la cena eravamo di nuovo nella nave spaziale. Per essere precisi, l’androide A. Bettik e io eravamo nella nave, raggiunta nel modo più comodo, usando il tunnel che collegava le due torri, mentre Martin Sileno era presente come ologramma. Un’immagine olografica bizzarra, perché il vecchio poeta aveva deciso che il trasmettitore, o il computer della nave, lo rappresentasse in una versione più giovane: sempre un antico satiro, ma in grado di reggersi sulle gambe e dotato di chioma e di orecchie appuntite. Indossava un mantelletto marrone, camicia a maniche lunghe, calzoni a sbuffo, berretto floscio. Guardandolo, mi resi conto di quale damerino fosse stato, quando quegli abiti erano di moda. Fui sicuro che Martin Sileno avesse avuto quell’aspetto, quando era tornato su Hyperion come pellegrino, tre secoli prima.
— Vuoi continuare a fissarmi a bocca aperta come un merdoso bifolco, o ti decidi a terminare il cazzo di giro, così possiamo proseguire con gli affari? — disse l’immagine olografica. Il vecchio mostrava i postumi del vino bevuto la sera prima o aveva ritrovato abbastanza salute da sfoggiare un umore più pestifero del solito.
— Faccia strada — dissi.
Dal tunnel avevamo preso l’ascensore della nave per la camera stagna inferiore. A. Bettik e l’ologramma del poeta mi precedettero su per i vari piani: la sala motori con la sua indecifrabile strumentazione e la rete di tubi e di cavi; poi il ponte per il sonno criogenico… quattro cuccette di crio-fuga in cubicoli super raffreddati (ne mancava una, scoprii: quella che Martin Sileno aveva prelevato per uso personale); poi il corridoio del portello stagno centrale, dal quale ero entrato il giorno prima… le pareti di "legno" celavano un gran numero di armadi ripostiglio con roba tipo tute spaziali, veicoli fuoristrada, aerociclette, perfino alcune armi antiquate; poi la zona soggiorno, con lo Steinway e la piazzola olografica; poi di nuovo su per la scala a chiocciola, in quella che A. Bettik chiamò la "sala di navigazione" (e infatti c’era un angolino dove si vedevano alcuni strumenti elettronici per la navigazione), ma che ritenni una biblioteca, con scaffali su scaffali di libri… libri veri, stampati… e poltrone e divanetti lungo le finestre; e infine su in punta alla nave, una semplice stanza circolare con un solo letto al centro.
— Al Console piaceva guardare da qui le perturbazioni atmosferiche, mentre ascoltava musica — disse Martin Sileno. — Nave?
Le paratie della stanza circolare erano trasparenti, come la prua della nave più in alto. Intorno a noi si vedevano solo le pietre scure della torre, ma dall’alto filtrava la luce, grazie al malandato soffitto del silo. Una musica in sordina riempì all’improvviso la stanza. Pianoforte, senza accompagnamento. La melodia era antica e ossessionante.
— Czerchyvik? — domandai, tirando a indovinare.
Il vecchio poeta sbuffò. — Rachmaninoff — disse. I suoi lineamenti da satiro parvero ingentilirsi di colpo nella tenue luce. — Riesci a indovinare chi è al piano?
Ascoltai con attenzione. Il pianista era assai bravo. Non avevo idea di chi fosse.
— Il Console — disse A. Bettik, a voce molto bassa.
Martin Sileno borbottò qualcosa. — Nave… opaco — ordinò. Le pareti parvero solidificarsi. L’ologramma del poeta scomparve dalla posizione accanto alla paratia e si materializzò vicino alla scala a chiocciola. Sileno aveva la mania di quei trasferimenti improvvisi che creavano un effetto sconcertante. — Bene — disse — se abbiamo finito questo cazzo di giro, scendiamo in soggiorno e studiamo come battere in astuzia la Pax.
Le mappe erano del vecchio tipo, inchiostro su carta, ed erano aperte sulla lucida parte superiore del pianoforte a coda. Il continente Aquila allargava le ali sopra la tastiera e la testa di cavallo di Equus si arricciava più in alto, come mappa separata. L’ologramma di Martin Sileno avanzò su gambe robuste e puntò il dito all’incirca nel punto dove si sarebbe trovato l’occhio del cavallo. — Qui — disse. — E qui. — Il dito privo di massa non fece rumore sulla carta. — Il Papa ha portato le sue merdose truppe per tutta la strada da Castel Crono, qui… — il dito si piantò dove la catena montuosa della Briglia toccava il punto più orientale dietro l’occhio — giù fino al muso. Hanno velivoli qui, nella maledetta città di re Billy il Triste… — il dito batté un punto qualche chilometro a nordovest delle Tombe del Tempo — e hanno ammassato le Guardie Svizzere nella valle stessa.
Guardai la mappa. A parte la Città dei Poeti, ormai abbandonata, e la Valle delle Tombe, per più di due secoli il quarto orientale di Equus era rimasto deserto e vietato a tutti, tranne ai soldati della Pax. — Come fa a sapere che le Guardie Svizzere sono là? — domandai.
Il satiro inarcò il sopracciglio. — Ho le mie fonti.
— Le sue fonti precisano unità e armamento?
Dal rumore, parve che l’ologramma del vecchio poeta stesse per sputare sul tappeto. — Non ti occorre conoscere quante unità ci sono — replicò, brusco. — Ti basta sapere che trentamila soldati si trovano fra te e la Sfinge, dalla quale Aenea uscirà domani. Tremila di quei soldati sono Guardie Svizzere. Allora, come intendi passare in mezzo a loro?
Mi venne voglia di ridergli sul muso. Non credevo che l’intera Guardia Nazionale di Hyperion, con appoggio aereo e spaziale, potesse "passare in mezzo" anche solo a sei Guardie Svizzere, altro che tremila! Le armi, l’addestramento e i sistemi difensivi delle Guardie Svizzere erano validi fino a quel punto. Invece di ridere, esaminai di nuovo la mappa.
— Ha detto che le forze aeree sono parcheggiate all’esterno della Città dei Poeti… Sa di quale tipo sono gli aerei?
Il poeta si strinse nelle spalle. — Caccia — disse. — In quella zona i veicoli elettromagnetici non valgono una merda, lo sanno tutti, quindi hanno portato aerei a propulsione-reazione. Jet, penso.
— Autoreattori, statoreattori, pulsoreattori o aspiratori? — domandai. Volevo dare l’impressione di sapere di che cosa parlavo, ma le nozioni militari che avevo raccolto qua e là durante il servizio nella Guardia Nazionale erano basate soprattutto su: smontare l’arma in dotazione, pulire l’arma, usare l’arma, marciare nelle intemperie senza bagnare l’arma, cercare di dormire qualche ora quando non marciavi né pulivi né smontavi l’arma, cercare di non morire congelato quando non dormivi e (a volte) tenere bassa la testa per non farti centrare dai cecchini su Ursa.
— Che cazzo te ne frega del tipo d’aereo? — brontolò Martin Sileno. Si era tolto di dosso tre secoli, ma non si era certo addolcito. — Sono aerei da caccia. Li abbiamo misurati a… Nave? Che cazzo di velocità avevano, gli ultimi puntini radar?
«Tre mach» rispose la nave.
— Tre mach — ripeté il poeta. — Abbastanza veloci da volare quaggiù, bombardare fino a ridurre tutto in cenere e tornare nel continente nord prima che la birra dei piloti diventi tiepida.
Alzai gli occhi dalla mappa. — Avevo intenzione di domandarlo — dissi. — Perché non lo fanno?
Il poeta girò la testa verso di me. — Perché non fanno cosa?
— Volare quaggiù, ridurre lei in cenere e tornare a casa prima che la loro birra diventi tiepida. Lei rappresenta una minaccia per loro. Perché la tollerano?
Martin Sileno emise un borbottio. — Io sono morto. Loro pensano che sia morto. Come potrebbe, un morto, costituire una minaccia?
Sospirai e tornai a guardare le mappe. — Dovrebbe esserci in orbita una nave per il trasporto truppe, ma non credo che lei sappia quale sia il tipo della scorta.
A sorpresa, intervenne la nave. «È una spin-nave da trecentomila tonnellate, classe Akira. Scortata da due navi torcia di classe standard, la Sant’Antonio e la San Bonaventura. In orbita, più lontano, c’è anche una nave Tre-C.»
— Che cazzo è una nave Tre-C? — brontolò l’ologramma del poeta.
Lo guardai. Com’era possibile che una persona vivesse mille anni e non imparasse una cosa così banale? I poeti sono tipi bizzarri. — Comando, Comunicazione, Controllo — spiegai.
— Allora quel f.d.p. della Pax che comanda è lassù in orbita?
Mi grattai la guancia e fissai la mappa. — Non necessariamente — risposi. — Il comandante della task force spaziale sarà lassù, ma il responsabile dell’operazione può trovarsi sul pianeta. La Pax addestra i comandanti anche per operazioni combinate. Con tante Guardie Svizzere quaggiù, un alto ufficiale comanda sul pianeta.
— Bene — disse il poeta. — Come farai a passare in mezzo a loro e a portare fuori la mia piccola amica?
«Chiedo scusa» intervenne la nave «ma in orbita c’è ancora un altro veicolo spaziale. È giunto circa tre settimane fa, tempo standard, e ha inviato una navetta nella Valle delle Tombe del Tempo.»
— Che tipo di veicolo? — domandai.
Vi fu una breve esitazione. «Non lo so» rispose la nave. «Non conosco la sua configurazione. Piccola, forse delle dimensioni d’un corriere, ma il profilo di propulsione è… insolito.»
— Probabilmente è un corriere — spiegai a Sileno. — Qualche povero disgraziato che è rimasto in crio-fuga per mesi, accumulando anni di debito temporale, solo per consegnare chissà quale messaggio che la Pax Centrale si è dimenticata di trasmettere al comandante prima della partenza.
L’immagine olografica del poeta sfiorò di nuovo la mappa. — Non scantonare. Come strapperai Aenea a quegli sbattimamma?
Mi staccai dal pianoforte e lasciai trasparire la collera. — Come diavolo faccio a saperlo? È lei, quello che ha avuto due secoli e mezzo per progettare questa stupida evasione. — Indicai la nave. — Presumo che quest’affare sia il nostro biglietto per battere in velocità le navi torcia. — Esitai. — Nave? Puoi raggiungere il punto di traslazione C-più battendo in velocità una nave torcia della Pax? — Naturalmente tutti i motori Hawking fornivano l’identica pseudovelocità ultra-luce, perciò la nostra fuga e sopravvivenza, o la cattura e morte, dipendevano dalla corsa per raggiungere il punto quantico di traslazione.
«Oh, sì» rispose subito la nave. «Una parte della mia memoria è stata annullata, ma so che il Console mi ha fatto modificare durante una visita a una colonia Ouster.»
— Una colonia Ouster? — ripetei come un idiota. Contro ogni logica, mi sentii formicolare la pelle. Ero cresciuto con il terrore di un’altra invasione Ouster. Gli Ouster erano lo spauracchio per eccellenza.
«Sì» disse la nave, con qualcosa di simile all’orgoglio nel tono. «Potremo raggiungere le velocità C-più in un tempo inferiore di quasi il 23 percento rispetto a una normale nave torcia della Pax.»
— Loro possono colpirti da una distanza di mezza unità astronomica — obiettai, poco convinto.
«Certo» convenne la nave. «Niente di preoccupante… se abbiamo un vantaggio di quindici minuti.»
Mi rivolsi all’accigliato ologramma e al silenzioso androide. — Oh, magnifico — dissi — se è vero. Ma non m’aiuta a escogitare il modo di portare alla nave la bambina o la nave via da Hyperion, con quei quindici minuti di vantaggio. Le navi torcia saranno in quella che chiamano FCO, formazione da combattimento in orbita. Almeno una, forse più d’una, sarà sopra Equus ogni secondo, per coprire ogni metro cubo di spazio da cento minuti luce agli strati superiori dell’atmosfera. A circa trenta chilometri dal pianeta interverrà la squadriglia da guerra, probabilmente caccia pulsoreattori classe Scorpione in grado di volare anche a bassa quota. Né la squadra spaziale né quella aerea manterranno la nostra nave sugli schermi radar per quindici secondi, altro che quindici minuti. — Guardai il poeta. — A meno che lei non mi abbia taciuto qualcosa. Nave? Gli Ouster ti hanno dotata di tecnologia magica? Schermo d’invisibilità o roba del genere?
«No, che io sappia» rispose la nave. Dopo un secondo soggiunse: «Non sarebbe possibile, vero?».
Non mi curai di rispondere alla nave. — Senta — dissi a Martin Sileno — mi piacerebbe aiutarla a salvare la bambina…
— Aenea — disse lui.
— Mi piacerebbe strappare Aenea a quei tipi, ma se riveste per la Pax l’importanza a cui lei accennava prima… insomma, tremila Guardie Svizzere, Dio buono… non abbiamo modo d’entrare in un raggio di cinquecento chilometri dalla Valle delle Tombe, neppure con questa nave eccezionalmente perspicace.
Nonostante la distorsione olografica, lessi il dubbio negli occhi di Sileno, perciò continuai: — Parlo sul serio. Anche se non ci fossero la copertura spaziale e aerea, le navi torcia, i caccia e gli avioradar, ci sarebbero sempre le Guardie Svizzere. Voglio dire… — mi accorsi di stringere i pugni — che quelle sono micidiali! Addestrate a operare in squadre di cinque… e ogni squadra può abbattere una nave spaziale come questa.
Sileno inarcò le sopracciglia da satiro, per la sorpresa o per il dubbio.
— Stia a sentire — dissi. — Nave?
«Sì signor Endymion?»
— Hai schermi difensivi?
«No, signor Endymion. Ho campi di contenimento migliorati dagli Ouster, ma solo per uso civile.»
Non sapevo che cosa fossero i "campi di contenimento migliorati dagli Ouster", ma continuai: — Possono fermare un raggio compatto standard di nave torcia o una lancia al plasma?
«No» disse la nave.
— Puoi respingere torpedini C-più o cinetiche convenzionali?
«No.»
— Puoi batterle in velocità?
«No.»
— Puoi impedire l’ingresso a una squadra d’abbordaggio?
«No.»
— Hai capacità offensive o difensive in grado di vedersela con navi da guerra della Pax?
«A meno di considerare la capacità di correre come un’indemoniata, signor Endymion, la risposta è no.»
Guardai Martin Sileno. — Siamo fottuti — mormorai. — Anche se riuscissi ad avvicinarmi alla bambina, quelli catturerebbero anche me, oltre lei.
Martin Sileno sorrise. — Forse no — disse. Rivolse un cenno ad A. Bettik; l’androide andò alla scala a chiocciola, salì al piano superiore e tornò in meno di un minuto. Portava un rotolo di chissà quale materiale.
— Se quella è l’arma segreta — dissi — è meglio che sia buona.
— È buona — confermò l’ologramma, con un sorrisetto compiaciuto. Rivolse un cenno all’androide. A. Bettik srotolò il cilindro.
Era un tappeto, lungo un po’ meno di due metri e largo poco più d’un metro. Il tessuto era logoro e sbiadito, ma si scorgeva l’intricato disegno. Una complessa trama di filo d’oro manteneva ancora la lucentezza di quando…
— Oddio — dissi. Avevo riconosciuto quell’affare e l’effetto era stato come un pugno alla bocca dello stomaco. — Un tappeto volante.
L’ologramma di Martin Sileno si schiarì la gola come per sputare. — Non un tappeto volante — brontolò. — Il tappeto volante!
Arretrai di un passo. Quel tappeto era pura leggenda e io ci stavo quasi sopra.
Erano esistite solo alcune centinaia di tappeti volanti e quello era il primo, creato da Vladimir Sholokov, studioso di lepidotteri e ingegnere di sistemi EM, poco dopo la distruzione della Vecchia Terra, quando lo scienziato, già settantenne, si era follemente invaghito della nipote Alotila ancora ragazzina e aveva inventato quel marchingegno per conquistarne il cuore. Dopo un interludio appassionato, la ragazzina aveva respinto il vecchio Sholokov, che si era suicidato sulla Nuova Terra solo qualche settimana dopo il perfezionamento dell’attuale motore Hawking. Il tappeto era andato perduto per secoli, finché Mike Osho non l’aveva comprato al Mercato Carvnel e l’aveva portato su Patto-Maui, usandolo col suo commilitone Merin Aspic in quella che sarebbe stata un’altra leggendaria storia d’amore, la relazione tra Merin e Siri. Naturalmente questa seconda leggenda era entrata nei Canti di Martin Sileno, perché, se vi si prestava fede, Siri era la nonna del Console. Nei Canti, il Console dell’Egenomia aveva usato proprio quel tappeto hawking (con l’h minuscola perché prendeva nome dal falco terrestre e non da Hawking, lo scienziato pre-Egira il cui lavoro aveva portato al superamento del muro della luce, grazie al motore interstellare migliorato) per attraversare Hyperion in un’ultima leggenda, l’epico volo dalla Valle delle Tombe del Tempo alla città di Keats per liberare proprio la nave in cui ci trovavamo e riportarla nella valle.
Piegai il ginocchio e toccai con reverenza il tappeto.
— Cristiddio — disse Sileno — è solo un merdoso tappeto. Anche brutto, per giunta. A casa mia non lo terrei… fa a pugni con tutto.
Alzai gli occhi.
— Sì — disse A. Bettik — è proprio quel tappeto.
— Funziona ancora? — domandai.
A. Bettik si mise in ginocchio accanto a me e toccò l’aggrovigliato disegno. Il tappeto divenne rigido come un’asse e si librò a dieci centimetri dal pavimento.
Scossi la testa. — Non ho mai capito… I sistemi EM su Hyperion non funzionano a causa delle anomalie del campo magnetico locale…
— I grossi sistemi EM — precisò, brusco, Martin Sileno. — Veicoli elettromagnetici. Chiatte a levitazione. Roba grossa. Il tappeto funziona. Ed è stato migliorato.
Inarcai il sopracciglio. — Migliorato?
«Sempre gli Ouster» intervenne la nave. «Non ricordo bene, ma hanno armeggiato in un mucchio di cose, quando andammo da loro, due secoli e mezzo fa.»
— Ah, certo — dissi. Mi alzai e con la punta del piede diedi un colpetto al leggendario tappeto: ondeggiò avanti e indietro, come fissato su solide molle, ma rimase librato dov’era. — D’accordo — dissi — abbiamo il tappeto volante di Merin e di Siri, che, se ricordo la storia, volava a circa venti chilometri all’ora…
— Ventisei chilometri, velocità massima — precisò A. Bettik.
Annuii e colpii di nuovo il tappeto. — Ventisei chilometri, con un buon vento a favore. E la Valle delle Tombe del Tempo quanto dista da qui?
«1689 chilometri» rispose la nave.
— E quanto tempo abbiamo, prima che Aenea esca dalla Sfinge?
— Venti ore — rispose Martin Sileno. Probabilmente si era stancato dell’immagine di se stesso più giovane, perché adesso la proiezione olografica era quella del vecchio che avevo visto la sera prima, poltrona a cuscino d’aria e tutto il resto.
Guardai il cronometro da polso. — Sono in ritardo — dissi. — Avrei dovuto iniziare il volo un paio di giorni fa. — Mi accostai di nuovo al pianoforte. — E anche se fossi partito allora? Quella è la nostra arma segreta? Possiede forse un supercampo di difesa che protegga me e la bambina dai raggi e dai proiettili delle Guardie Svizzere?
— No — disse A. Bettik. — Non ha alcuna capacità difensiva, a parte un campo di contenimento per deviare il vento e tenere al loro posto i passeggeri.
Scrollai le spalle. — Allora cosa faccio? Porto nella valle il tappeto e offro alla Pax un baratto? Un vecchio tappeto hawking in cambio della bambina?
A. Bettik rimase in ginocchio accanto al tappeto sospeso a mezz’aria. Continuò ad accarezzare il tessuto sbiadito. — Gli Ouster lo hanno modificato in modo da mantenere più a lungo la carica… fino a mille ore.
Annuii. Fantastica tecnologia dei superconduttori, ma del tutto irrilevante, nel nostro caso.
— E ora vola a più di trecento all’ora — continuò l’androide.
Mi mordicchiai il labbro. Così potevo arrivare laggiù l’indomani. Se decidevo di stare seduto su un tappeto volante per cinque ore e mezzo. E poi?
— Pensavo che dovevamo portarla via su questa nave — dissi. — Farla uscire dal sistema di Hyperion…
— Sì — disse Martin Sileno, con voce a un tratto stanca come l’aspetto dell’immagine olografica — ma prima devi portarla alla nave!
Mi allontanai dal pianoforte, mi fermai accanto alla scala e mi girai di colpo verso l’androide, l’ologramma e il tappeto. — Voi due non volete proprio capire, vero? — dissi, con voce più alta e più aspra di quanto non volessi. — Quelle sono Guardie Svizzere! Se pensate che il maledetto tappeto mi possa far passare sotto i loro radar, i rivelatori di movimento e gli altri sensori, siete pazzi. Sarei solo un facile bersaglio che svolazza a trecento all’ora. Credetemi, i grugniti delle Guardie Svizzere… per non parlare dei pulsorazzi delle pattuglie aeree… per non parlare delle navi torcia in orbita… colpirebbero quell’affare in un nanosecondo.
Esitai, li scrutai a occhi socchiusi. — A meno che non ci sia qualche altra cosa di cui mi avete tenuto all’oscuro…
— Certo che c’è — disse Martin Sileno. Riuscì a rivolgermi uno stanco sorriso da satiro. — Certo che c’è.
— Portiamo il tappeto alla finestra della torre — disse A. Bettik. — Dovrà imparare a manovrarlo.
— Adesso? — dissi piano. Già sentivo il cuore martellare.
— Adesso — confermò Martin Sileno. — Dovrai essere già esperto nel manovrarlo, domani alla partenza, ore zero-tre-zero-zero.
— Sul serio? — replicai, fissando il leggendario tappeto e provando una crescente sensazione del tipo: "È tutto vero… forse domani sarò morto".
— Sul serio — confermò Martin Sileno.
A. Bettik disattivò il tappeto e lo arrotolò. Seguii l’androide giù per la scaletta a chiocciola, nel corridoio, sulla scala della torre. Fuori il sole splendeva. Mio Dio, pensai, mentre l’androide srotolava il tappeto sul davanzale di pietra e lo riattivava. C’era sempre un bel salto, fino alle pietre del cortile. Mio Dio, pensai di nuovo, sentendo nelle orecchie le mie stesse pulsazioni. Non c’era traccia dell’ologramma del vecchio poeta.
A. Bettik mi invitò a salire sul tappeto librato a mezz’aria. — Verrò con lei per il primo volo — disse con calma. La brezza fece frusciare le foglie del vicino chalma.
Mio Dio, pensai per l’ultima volta. Mi arrampicai sul davanzale e da lì sul tappeto volante.