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Quando da bambino ascoltavo l’infinita serie di versi di Nonna, chiedevo sempre che mi ripetesse un brano che iniziava così: "Secondo alcuni il mondo finirà nel fuoco, / secondo alcuni finirà nel ghiaccio". Nonna non conosceva il nome del poeta (riteneva che fosse un poeta pre-Egira, un certo Frost, ma anche alla mia tenera età pensavo che quel nome, Gelo, fosse troppo ingegnoso per essere vero, visto che la poesia parlava di fuoco e di ghiaccio), ma la sola idea di un mondo che terminasse o nel fuoco o nel ghiaccio rimase a lungo con me, resistente come il monotono ritmo di quei semplici versi.

Pareva che per me il mondo dovesse terminare nel ghiaccio.

Era buio, sotto la muraglia di ghiaccio, e il freddo era talmente intenso che non trovo parole adeguate a descriverlo. Avevo già sofferto bruciature (una volta, a bordo di una chiatta che risaliva il Kans, l’esplosione di un fornello a gas mi aveva provocato leggere ma dolorose ustioni alle braccia e al torace) perciò conoscevo l’intensità del fuoco. Quel freddo mi pareva altrettanto intenso, una sorta di lenta fiamma che mi tagliava a brandelli le carni.

Mi ero legato la fune intorno al torace, sotto le braccia, e la forte corrente ben presto mi travolse, cosicché mi ritrovai trascinato, piedi in avanti, in un nero condotto; tenni alzate le mani per impedire al viso di urtare contro creste di ghiaccio duro come pietra, con il torace e le ascelle segati dalla stretta corda che A. Bettik, mollandola, usava come freno. Ben presto ebbi le ginocchia lacerate da ghiaccio affilato come lama di rasoio, perché la corrente continuava a scagliarmi sempre più in alto contro l’irregolare soffitto di ghiaccio, come se mi trascinasse su di un terreno sassoso.

Mi ero messo le calze, pensando più al ghiaccio che al freddo, ma quelle facevano ben poco per proteggermi i piedi, mentre sbattevo contro le creste. Portavo anche la biancheria, che però non mi proteggeva dagli aghi di gelo. Intorno al collo avevo la cinghia del ricetrasmettitore, col microfono premuto contro la gola per trasmettere a voce o con le semplici vibrazioni della laringe e i tappi auricolari nelle orecchie. A tracolla, strettamente assicurata con nastro adesivo, portavo la sacca impermeabile con il plastico, i detonatori, una fune e due razzi, aggiunti all’ultimo momento. Legata al polso portavo la piccola torcia laser, il cui raggio sottile tagliava l’acqua nera e si rifletteva sul ghiaccio, ma illuminava ben poco. L’avevo adoperata al risparmio, dopo il Labirinto su Hyperion: le torce manuali erano più utili se regolate sul raggio largo e consumavano meno carica. Il mio laser era quasi inutile come arma da taglio, ma mi sarebbe servito per praticare nel ghiaccio i fori per il plastico.

Se fossi vissuto abbastanza a lungo da praticare fori.

L’unica logica dietro la pazzia di lasciarmi trascinare in quel fiume sotterraneo era quel po’ di conoscenza ricavata dall’addestramento come Guardia Nazionale sull’Artiglio di Ghiaccio nel continente Ursus. Laggiù, nel mar glaciale Zampa d’Orso, dove il ghiaccio si scioglieva e tornava a solidificarsi quasi quotidianamente durante la breve estate antartica, era altissimo il rischio di sprofondare nella sottile crosta ghiacciata. Avevamo imparato che, anche se l’acqua ci avesse trascinati sotto una crosta molto più spessa, c’era sempre un sottile strato d’aria fra il mare e il soffitto di ghiaccio. Dovevamo sollevarci verso quello strato d’aria, sporgere il naso anche se il resto del viso restava sott’acqua e muoverci fino a trovare una fenditura o una parte abbastanza sottile da rompere per venire fuori.

Questa era stata la teoria. L’unica vera occasione per metterla alla prova mi si era presentata mentre facevo parte di una squadra di ricerca che si allargava a ventaglio per trovare il guidatore di uno scarabeo che era uscito dal veicolo, era precipitato a neppure due metri dal punto dove il ghiaccio sorreggeva le quattro tonnellate di macchinario ed era scomparso. L’avevo ritrovato io, a circa seicento metri dallo scarabeo e dal ghiaccio sicuro. Per respirare, aveva sfruttato quella tecnica. Il suo naso premeva ancora contro il ghiaccio troppo spesso… ma la sua bocca era spalancata sott’acqua, il suo viso era bianco come la neve che spazzava il ghiacciaio e i suoi occhi erano congelati e duri come palline di ferro. Cercai di non pensare a quell’esperienza, mentre mi facevo strada verso la superficie lottando contro la corrente, davo strattoni alla corda per segnalare ad A. Bettik di fermarmi e raschiavo il viso contro le schegge di ghiaccio per cercare aria.

C’era un’intercapedine di parecchi centimetri fra l’acqua e il ghiaccio… in massima parte frutto di fenditure che risalivano nell’aria ghiacciata come crepacci al contrario. Aspirai nei polmoni l’aria gelida, con il raggio della torcia laser illuminai le fenditure, poi spostai il raggio avanti e indietro lungo lo stretto tunnel. «Mi riposo un minuto» ansimai. «Sto bene. Quanta strada ho percorso?»

«Circa otto metri» mi mormorò nell’orecchio la voce di A. Bettik.

«Merda» borbottai, dimenticando che l’apparecchio avrebbe trasmesso anche i suoni subvocalici. Mi erano parsi almeno venti o trenta metri. «Bene» trasmisi «sistemerò qui la prima carica.»

Riuscivo ancora a flettere le dita quanto bastava per commutare la torcia laser sull’intensità massima e scavare nel fianco della fenditura una piccola nicchia. Avevo premodellato il plastico e ora lo lavorai, lo sagomai e lo indirizzai. Il materiale era un esplosivo "sagomato", nel senso che l’esplosione si sarebbe scaricata nell’esatta direzione da me predisposta, se i preparativi erano stati eseguiti nel modo corretto. In questo caso avevo fatto in precedenza gran parte del lavoro, sapendo che l’esplosione andava diretta verso l’alto e all’indietro verso la parete di ghiaccio alle mie spalle. Ora puntai precisi filamenti della forza esplosiva: la stessa tecnologia che consentiva a una scarica al plasma di tagliare una lastra d’acciaio come un chiodo rovente lasciato cadere sul burro avrebbe mandato quei filamenti di plasma a trapassare l’incredibile massa di ghiaccio dietro di me. Avrebbe dovuto tagliare gli otto metri di muraglia in piccoli pezzi che sarebbero caduti nel fiume. Contavamo sul fatto che negli anni del terraforming i generatori avessero aggiunto all’atmosfera una quantità d’azoto e d’anidride carbonica sufficiente a impedire che lo scoppio si tramutasse in una massiccia esplosione di ossigeno incendiato.

Poiché sapevo esattamente dove volevo dirigere la forza dello scoppio, la modellatura delle cariche richiese meno di quarantacinque secondi e ben poca destrezza manuale. Tuttavia, quando le minuscole cariche del detonatore furono a posto, tremavo e avevo quasi perduto la sensibilità. Poiché sapevo che la ricetrasmittente non aveva difficoltà a penetrare quella quantità di ghiaccio, impostai nei detonatori il codice prefissato e non usai la miccia contenuta nella sacca.

«A posto» ansimai nel microfono. «Dài corda.»

La folle corsa ricominciò, con la corrente che mi tirava in basso nelle tenebre e mi sbatteva di nuovo contro il soffitto di ghiaccio; e poi l’affannosa ricerca d’aria, gli ordini trasmessi in ansiti, la lotta per vedere e lavorare, mentre venivo prosciugato delle ultime tracce di calore.

Il ghiaccio continuò per altri trenta metri… proprio il limite estremo perché secondo me il plastico avesse l’effetto voluto. Sistemai le cariche in altri due punti, un crepaccio e uno stretto foro scavato nel solido soffitto. Nell’ultimo caso avevo le mani completamente intirizzite (era come se portassi grossi guanti di ghiaccio), ma riuscii a indirizzare l’esplosione a monte e a valle più o meno secondo i giusti vettori. Se presto non ci fosse stata una fine a quella muraglia di ghiaccio, tutto il mio lavoro sarebbe stato inutile. A. Bettik e io avevamo previsto che ci sarebbe toccato usare la scure per spaccare una parte del ghiaccio, ma non avremmo potuto farci strada in tutti quei metri di roba.

Dopo quarantun metri emersi nell’aria. Sulle prime ebbi paura che si trattasse solo di un altro crepaccio, ma poi usai la torcia laser e il raggio mostrò una caverna più lunga e più larga di quella dove c’era la zattera. Avevamo discusso questa possibilità e deciso che non avremmo fatto esplodere le cariche, se avessi visto la fine di un’eventuale seconda caverna; ma quando abbassai il raggio della torcia per seguire il nero corso d’acqua, illuminando anche lì nebbia e stalattiti, vidi che il fiume, largo in quel punto circa trenta metri, faceva una curva e scompariva alcune centinaia di metri più a valle. Anche qui, come nell’altra caverna, non c’erano rive né tunnel visibili, ma almeno il fiume continuava a scorrere.

Avrei voluto vedere che cosa faceva il fiume al di là della curva, ma non avevo né la corda né il calore corporeo necessari per nuotare fin lì, guardare e tornare indietro vivo. «Riportami indietro!» ansimai.

Per i due minuti seguenti rimasi appeso alla fune (o cercai di restare appeso: non riuscivo più a usare le mani) mentre l’androide lottava contro la terribile corrente e mi tirava, fermandosi di tanto in tanto, quando mi tenevo a galla sulla schiena e inalavo la gelida aria dei crepacci. Poi la corsa ricominciava.

Se nell’acqua ci fosse stato A. Bettik (o anche solo la bambina) e avessi dovuto tirare io la fune, non sarei riuscito a tirare né l’uno né l’altra in un tempo neppure quattro volte superiore a quello che l’androide impiegò per tirare fuori me. A. Bettik era robusto, lo sapevo, ma non certo un superuomo, non possedeva una miracolosa forza androide, eppure quel giorno rivelò una forza sovrumana. Posso solo immaginare le riserve d’energia a cui attinse per tirarmi sulla zattera così rapidamente. Lo aiutai come potevo, tagliandomi le mani nel tentativo di fare leva contro il soffitto di ghiaccio e di tenere lontano le stalattiti più acuminate, scalciando senza molta forza nella corrente.

Quando con la testa sbucai di nuovo fuor d’acqua e vidi l’alone di lanterna e le sagome dei miei due compagni protese verso di me, non avevo la forza d’alzare le braccia né di agevolarli, mentre mi tiravano di peso sulla zattera. A. Bettik mi prese per le ascelle e mi sollevò gentilmente dall’acqua. Aenea m’afferrò per le gambe gocciolanti e insieme mi portarono verso prua. Nella mia confusione mentale ricordai la chiesa cattolica presso la quale a volte ci fermavamo nel villaggio di Latmos, nella palude settentrionale, dove compravamo cibo e semplici provviste da pastori, e uno dei grandi dipinti religiosi sulla parete sud di quella chiesa: Cristo deposto dalla croce, le braccia di uno dei discepoli sotto le ascelle, i piedi feriti sorretti dalla Vergine.

"Non montarti la testa" mi disse una vocina non invitata, facendosi largo nella nebbia che m’avvolgeva la mente. Parlava come Aenea.

Mi trasportarono nella tenda incrostata di brina, dove avevano preparato la termocoperta, sopra una pila di due sacchi a pelo e un sottile stuoino. Il termocubo brillava accanto a quel nido. A. Bettik mi tolse di dosso la biancheria zuppa d’acqua, la sacca con i razzi e la ricetrasmittente. Mi levò dal polso la torcia laser e la mise nel mio zaino; m’infilò nel sacco a pelo, m’avvolse nella termocoperta e aprì un medipac. Mi applicò appiccicosi contatti biomonitor sul torace, sull’interno delle cosce, sul polso sinistro e sulla tempia; guardò un attimo i diagrammi e poi, come concordato, m’iniettò una unità di adrenonitrotalina.

"Sarai già stufo di tirarmi a secco" avrei voluto dirgli; ma le mascelle e la lingua e l’apparato vocale non mi soccorsero. Ero talmente gelato da non tremare nemmeno. La consapevolezza era un filo sottile che mi collegava alla luce e ondeggiava nel vento gelido che soffiava dentro di me.

A. Bettik si chinò più vicino. — Signor Endymion, le cariche sono sistemate?

Riuscii a rispondere con un cenno. Non potevo fare altro: e anche quel semplice cenno fu come muovere una goffa marionetta.

Aenea s’inginocchiò accanto a me. Disse ad A. Bettik: — Lo tengo d’occhio io. Tu portaci fuori di qui.

L’androide lasciò la tenda per allontanare la zattera dalla parete di ghiaccio e spingerla a monte. Dopo l’energia che aveva speso per vincere la corrente e tirarmi a bordo, non riuscivo a credere che trovasse ancora la forza di spingere a monte l’intera zattera per la distanza necessaria.

Cominciammo a muoverci. Dall’apertura della tenda vedevo la lanterna brillare nella nebbia e il lontano soffitto. La nebbia e le stalattiti di ghiaccio si muovevano lentamente attraverso il piccolo triangolo di riferimento: mi pareva di scrutare da un foro isoscele il nono girone dell’inferno dantesco.

Aenea sorvegliava i monitor del semplice medipac. — Raul… Raul… — mormorò.

La termocoperta tratteneva il calore prodotto dal mio corpo, ma mi sentivo come se il calore prodotto fosse zero. Le ossa mi dolevano per il gelo, ma le terminazioni nervose, gelate, non trasmettevano il dolore. Ero molto, molto assonnato.

Aenea mi svegliò a scossoni. — Stai sveglio, maledizione!

"Ci proverò" le risposi col pensiero. Era una bugia, lo sapevo. Volevo solo dormire.

— A. Bettik! — gridò Aenea e mi resi conto vagamente che l’androide entrava nella tenda e consultava il medipac. Le parole dei due erano per me un remoto ronzio privo di significato.

Ero lontano, lontanissimo, quando sentii confusamente un corpo accanto al mio. A. Bettik era andato di nuovo a spingere controcorrente la zattera appesantita dalla brina. La piccola Aenea era strisciata accanto a me sotto la termocoperta e nel sacco a pelo. All’inizio non mi accorsi se il calore del suo magro corpo attraversava gli strati di ghiaccio che mi avevano invaso, ma ero consapevole del suo respiro, dei suoi gomiti appuntiti e delle sue ginocchia, della sua intrusione nello spazio che mi racchiudeva.

"No, no" pensai, rivolgendomi a lei. "Sono io il protettore… l’uomo forte, ingaggiato per salvarti." La gelida sonnolenza non mi consentiva di parlare.

Non ricordo se mi circondò con le braccia. So d’avere avuto la stessa reazione di un tronco congelato, la stessa ricettività di una delle stalattiti che si muovevano nel mio campo visivo triangolare, illuminate dal basso dal bagliore della lanterna e con la parte superiore perduta come la mia mente nel buio e nella nebbia.

Alla fine cominciai a sentire un po’ del calore emanato dal suo corpicino. Avevo una percezione confusa del calore, ma la pelle cominciò a formicolarmi: aghi di dolore, dove il calore passava dalla sua pelle alla mia. Se avessi potuto parlare, le avrei detto di scostarsi, così avrei potuto sonnecchiare nell’insensibilità.

Qualche tempo dopo… potevano essere trascorsi quindici minuti o due ore… A. Bettik tornò nella tenda. Ero abbastanza cosciente da capire che aveva seguito il nostro piano: "ancorare" la zattera, mediante le pertiche e il timone, nella strettoia a monte del fiume, sotto la parte visibile dell’arcata del teleporter. Secondo la nostra teoria, al momento dell’esplosione l’arcata metallica ci avrebbe forse protetti dalla valanga e dalla cascata di ghiaccio.

"Fai esplodere le cariche" volevo dirgli. Ma l’androide, invece di inviare il segnale in codice, si spogliò, restando con quei suoi buffi calzoncini gialli tropicali, e strisciò sotto la termocoperta, con la bambina e me.

La situazione potrebbe sembrare comica (forse lo sembrerà davvero, a chi leggerà queste righe) ma niente in vita mia mi ha profondamente commosso come quel gesto: la disponibilità dei miei due compagni di viaggio a condividere con me il loro calore. Neppure la coraggiosa e temeraria impresa di salvarmi dall’oceano violaceo mi aveva toccato fino a quel punto. Restammo lì distesi… Aenea alla mia sinistra, col braccio intorno a me; A. Bettik alla mia destra, col corpo rannicchiato per ripararmi dal freddo che filtrava dall’angolo della termocoperta. Tra qualche minuto avrei pianto per il dolore causato dal ritorno della circolazione del sangue, per la sofferenza della carne che si scongelava; ma in quel momento piansi per l’intimo dono del loro calore, mentre il tepore vitale fluiva in me dalla bambina e dall’uomo dalla pelle azzurra, fluiva in me dal loro sangue e dalla loro carne.

Piango adesso, nel raccontarlo.

Non so quanto tempo restammo in quella posizione. Non l’ho mai domandato e loro non ne hanno mai parlato. Sarà stata almeno un’ora. Parve un’intera vita di tepore e di sofferenza e d’kresistibile gioia per il ritorno della vita.

A un certo punto cominciai a rabbrividire, poi a tremare e poi fui in preda a un tremito violento, come per una crisi. Allora i miei amici mi tennero fermo, non mi permisero di sottrarmi al calore. Credo che a quel punto anche Aenea piangesse, ma non gliel’ho mai chiesto e in seguito lei non ne parlò mai.

Alla fine, dopo che il dolore e la paralisi mi erano in gran parte passati, A. Bettik scivolò fuori della comune protezione, consultò il medipac e si rivolse alla bambina in un linguaggio che potevo di nuovo capire: — Tutte le spie sul verde — disse piano. — Nessun congelamento permanente. Nessun danno permanente.

Poco dopo Aenea uscì da sotto la coperta e mi aiutò a mettermi seduto, sistemandomi dietro la schiena e la testa due zaini incrostati di brina. Mise a bollire acqua sul termocubo, preparò tazze di tè fumante e me ne accostò una alle labbra. A quel punto potevo muovere le mani, perfino flettere le dita, ma il dolore era troppo forte per consentirmi di reggere un qualsiasi oggetto.

— Signor Endymion — disse A. Bettik, accucciato sull’ingresso della tenda — sono pronto a trasmettere il codice di detonazione.

Risposi con un cenno d’assenso.

— Potrebbe verificarsi una pioggia di detriti, signore.

Ripetei il cenno d’assenso. Avevamo già parlato di quel rischio. Le cariche sagomate avrebbero dovuto frantumare solo le pareti di ghiaccio davanti a noi, ma le risultanti vibrazioni sismiche avrebbero potuto far crollare l’intero cumulo d’atmosfera ghiacciata, bloccare la zattera contro il basso fondale e seppellirci vivi. Avevamo giudicato che valesse la pena correre il rischio. Ora lanciai un’occhiata all’interno della microtenda contornata di brina e sorrisi al pensiero che quel misero riparo potesse offrirci protezione. Annuii per la terza volta, esortando A. Bettik a procedere.

Il rumore dell’esplosione fu più soffocato di quanto non m’aspettassi, inferiore a quello della concomitante caduta di blocchi di ghiaccio e di stalattiti, a quello del terrificante sollevamento del fiume stesso. Per un secondo pensai che l’acqua ci avrebbe sollevati e schiacciati contro il soffitto, mentre le onde, spinte dalla pressione e spostate dal ghiaccio, invadevano la zattera. Ci rannicchiammo intorno al piccolo focolare di pietra e cercammo di evitare la gelida acqua, cavalcando i tronchi scalpitanti come passeggeri di una scialuppa squassata dalla burrasca.

Alla fine le ondate e i rombi si calmarono. I violenti scossoni avevano rotto il timone e sbattuto via una delle pertiche, ci avevano spostati dal nostro sicuro rifugio e ci avevano spinti a valle fino alla muraglia di ghiaccio.

Per meglio dire, fin dove poco prima c’era la muraglia di ghiaccio.

Le cariche avevano eseguito il loro lavoro come avevamo progettato: ora la caverna era bassa e frastagliata ma, dopo un esame alla luce della torcia laser, pareva sbucare nel canale aperto. Aenea lanciò un grido d’esultanza. A. Bettik mi diede una pacca sulla schiena. Ammetto con vergogna che forse piansi di nuovo.

Non era una facile vittoria, come parve sulle prime. Blocchi e colonne di ghiaccio ostruivano ancora parte del passaggio; anche quando i lastroni diminuirono l’impeto iniziale verso la breccia, l’avanzata con l’unica pertica rimasta risultò difficile e richiese frequenti pause per consentire ad A. Bettik di frantumare a colpi d’ascia i vari ostacoli.

Dopo mezz’ora di fatica dell’androide, barcollai fin sul bordo della zattera e indicai a gesti che era il mio turno di usare l’ascia.

— È proprio sicuro, signor Endymion? — obiettò A. Bettik.

— Proprio… sicuro… — risposi, formulando con cautela le parole e costringendo la lingua e le labbra a pronunciarle correttamente.

Il lavoro con l’ascia ben presto mi scaldò al punto da eliminare gli ultimi tremiti. Sentivo le ammaccature e le scorticature che mi ero procurato contro il soffitto di ghiaccio, ma al dolore avrei pensato più tardi.

Alla fine ci aprimmo un varco tra le ultime lastre di ghiaccio e ci trovammo nella corrente aperta. Tutt’e tre battemmo per un momento le mani inguantate nei calzini, poi tornammo a rannicchiarci intorno al termocubo e a illuminare con le torce il panorama ai lati, mentre la zattera continuava ad avanzare.

Il nuovo panorama era identico al precedente: pareti verticali di ghiaccio a destra e a sinistra, stalattiti che minacciavano di cadérci addosso da un momento all’altro, rapidi flutti d’acqua nera.

— Forse il fiume resterà aperto fino alla prossima arcata — disse Aenea. Il suo alito condensato rimase sospeso nell’aria come una promessa.

Ci alzammo tutti, mentre la zattera seguiva la curva del fiume sepolto nel ghiaccio. Per un momento ci fu confusione, mentre A. Bettik usava la pertica e io il timone spezzato, per evitare che la zattera urtasse contro la parete di sinistra. Alla fine ci ritrovammo di nuovo al centro della corrente e la velocità della zattera aumentò.

— Oh… — si lasciò sfuggire Aenea, ferma a prua. Il suo tono bastò a farci capire tutto.

Il fiume proseguiva ancora per sessanta metri, si restringeva e terminava contro un’altra muraglia di ghiaccio.


Aenea ebbe l’idea di mandare avanti in avanscoperta il braccialetto comlog. — Ha la microcamera — disse.

— Ma noi non abbiamo il monitor — obiettai. — E non posso mandare alla nave i segnali video…

Aenea già scuoteva la testa. — No, ma il comlog stesso può riferirci ciò che vede.

— Be’, sì — convenni; finalmente avevo capito. — Ma senza avere alle spalle PIA della nave è abbastanza intelligente da capire ciò che vede?

— Domandiamoglielo — suggerì A. Bettik, che aveva recuperato dal mio zaino il braccialetto comlog.

Lo attivammo e ponemmo la domanda. Il comlog ci assicurò, nella quasi arrogante voce della nave, che era del tutto capace di analizzare i dati visivi e di trasmetterci l’analisi. Anche se non galleggiava e non aveva mai imparato a nuotare, era, ci assicurò, assolutamente impermeabile.

Aenea usò la torcia laser per tagliare un pezzo di tronco, vi piantò dei chiodi e dei perni ad anello per fissare il braccialetto e anche un moschettone per la fune. Annodò la corda con un doppio nodo da marinaio.

— Avremmo dovuto usare questo sistema anche per la prima parete — dissi.

Aenea sorrise. Il suo cappello era bordato di brina. Veri e propri ghiaccioli pendevano dalla stretta tesa. — Il braccialetto forse avrebbe avuto qualche difficoltà a sistemare le cariche — disse Aenea. Mi accorsi che era sfinita.

— Buona fortuna — dissi come uno sciocco mentre lanciavamo nel fiume il pezzo di tronco col braccialetto. Il comlog ebbe la buona grazia di non rispondere. Quasi subito fu trascinato sotto la parete di ghiaccio.

Spostammo a prua il termocubo e ci accucciammo lì vicino, mentre A. Bettik alava la corda. Alzai il volume del ricevitore e nessuno di noi aprì bocca, mentre la corda si svolgeva e la voce metallica del comlog faceva rapporto.

«Dieci metri. Crepacci in alto, nessuno più largo di sei centimetri. Il ghiaccio continua.»

«Venti metri. Il ghiaccio continua.»

«Cinquanta metri. Ghiaccio.»

«Settantacinque metri. La fine del ghiaccio non è in vista.»

«Cento metri. Ghiaccio.» Il comlog era giunto alla fine della corda. Annodammo al capo il nostro ultimo pezzo di fune.

«Centocinquanta metri. Ghiaccio.»

«Centottanta metri. Ghiaccio.»

«Duecento metri. Ghiaccio.»

Avevamo terminato corda e speranza. Cominciai a ritirare il comlog. Anche se ora le mie mani erano sensibili e goffamente funzionali, avevo difficoltà a tirare controcorrente il braccialetto in pratica privo di peso, perché la trazione dell’acqua era forte e la corda era appesantita dal ghiaccio. Ancora una volta non riuscii a immaginare quale fatica avesse fatto A. Bettik per tirare a bordo me.

La fune era quasi troppo rigida per farne una matassa. Quando finalmente tirammo a bordo il comlog, fummo obbligati a rompere il ghiaccio che lo rivestiva. «Anche se il freddo riduce il mio alimentatore di corrente e il ghiaccio copre i miei visori» cinguettò il comlog «sono in grado di continuare l’esplorazione e disponibile a farlo.»

— No, grazie — rispose educatamente A. Bettik. Spense l’aggeggio e me lo restituì. Anche con i calzini a mo’ di guanti, sentii che il metallo era freddissimo. Lasciai subito cadere nello zaino il braccialetto.

— Non avremmo avuto plastico sufficiente per cinquanta metri di ghiaccio — dissi. Avevo parlato con voce assolutamente calma (avevo anche smesso di tremare) e ne capii il motivo: la cristallina e ineccepibile chiarezza della sentenza di morte appena scesa su di noi.

C’era, me ne rendo conto adesso, un’altra ragione per quell’oasi di calma in un deserto di sofferenza e di disperazione. Il calore. Il calore che ben ricordavo. Il flusso di vita da quei due a me, l’accettazione da parte mia, il sacro senso di comunione. Ora, nel buio rotto solo dalla luce della lanterna, procedemmo con l’urgente compito di tentare di restare vivi, discutemmo soluzioni impossibili come l’uso della carabina al plasma per aprirci una via nel ghiaccio, scartammo soluzioni impossibili, esaminammo altri piani impossibili. Ma nel frattempo, in quel gelido e buio abisso di confusione e di crescente disperazione, il nucleo di calore che era stato alitato dentro di me da quei due… sì, amici… mi mantenne calmo, proprio come il loro contatto umano mi aveva tenuto in vita. Nei difficili giorni a venire (perfino adesso, mentre scrivo queste righe, mentre m’aspetto che a ogni respiro giunga, furtiva, la morte mediante cianuro) il ricordo di quel calore condiviso, di quella prima totale comunione di vita, mi mantiene calmo e saldo nella tempesta delle umane paure.

Decidemmo di spingere di nuovo la zattera a monte per tutto il nuovo canale, alla ricerca di un crepaccio, una nicchia, un pozzo, che ci fossero sfuggiti. Pareva un’impresa disperata, ma forse un briciolo meno disperata di lasciare che la zattera continuasse a premere contro quella terminale cascata di ghiaccio.

Trovammo la fenditura proprio sotto il punto dove il fiume ci aveva costretto a piegare a destra. Evidentemente eravamo stati troppo impegnati a tenerci a distanza dalla parete di ghiaccio e a tornare al centro della corrente, per notare il crepaccio stretto e frastagliato lungo la muraglia alla nostra sinistra. Anche se cercavamo con diligenza, senza il raggio compatto della torcia laser non avremmo mai scoperto la stretta apertura: la luce della lanterna, riflessa dalle sfaccettature cristalline e dalle stalattiti, la rendeva invisibile. Il buon senso ci disse che si trattava semplicemente di un’altra piega di ghiaccio, l’equivalente orizzontale dei crepacci da me trovati nel soffitto: uno spazio per respirare che non portava da nessuna parte. Il nostro bisogno di speranza pregò che il buon senso sbagliasse.

L’apertura (o piega o qualsiasi cosa fosse) era larga meno di un metro e si apriva all’aria quasi due metri sopra il fiume. Ci accostammo e alla luce della torcia laser vedemmo che l’apertura o si restringeva e terminava, oppure curvava dopo meno di tre metri. Il buon senso ci disse che quella era la fine del vicolo cieco di ghiaccio. Anche stavolta lasciammo perdere il buon senso.

Mentre Aenea faceva forza sulla pertica per mantenere ferma la zattera malgrado il ribollire dell’acqua, A. Bettik mi sollevò. Usai l’estremità biforcuta del martello come attrezzo da scalata: la piantai profondamente nel pavimento di ghiaccio della stretta gola e mi tirai su con la velocità della disperazione. Una volta carponi sul ripiano, ansimante e sfinito, ripresi fiato, mi alzai e rivolsi un gesto agli altri due più in basso. Avrebbero aspettato il mio rapporto.

Lo stretto tunnel di ghiaccio piegò bruscamente a destra. Sentendo aumentare la speranza, illuminai con la torcia laser il nuovo corridoio. Un’altra parete di ghiaccio riflette il raggio, ma stavolta non mi parve una curva. No… un momento. Mentre m’inoltravo nel nuovo tunnel, piegato in due a causa del basso soffitto, mi accorsi che subito dopo quel punto il tunnel saliva ripidamente. Il raggio era stato riflesso da una rampa di ghiaccio. Lì non esisteva la percezione della profondità.

M’infilai nello spazio ristretto, strisciai carponi per una decina di metri, raschiando con gli stivali il ghiaccio frastagliato. Pensai al negozio della deserta Nuova Gerusalemme dove avevo "comprato" quegli stivali (lasciando in cambio sul bancone le pantofole d’ospedale e una manciata di banconote provvisorie di Hyperion) e cercai di ricordare se nel reparto sportivo c’erano stati in vendita ramponi da ghiaccio. Troppo tardi, ormai.

A un certo punto fui costretto a strisciare sullo stomaco, di nuovo sicuro che il tunnel sarebbe terminato nel giro di un metro; ma stavolta il tunnel girò bruscamente a sinistra e continuò, dritto e in piano, nel cuore del ghiacciaio, per altri venti metri, prima di deviare a destra e salire di nuovo. Ansimante, scosso dall’eccitazione, corsi, scivolai e a colpi di martello tornai indietro verso l’apertura. Il raggio della torcia laser traeva dal ghiaccio innumerevoli riflessi della mia faccia eccitata.

Appena ero scomparso alla loro vista, Aenea e A. Bettik avevano iniziato a impacchettare l’equipaggiamento necessario. Aenea era già sul ripiano di ghiaccio e ammonticchiava i bagagli che A. Bettik le lanciava. Ci scambiammo a gran voce suggerimenti e consigli. Ogni cosa pareva indispensabile: sacchi a pelo, termocoperta, tenda (che per la brina e per il ghiaccio formò un pacchetto grosso il triplo del normale) termocubo, provviste, bussola inerziale, armi, torce elettriche.

Alla fine gran parte dei bagagli fu sul ripiano. Discutemmo ancora (l’esercizio fisico e le sue esalazioni ci tennero caldi per un minuto) poi scegliemmo proprio l’indispensabile e ciò che poteva entrare negli zaini e nelle sacche a spalla. M’infilai nella cintura la pistola e legai allo zaino la carabina al plasma. A. Bettik accettò di portare la doppietta e mise le munizioni in cima allo zaino già pieno. Per fortuna gli zaini non contenevano vestiti (avevamo addosso tutti gli abiti disponibili) quindi vi ammassammo cibo e attrezzature. Aenea e l’androide tennero le ricetrasmittenti; io m’agganciai al polso il comlog ancora gelato. Malgrado questa precauzione, non intendevamo certo perderci di vista.

Manifestai la preoccupazione che la corrente portasse via la zattera (la pertica e i resti del timone non l’avrebbero tenuta ancorata a lungo) ma A. Bettik risolse in un attimo il problema: preparò gomene di poppa e di prua, fuse due nicchie nella parete ghiacciata e legò i cavi attorno a gallocce di solido ghiaccio.

Prima d’affrontare lo stretto cunicolo diedi un’ultima occhiata alla nostra fedele zattera, pensando che non l’avremmo più rivista. Era uno spettacolo patetico: il focolare di pietra era ancora al suo posto, ma il timone era a pezzi, l’albero maestro con la lanterna a prua era rotto e scheggiato, gli spigoli erano ammaccati e i tronchi laterali erano quasi a pezzi, la prua era inondata, l’intera imbarcazione aveva una patina di ghiaccio ed era seminascosta dai gelidi vapori che turbinavano intorno a noi. Espressi con un cenno la mia gratitudine e l’ultimo saluto al penoso relitto, mi girai e feci strada, a destra e poi in alto, spingendo avanti a me, nel tratto più basso e più stretto, il pesante zaino e la sacca rigonfia.

Avevo temuto che il tunnel terminasse qualche metro dopo il punto dove ero arrivato nell’esplorazione, ma trenta minuti di salita, strisciando e scivolando, ci portarono ad altri tunnel, ad altre curve, sempre verso l’alto. Anche se la fatica ci manteneva vivi, se non proprio caldi, ciascuno di noi sentiva nel proprio corpo i progressi del gelo. Presto o tardi la stanchezza avrebbe avuto il sopravvento: saremmo stati costretti a fermarci, a estrarre i sacchi a pelo e a scoprire se saremmo riusciti a svegliarci dopo avere dormito in quel freddo. Presto o tardi, ma non subito.

Durante una sosta per sciogliere il ghiaccio usando il raggio della torcia laser regolato alla massima ampiezza e riempire d’acqua una delle borracce, passai agli altri delle tavolette di cioccolata e dissi: — Ormai non manca molto.

— Non manca molto a che cosa? — domandò Aenea, da sotto il berretto che pareva una cresta di brina e di ghiaccio. — Ancora non possiamo essere vicino alla superficie… non ci siamo arrampicati fin lì.

— A qualcosa d’interessante — risposi. Mentre parlavo, il vapore del respiro mi si gelò sul davanti del giubbotto e sulla barba di qualche giorno. Sapevo che dalle sopracciglia mi pendevano ghiaccioli.

— D’interessante — ripeté Aenea, in tono dubitativo. Potevo capirla: finora le cose "interessanti" avevano fatto del proprio meglio per ucciderci.

Un’ora dopo, durante una pausa per cucinare un po’ di cibo sul termocubo (bisognò sistemarlo con prudenza in modo che, mentre scaldava il pentolino di stufato, non sciogliesse il pavimento) consultai la bussola inerziale per avere un’idea della strada percorsa e dell’altezza raggiunta; in quel momento A. Bettik esclamò: — Zitti!

Tutt’e tre trattenemmo il respiro per quelli che ci parvero minuti. Alla fine Aenea bisbigliò: — Che c’è? Non sento niente.

Era già un miracolo che riuscissimo a sentirci l’un l’altro, anche se gridavamo, tanto ogni testa era avvolta da sciarpe e da passamontagna ricavati alla bell’e meglio.

A. Bettik corrugò la fronte e col dito sulle labbra ci ammonì a fare silenzio. Dopo un momento bisbigliò: — Passi. Vengono da questa parte.

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