12

Dopo ore di discussioni fui mandato a dormire fino alle tre del mattino. Naturalmente non dormii affatto. Ho sempre avuto difficoltà a dormire alla vigilia di un viaggio: quella notte non chiusi occhio.

La città di cui portavo il nome era silenziosa, dopo mezzanotte; la brezza autunnale era calata e le stelle risplendevano vividamente. Per un paio d’ore rimasi in camicia da notte, ma all’una mi alzai, indossai i robusti abiti avuti la sera precedente e per la quinta o sesta volta passai in rassegna il contenuto del mio zaino.

Non c’era molto, per un’avventura così scoraggiante: un cambio d’abiti e biancheria, calze, una torcia laser, due borracce d’acqua, un coltello (ne avevo precisato il tipo) nel fodero con cinturone, una pesante giubba di tela con fodera termica, una coperta ultraleggera da usare come giaciglio, una bussola inerziale, un vecchio maglione, occhiali per la visione notturna, un paio di guanti di pelle. — Cos’altro ti servirebbe per esplorare l’universo? — borbottai tra me.

Avevo anche precisato il tipo d’indumenti che avrei indossato quel giorno: una comoda camicia di tela e un giubbotto con numerose tasche, pesanti calzoni di saia del tipo che portavo a caccia d’anatre nelle paludi, alti stivali di pelle (immaginavo che fossero così gli "stivali da bucaniere" che Nonna descriveva nelle sue storie) un pelo troppo stretti e un morbido cappello a tricorno da piegare e tenere in tasca quando non ne avevo bisogno.

Mi agganciai il cinturone col coltello, misi nel taschino la bussola, mi accostai alla finestra e rimasi a guardare le stelle che giravano sulle cime delle montagne, finché A. Bettik non venne a chiamarmi, alle due e quarantacinque.


Il vecchio poeta era sveglio, sulla sedia a cuscino d’aria, a capotavola nel piano più alto della torre. Il tetto di tela era stato aperto e si vedevano le stelle, gelide, brillanti. Fiamme guizzavano nei bracieri lungo la parete; più in alto c’erano staffe con vere torce. La colazione era già in tavola: bistecche, frutta, focacce di farina integrale con sciroppo, pane fresco; presi solo una tazza di caffè.

— Faresti meglio a mangiare — brontolò il vecchio. — Non sai quando ti toccherà il prossimo pasto.

Rimasi in piedi a fissarlo. Il vapore del caffè mi scaldava il viso. L’aria era gelida. — Se tutto va secondo i piani — dissi — in meno di sei ore sarò nella nave spaziale. Mangerò allora.

Martin Sileno sbuffò rumorosamente. — Quando mai tutto va secondo i piani, Raul Endymion?

Sorseggiai il caffè. — A proposito di piani, doveva parlarmi di quella sorta di miracolo che distrarrà le Guardie Svizzere mentre porto via la sua giovane amica.

Il vecchio poeta mi scrutò in silenzio per qualche istante. — A questo riguardo abbi fiducia in me e basta, d’accordo? — replicò poi.

Sospirai. M’aspettavo una risposta del genere. — Le cose per cui devo fidarmi sono una montagna, vecchio.

Sileno annuì, ma non aprì bocca.

— E va bene — dissi alla fine. — Staremo a vedere cosa succede. — Mi girai verso A. Bettik, fermo accanto alla scala. — Non dimenticare di farti trovare là con la nave, quando ne avremo bisogno.

— Non me ne dimenticherò, signore.

Mi avvicinai al tappeto hawking disteso sul pavimento. A. Bettik vi aveva già messo il mio zaino. — Ultime istruzioni? — domandai, senza sapere bene a chi mi ero rivolto.

Il vecchio si avvicinò, librato sulla poltrona a cuscino d’aria. Nella luce delle torce pareva vecchissimo, più avvizzito e mummificato che mai. Le sue dita erano ossa ingiallite. — Solo questo — disse con voce rauca. — Ascolta…

Nell’ampio mare vive un disgraziato,

costretto a prolungare, indebolito,

l’odiata vita lungo dieci secoli

e morir solingo. Idear chi può

totale resistenza? Nessuno. Quindi

milioni di maree devono muoversi

vessando lui. Eppur non morirà,

quest’opere compiute. Ché se a fondo

sonda della magia gli abissi e spiega

il senso d’ogni moto, forma e suono,

s’egli indaga ogni forma e ogni sostanza

dritto fino al suo emblema e alla sua essenza,

non morirà. Inoltre e soprattutto,

quest’impresa di gioia e di dolore

perseguir deve con gran devozione…

gli amanti tutti, dal furor squassati

degli elementi, sommersi e perduti

fianco a fianco porrà finché strisciando

il tetro spazio il tempo riempirà:

ciò fatto, e maturate le fatiche,

avrà davanti un giovine, guidato

dal potere dei cieli e ad esso caro;

a lui assegnerà il coronamento

dell’opera. L’eletto la missione

concluderà, perché vivano entrambi.

— Cosa? — dissi. — non…

— Vaffanculo — sbottò il poeta. — Pensa solo a prendere Aenea, a portarla dagli Ouster e a riportarla indietro viva. Non è poi troppo complicato. Dovrebbe riuscirci perfino un pastore.

— Nonché allievo paesaggista, cameriere al banco e cacciatore d’anatre — replicai, posando la tazza di caffè.

— Sono quasi le tre. Devi muoverti.

Trassi un respiro. — Solo un minuto. — Scesi dabbasso e andai in gabinetto; fatti i bisogni, mi appoggiai per un momento alla fredda parete di pietra. "Sei impazzito, Raul Endymion?" mi dissi. Il pensiero era mio, ma lo udivo espresso dalla calma voce di Nonna. "Sì" risposi.

Risalii rapidamente le scale, sorpreso per come mi tremavano le gambe e mi batteva il cuore.

— Tutto fatto — annunciai. — Mia madre mi raccomandava sempre di pensarci prima d’uscire di casa.

Il millenario poeta borbottò qualcosa e spinse la sedia accanto al tappeto volante. Mi sedetti sul tappeto, attivai i filamenti di volo e mi librai a un metro e mezzo dal pavimento.

— Quando sarai nella Fenditura e avrai trovato l’ingresso, non dimenticare che il tappeto è programmato — disse Sileno.

— Lo so, m’ha detto tutto sul…

— Chiudi il becco e ascolta — gracchiò il poeta. Dita che parevano di antica pergamena indicarono l’appropriato disegno. — Ricorda come usarlo. Una volta dentro, tocca in sequenza qui… qui… qui… e interverrà il programma di volo automatico. Per guidarlo manualmente, puoi interrompere la sequenza toccando questo disegno… — Con le dita accarezzò l’aria sopra i filamenti. — Ma non cercare di guidarlo manualmente, là sotto. Non troveresti mai la via d’uscita.

Mi umettai le labbra. — Non mi ha detto chi lo ha programmato. Chi ha già fatto questo volo prima di me?

Il vecchio satiro mostrò i denti in un sorriso. — Io, ragazzo. Ci sono voluti mesi, ma l’ho fatto. Quasi due secoli fa.

— Due secoli! — Fui sul punto di scendere dal tappeto. — E se ci sono stati crolli? Slittamenti per terremoti? Se da allora si sono formati ostacoli?

Martin Sileno si strinse nelle spalle. — Andrai a più di duecento all’ora, ragazzo — disse. — Immagino che ci lascerai la pelle. — Mi diede una manata sulla schiena. — Vai pure. Porta a Aenea il mio amore. Dille che zio Martin aspetta di rivedere la Vecchia Terra, prima di morire. Dille che il vecchiaccio è ansioso di sentirle spiegare il senso d’ogni moto, forma, suono.

Feci alzare il tappeto di un altro mezzo metro.

A. Bettik venne avanti e mi tese la mano. Gliela strinsi. — Buona fortuna, signor Endymion — mi disse.

Risposi con un cenno, non trovando parole, e guidai il tappeto volante fuori della torre, in una spirale sempre più alta.


Per andare direttamente da Endymion, nel centro del continente Aquila, alla Valle delle Tombe del Tempo, nel continente Equus, avrei dovuto puntare a nord. Puntai a est.

Le prove di volo del giorno precedente (ma era sempre lo stesso giorno, per la mia mente stanca) avevano dimostrato quanto fosse facile guidare il tappeto hawking, però a una velocità di pochi chilometri all’ora. Raggiunta la quota di un centinaio di metri al di sopra della torre, stabilii la direzione (con la pennaluce stretta fra i denti illuminai la bussola inerziale, mentre disponevo il tappeto lungo quell’invisibile linea e la controllavo sulla mappa topografica fornitami dal vecchio poeta) e tenni il palmo premuto sul disegno d’accelerazione. Il tappeto continuò a prendere velocità e presto si accese il lieve campo di contenimento che m’avrebbe riparato dal vento. Troppo tardi mi girai a dare un’ultima occhiata alla torre… forse per vedere se il vecchio poeta mi guardava da una finestra; ma le rovine della città universitaria erano già fuori vista nel buio delle montagne.

Il tappeto non aveva tachimetro, perciò dovevo presumere che volasse alla massima velocità, mentre si alzava verso gli alti picchi a oriente. La luce delle stelle si rifletteva su campi di neve a quote più alte della mia; per prudenza riposi la pennaluce, misi gli occhiali per la visione notturna e continuai a controllare sulla carta topografica la mia posizione. Mentre il terreno si alzava, mi alzavo anch’io, mantenendo il tappeto a un centinaio di metri sopra i massi, le cascate, gli scivoli delle valanghe e i ghiacciai, tutti con un riflesso verdastro nella luce delle stelle accresciuta dagli occhiali per la visione notturna. Il tappeto non faceva il minimo rumore (anche il frastuono del vento era attutito dal campo di contenimento) e varie volte vidi grossi animali correre a nascondersi, sorpresi dall’improvvisa comparsa di quel bizzarro uccello privo d’ali. Mezz’ora dopo avere lasciato la torre, attraversai lo spartiacque continentale, mantenendo il tappeto al centro del valico alto cinquemila metri. Lassù faceva freddo; anche se il campo di contenimento tratteneva nell’immobile bolla d’aria una parte del mio calore corporeo, già da un poco mi ero messo il giubbotto termico e i guanti.

Al di là delle montagne, in rapida discesa per tenermi a poca distanza dall’accidentato terreno, guardai la tundra lasciare posto alle paludi e le paludi a bassi filari di semprazzurri nani e di tripioppi tremuli; poi vidi svanire quegli alberi d’alta montagna, mentre il bagliore delle foreste di fuoco dei tesla iniziava a illuminare come una falsa alba il cielo a oriente.

Riposi nello zaino gli occhiali. Lo spettacolo davanti a me era bellissimo, ma incuteva un certo timore: l’intero orizzonte orientale scoppiettava di scariche elettriche, fulmini globulari schizzavano fra gli alberi tesla alti centinaia di metri, fulmini ramificati saettavano fra i tesla e i prometei in esplosione, arbusti fenice e fuochi sparsi ardevano sul terreno in migliaia di punti. Martin Sileno e A. Bettik mi avevano avvertito: portai più in alto il tappeto, accettando il rischio d’essere scoperto, piuttosto che incappare in quel turbine elettrico.

Dopo un’ora, un accenno d’alba superò il bagliore della foresta di fuoco; ma proprio mentre il cielo si schiariva e poi s’accendeva della luce del giorno, la foresta di fuoco rimase alle mie spalle e davanti a me comparve la Fenditura.

M’ero accorto d’avere preso quota negli ultimi quaranta minuti, controllando sulla spiegazzata mappa topografica la rotta sopra l’altopiano Punta d’Ala, ma ora sentivo l’altitudine, mentre scorgevo lo smisurato e profondo crepaccio in quella parte del continente Aquila. La Fenditura incuteva timore come le foreste di fuoco: stretta, a picco, profonda tremila metri rispetto all’altopiano. Attraversai il bordo meridionale della grande spaccatura nello zoccolo continentale e scesi in picchiata verso il fiume, tre chilometri più in basso. La Fenditura continuava verso est, il fiume sotto di me scrosciava più o meno alla stessa velocità del tappeto. Nel giro di qualche istante il cielo mattutino si scurì e le stelle ricomparvero; era come se fossi finito in un profondo pozzo. Il fiume alla base di quelle terrificanti pareti scoscese era agitato, pieno di blocchi di ghiaccio, e saltava sopra massi grossi come la nave spaziale rimasta nella torre. Mi mantenni a cinque metri dalla spruzzaglia e rallentai ancora. La meta doveva essere vicina.

Controllai il cronometro e poi la mappa. Da qualche parte, entro i prossimi due chilometri, c’era un… Eccolo là!

Era più ampio di come me l’avevano descritto, almeno trenta metri di lato, e perfettamente quadrato. L’ingresso del labirinto planetario pareva quello, scolpito, di un tempio o una gigantesca porta. Rallentai ancora, virai a sinistra e mi soffermai sulla soglia. Avevo impiegato un po’ meno di novanta minuti per arrivare alla Fenditura. La Valle delle Tombe del Tempo si trovava a mille chilometri verso nord. Quattro ore di volo ad alta velocità di crociera. Guardai di nuovo il cronometro: fra quattro ore e venti minuti la bambina, secondo i programmi, sarebbe uscita dalla Sfinge.

Spinsi avanti il tappeto ed entrai nella caverna. Cercai di ricordare i particolari del Racconto del Prete riportato nei Canti del vecchio poeta. Mi venne in mente soltanto che proprio lì, appena oltre l’ingresso del labirinto, padre Duré e i Bikura avevano incontrato lo Shrike e i crucimorfi.

Lo Shrike non c’era. Non fui sorpreso: quell’essere non era stato più visto fin dalla Caduta della Rete dei Mondi, 274 anni fa. Non c’erano crucimorfi. Neanche questa fu una sorpresa: da lungo tempo la Pax li aveva mietuti dalle pareti di quella caverna.

Sapevo sul Labirinto ciò che sapevano tutti. Nella vecchia Egemonia si conoscevano nove pianeti dove esisteva un Labirinto. Tutti quei mondi erano simili alla Terra (grado 7,9 secondo l’antica scala Solmev), ma tettonicamente morti e quindi, sotto questo aspetto, assomigliavano più a Marte. I tunnel del Labirinto crivellavano quei nove pianeti, Hyperion compreso, e non si sapeva a che cosa servissero. Erano stati scavati decine di migliaia d’anni prima che la razza umana lasciasse la Vecchia Terra, ma non si era mai trovato alcun indizio di chi li avesse scavati. I Labirinti avevano originato numerosi miti, inclusi i Canti, ma non avevano svelato il loro mistero. Il Labirinto di Hyperion non era mai stato riportato su mappa… a parte il tratto che ero pronto a percorrere a 270 chilometri all’ora. Quel tratto era stato esplorato da un poeta pazzo. Almeno, mi augurai che l’avesse esplorato davvero.

Misi di nuovo gli occhiali per la visione notturna, mentre alle mie spalle la luce del sole svaniva. Quando l’oscurità si chiuse intorno a me, mi sentii rizzare i capelli. Presto gli occhiali sarebbero stati inutili, perché non ci sarebbe stata luce da amplificare. Tolsi dallo zaino il nastro adesivo e fissai la torcia laser sulla parte anteriore del tappeto, regolando il raggio su dispersione massima. La luce sarebbe stata fioca, ma gli occhiali l’avrebbero amplificata. Già scorgevo più avanti le prime diramazioni: la caverna era un prisma rettangolare, enorme e vuoto, trenta metri di lato, con solo piccolissimi segni di fenditure o di cedimenti; ancora più avanti, altri tunnel si aprivano a destra, poi a sinistra, poi verso il basso.

Inspirai a fondo e premetti i fili di volo nella sequenza del programma. Il tappeto balzò avanti e accelerò; l’improvviso sobbalzo mi spinse indietro, malgrado l’effetto di compensazione del campo di contenimento.

Quel campo non mi avrebbe protetto, se il tappeto avesse imboccato la curva sbagliata e si fosse schiantato a tutta velocità contro una parete. Rocce passarono come un lampo. Il tappeto si piegò ad angolo acuto per fare una svolta a destra, si livellò nel centro del lungo tunnel, si tuffò per seguire una diramazione che sprofondava.

Lo spettacolo era terrificante. Mi tolsi gli occhiali, li misi al sicuro nella tasca del giubbotto, mi aggrappai al bordo dello scalpitante tappeto e chiusi gli occhi. Avrei potuto risparmiare la fatica: ora il buio era assoluto.

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