I nostri giorni in compagnia di padre Glauco furono memorabili per le comodità, per il loro lento trascorrere dopo tante settimane di frettolosi spostamenti a destra e a manca, per le conversazioni. Li ricordo soprattutto, credo, per le conversazioni.
Poco prima del ritorno dei Chitchatuk venni a sapere una delle ragioni per cui A. Bettik aveva intrapreso con me quel viaggio.
— Lei ha fratelli, signor Bettik? — domandò padre Glauco, rifiutandosi di usare il prefisso, Androide.
Con mia sorpresa, A. Bettik rispose: — Sì. — Com’era possibile? Gli androidi erano progettati e biocostruiti assiemando elementi genetici, crescevano in vasche di coltura… come gli organi per i trapianti, avevo sempre pensato.
— Durante la biocostruzione — continuò A. Bettik, sollecitato dal vecchio prete — gli androidi erano per tradizione donati in gruppi di cinque unità… in genere quattro maschi e una femmina.
— Cinque gemelli — disse padre Glauco, dalla sedia a dondolo. — Quindi lei ha tre fratelli e una sorella.
— Sì — rispose l’uomo dalla pelle azzurra.
— Ma di sicuro non siete stati… — cominciai, fermandomi subito. Mi strofinai il mento. Nell’insolita casa di padre Glauco mi ero rasato (m’era parsa la cosa da fare, per tornare civile) e quasi mi sorpresi per la sensazione di pelle liscia. — Ma di sicuro non siete cresciuti insieme — mi corressi. — Voglio dire, gli androidi non erano…
— Biocostruiti già adulti? — terminò per me A. Bettik, con lo stesso lieve sorriso. — No. Il processo di crescita era accelerato… noi abbiamo raggiunto la maturità a circa otto anni standard… ma c’era un periodo d’infanzia e di fanciullezza. Era questa, una delle ragioni per cui la biocostruzione di androidi aveva costi quasi proibitivi.
— Come si chiamano i suoi fratelli e sua sorella? — domandò padre Glauco.
A. Bettik chiuse il libro che stava sfogliando. — Era tradizione dare al quintetto nomi in ordine alfabetico — rispose. — I miei fratelli si chiamano A. Anttibe, A. Corresson, A. Darria e A. Ewik.
— Chi è tua sorella? — domandò Aenea. — Darria?
— Sì.
— Com’era la vostra infanzia?
— Soprattutto istruzione, addestramento ai compiti e definizione dei parametri di servizio — rispose A. Bettik.
Aenea se ne stava distesa sul tappeto, mento fra le mani. — Andavate a scuola? Giocavate?
— Abbiamo ricevuto lezioni, nella fabbrica, ma la massa delle nostre conoscenze ci è giunta mediante trasferimento RNA. — Guardò Aenea. — E se per "giocare" intende trovare il tempo per rilassarmi con i miei fratelli, la risposta è sì.
— Cos’è accaduto ai tuoi fratelli?
A. Bettik scosse lentamente la testa. — Entrammo in servizio tutti insieme, ma poco dopo fummo separati. Fui acquistato dal Regno di Monaco-in-esilio e spedito su Asquith. Da quanto ne sapevo a quel tempo, ognuno di noi avrebbe fatto servizio in parti diverse della Rete o della Frontiera.
— E non hai mai più sentito nessuno di loro? — domandai.
— No. Dopo il trasferimento su Hyperion della colonia di Re William XXIII, fu importato un gran numero di operai androidi per la costruzione della Città dei Poeti; molti erano stati in servizio su Asquith prima di me, ma nessuno di loro aveva incontrato i miei fratelli.
— Ai tempi della Rete — dissi — era facile fare ricerche sugli altri mondi mediante teleporter e sfera dati.
— Sì, ma agli androidi era proibito per legge e per inibitori RNA viaggiare tramite teleporter e accedere direttamente alla sfera dati. E poi, poco dopo la mia creazione, fu illegale biocostruire o possedere androidi nell’ambito dell’Egemonia.
— E così sei stato impiegato nella Periferia — dissi. — Su mondi remoti, come Hyperion.
— Esattamente, signor Endymion.
— Per questo volevi fare il viaggio? Per trovare uno dei tuoi fratelli… o tua sorella?
A. Bettik sorrise. — Le probabilità d’incontrare per caso un mio fratello clone sono davvero astronomicamente basse, signor Endymion. Non solo la coincidenza sarebbe poco probabile, ma la possibilità che uno di loro sia sopravvissuto alla distruzione totale degli androidi a seguito della Caduta è molto remota. Però… — S’interruppe e allargò le braccia, quasi a chiedere scusa per una speranza così campata in aria.
Quell’ultima sera, che precedette il ritorno dei Chitchatuk, sentii per la prima volta Aenea esprimere la propria teoria sull’amore. Fu una conseguenza di alcune sue domande sui Canti di Martin Sileno.
— D’accordo — disse — appena subentrò la Pax, il poema fu incluso nell’Indice dei Libri Proibiti. Ma quei mondi non ancora inghiottiti dalla Pax al momento della pubblicazione del libro? Zio Martin ebbe la tanto desiderata acclamazione della critica?
— Ricordo che in seminario c’erano discussioni sui Canti - ridacchiò padre Glauco. — Sapevamo che il libro era all’indice, ma questo lo rendeva solo più affascinante. Rinunciammo a leggere Virgilio, ma facemmo a turno per leggere la malconcia copia di quei versi zoppicanti, i Canti.
— Erano versi zoppicanti? — domandò Aenea. — Ho sempre pensato che zio Martin fosse un grande poeta, ma solo perché era lui a dirmelo. Mia mamma diceva sempre che zio Martin era una spina nel piede.
— I poeti possono essere l’uno e l’altra — disse padre Glauco. Ridacchiò di nuovo. — A dire il vero, pare che lo siano spesso. Per quanto ricordo, nei pochi circoli letterari esistenti prima che la Chiesa li assorbisse, quasi tutti i critici bocciarono i Canti. Alcuni presero sul serio Martin Sileno… come poeta, non come cronista di ciò che avvenne realmente su Hyperion poco prima della Caduta. Ma molti misero in ridicolo la sua apoteosi dell’amore, verso la fine del secondo volume…
— Questo lo ricordo — dissi. — Sol, il vecchio studioso la cui figlia ringiovanisce col passare del tempo, scopre che l’amore è la risposta a quello che lui aveva definito il Dilemma di Abramo.
— E io ricordo un critico dalla penna al cianuro, che recensì il poema nella nostra capitale — ridacchiò padre Glauco. — Citò una scritta trovata in un muro di una città della Vecchia Terra riportata alla luce prima dell’Egira: "Se amore è la risposta, qual era la domanda?"
Aenea mi lanciò un’occhiata che era una richiesta di spiegazioni.
— Nei Canti - dissi — lo studioso scopre a quanto pare che ciò che le IA del Nucleo hanno chiamato Vuoto Legante è l’amore. L’amore è una forza basilare dell’universo, come la gravità e l’elettromagnetismo, come i legami nucleari deboli e forti. Nel poema, Sol scopre che l’Intelligenza Finale del Nucleo non sarà mai in grado di capire che l’empatia è inseparabile da quella fonte… dall’amore. Martin Sileno descrive l’amore come "l’impossibilità subquantica che trasportò dati / da fotone a fotone…".
— Teilhard sarebbe stato d’accordo — notò padre Glauco — ma avrebbe espresso con parole diverse il concetto.
— Comunque — continuai — la reazione quasi universale al poema… secondo Nonna… fu di ritenerlo indebolito dal sentimentalismo.
Aenea scuoteva la testa. — Zio Martin aveva ragione — disse. — L’amore è davvero una delle forze basilari dell’universo. Sol Weintraub pensava davvero d’averlo scoperto. Lo disse a mia mamma, prima di scomparire con la figlia nella Sfinge verso il futuro della piccina.
Padre Glauco smise di dondolarsi e si sporse in avanti, gomiti puntati sulle ginocchia ossute: la sua tonaca rattoppata sarebbe parsa buffa, in una persona dotata di minore dignità. — È tanto più complicato dire che Dio è amore?
— Sì! — rispose con foga Aenea, alzandosi davanti al fuoco. In quel momento mi parve più adulta, come se fosse cresciuta e maturata nei mesi trascorsi insieme. — I greci videro l’azione della forza di gravità, ma la spiegarono come uno dei quattro elementi… terra… "che torna di corsa alla propria famiglia". Ciò che Sol Weintraub scorse fuggevolmente era un frammento della fisica dell’amore: dove quest’ultimo risiede, come funziona, come sia possibile capirlo e imbrigliarlo. La differenza fra "Dio è amore" e ciò che Sol Weintraub vide… e zio Martin cercò di spiegare… è la differenza fra la spiegazione della forza di gravità data dai greci e le equazioni di Isaac Newton. La prima è una frase ingegnosa. Le seconde vedono la sostanza stessa!
Padre Glauco scosse la testa. — Tu lo fai sembrare quantificabile e meccanico, mia cara.
— No — disse Aenea, con voce quasi forte come mai l’avevo udita. — Proprio come lei ha spiegato in quale modo Teilhard sapeva che l’universo in evoluzione verso una maggiore consapevolezza non potrebbe mai essere puramente meccanico… che le forze non sono spassionate, come la scienza ha sempre presunto, ma derivano dall’assoluta passione della divinità… bene, così la comprensione della parte amore del Vuoto Legante non può mai essere meccanica. In un certo modo, è l’essenza dell’umanità.
Tenni a freno l’impulso di ridere. — Allora secondo te è necessario un altro Isaac Newton per spiegare la fisica dell’amore? — ribattei. — Per darci le sue leggi della termodinamica, le sue regole dell’entropia? Per mostrarci la matematica dell’amore?
— Sì! — replicò Aenea. Gli occhi le brillavano.
Padre Glauco era ancora proteso, ma ora si stringeva le ginocchia. — Sei tu quella persona, giovane Aenea giunta da Hyperion?
Aenea scostò in fretta il viso e si mosse fuori del cerchio di luce, verso il buio e il ghiaccio al di là del vetro; poi si girò e tornò lentamente nel cerchio di tepore. Aveva l’aria triste, le ciglia bagnate di lacrime. Parlò a voce bassa, quasi tremula. — Sì — disse. — Purtroppo sono io. Non voglio esserlo. Ma lo sono. O potrò esserlo… se sopravvivo.
L’ultima frase mi provocò un brivido gelido lungo la schiena. Rimpiansi che quella conversazione fosse iniziata.
— Ora ce ne parlerai? — disse padre Glauco. Nella sua voce c’era la schietta supplica di un fanciullo.
Aenea sollevò il viso e scosse lentamente la testa. — Non posso. Non sono pronta. Mi spiace, Padre.
Il prete tornò ad appoggiarsi alla spalliera della sedia e a un tratto parve vecchissimo. — Non importa, bambina. Ti ho conosciuta. È già qualcosa.
Aenea si accostò al vecchio nella sedia a dondolo, lo abbracciò e lo tenne stretto a lungo.
Cuchiat e la sua banda tornarono il mattino seguente, prima che ci svegliassimo e uscissimo dal letto e da sotto le coperte. Nei nostri giorni in compagnia dei Chitchatuk ci eravamo quasi abituati a dormire poche ore per volta e poi riprendere la marcia nell’eterna oscurità dei tunnel di ghiaccio; ma lì, con padre Glauco, seguivamo il suo sistema e abbassavamo un poco le luci nelle stanze più interne, per otto ore buone di "notte". Avevo osservato che a 1,7 g ci si sente sempre stanchi.
Ai Chitchatuk non piaceva addentrarsi troppo nell’edifìcio, perciò Cuchiat e i suoi si fermarono nel vano della finestra, che era più tunnel che interno, ed eseguirono una variazione dei loro ululati, finché non ci sbrigammo a vestirci e accorremmo.
La banda aveva raggiunto di nuovo il prospero numero primo di ventitré componenti, ma padre Glauco non domandò dove avessero trovato il nuovo membro, una donna, e noi non venimmo mai a saperlo. Quando entrai nella stanza, fui colpito da una scena che non avrei mai dimenticato: i robusti Chitchatuk, intabarrati nelle pellicce di spettro artico, accoccolati nella loro tipica posizione; padre Glauco, accosciato a chiacchierare con Cuchiat, con la vecchia tonaca rattoppata che si allargava sul ghiaccio come un fiore nero; il bagliore delle lanterne e la sua diffrazione sui cristalli di ghiaccio all’ingresso della caverna; e, al di là del vetro, quella terribile sensazione di gelo e di peso e di tenebre pressanti, pressanti…
Avevamo già chiesto a padre Glauco di fare da interprete per rinnovare agli indigeni la richiesta d’aiuto e ora il vecchio prete affrontò l’argomento, chiedendo ai Chitchatuk se avevano voglia di darci una mano per portare a valle la zattera. I Chitchatuk risposero rivolgendosi a turno a padre Glauco e a ciascuno di noi, dicendo essenzialmente la stessa cosa: erano pronti a fare il viaggio.
Non sarebbe stato un viaggio semplice. Cuchiat confermò che c’erano tunnel in discesa lungo il fiume fino alla seconda arcata, almeno duecento metri più in basso del punto dove ci trovavamo in quel momento, e che c’era un tratto d’acqua libera, dove il fiume passava sotto il teleporter, ma…
Non c’erano tunnel di collegamento fra la città sepolta e la seconda arcata, una trentina di chilometri verso nord.
— Avevo proprio intenzione di domandarlo — disse Aenea. — Qual è l’origine dei tunnel? Sono troppo regolari e arrotondati per essere crepacci o fenditure. Li hanno costruiti i Chitchatuk, in qualche periodo del passato?
Padre Glauco girò la testa, incredulo, verso la bambina. — Non lo sai? — esclamò. Rivolse ai Chitchatuk una raffica di parole. La reazione di questi ultimi fu quasi esplosiva: chiacchiericcio animato, quella sorta d’abbaio che ritenevamo il loro modo di ridere.
— Mi auguro di non averti offeso, mia cara — disse il vecchio prete. Sorrideva, occhi rivolti nella direzione di Aenea. — È un aspetto così scontato della nostra esistenza qui, che ne sono rimasto colpito… io e il Popolo Indivisibile. Ci è sembrato buffo e divertente che qualcuno si muova nei tunnel di ghiaccio e ne ignori l’origine.
— Il Popolo Indivisibile? — domandò A. Bettik.
— Chitchatuk — spiegò padre Glauco — significa "indivisibile"… o forse, avvicinandosi di più alla sua esatta sfumatura… "non atto a essere reso più perfetto".
Aenea sorrideva. — Non mi sono offesa — disse. — Vorrei solo capire la battuta. Chi ha costruito i tunnel?
— Gli spettri artici — azzardai, prima che il prete potesse rispondere.
Il sorriso si rivolse nella mia direzione. — Esatto, caro amico Raul — disse il prete. — Esatto.
Aenea corrugò la fronte. — Hanno artigli formidabili, ma neppure da adulti potrebbero scavare tunnel così lunghi nel solido ghiaccio… o no?
Scossi la testa. — Mi sa che non abbiamo mai visto la loro forma adulta.
— Esatto, esatto — disse il vecchio prete, con grandi cenni. — Raul ha ragione, mia cara. I Chitchatuk cacciano i cuccioli più giovani, se possibile. I cuccioli più anziani cacciano i Chitchatuk, se possibile. Ma i cuccioli di spettro artico, come l’esemplare da voi visto, sono lo stadio larvale di quelle creature. Durante questo stadio, gli spettri artici si nutrono e si muovono quasi in superficie, ma entro tre orbite di Sol Draconis Septem…
— Ossia ventinove anni standard — mormorò A. Bettik.
— Esatto, esatto — annuì il prete. — In tre anni locali, ventinove anni standard, lo spettro artico ancora immaturo… il "cucciolo", per quanto la definizione sia usata in genere per i mammiferi… subisce la metamorfosi e diventa il vero spettro artico, che scava nel ghiaccio alla velocità di circa venti chilometri all’ora. È lungo circa cinquanta metri e… be’, forse ne incontrerete uno, nel viaggio a nord.
Mi schiarii la gola. — Cuchiat e Chiaku spiegavano, mi pare, che non ci sono tunnel di collegamento fra questa zona e quella del teleporter…
— Ah, sì — disse padre Glauco. Riprese a parlare nel linguaggio dei Chitchatuk. Cuchiat rispose e il prete disse: — Circa venticinque chilometri in superficie, più di quanto al Popolo Indivisibile piaccia percorrere in un’unica tratta. E Aichacut fa gentilmente notare che quella zona pullula di spettri artici, cuccioli e adulti… tanto che il Popolo Indivisibile che lì visse per secoli è stato tutto mutato in collane di teschi per gli spettri. Fa notare che questo mese le tempeste artiche spazzano la superficie. Ma per voi, amici miei, sono disposti a fare il viaggio.
Scossi la testa. — Non capisco. La superficie è in pratica priva d’aria, giusto? Voglio dire…
— Hanno tutti i materiali di cui avrete bisogno per il viaggio, Raul, figliolo — disse padre Glauco.
Aichacut ringhiò qualcosa. Cuchiat aggiunse qualche altra frase, in tono più calmo.
— Sono pronti a partire appena vi decidete, amici miei. Cuchiat dice che occorreranno due periodi di sonno e tre di marcia per tornare alla vostra zattera. Poi punteranno a nord, fin dove giungono i cunicoli… — S’interruppe e per un momento distolse il viso.
— Cosa c’è? — domandò Aenea, preoccupata.
Padre Glauco girò la testa. Mostrò un sorriso sforzato. Si ravvivò la barba. — Sentirò la vostra mancanza. Era tanto tempo che non… ah, divento vecchio! Venite, vi aiuteremo a preparare i bagagli, faremo un veloce spuntino e vedremo se nella dispensa c’è qualcosa da aggiungere alle vostre provviste.
Il congedo fu doloroso. Il pensiero del vecchio prete, di nuovo lì da solo, con niente di più di poche lampade accese per tenere a bada gli spettri artici e il ghiacciaio planetario, mi faceva male al cuore. Aenea pianse. Quando A. Bettik gli strinse la mano, padre Glauco l’abbracciò con forza, lasciandolo stupito. — Il suo giorno deve ancora giungere, signor Bettik, amico mio — disse. — Lo sento. Lo sento chiaramente.
A. Bettik non rispose, ma più tardi, mentre seguivamo i Chitchatuk nel cuore del ghiacciaio, vidi che si girava a lanciare un’occhiata all’alta figura stagliata contro la luce; poi, superato l’angolo, imboccammo un altro tunnel che ci nascose l’edificio, la luce e il vecchio prete.
Impiegammo davvero due periodi di sonno e tre di marcia per giungere all’ultima rampa di ghiaccio, scesa sdruccioloni; attraversammo la stretta fenditura e uscimmo nel punto dove la zattera era legata. Non c’era modo, a mio parere, di portare i tronchi nei tunnel pieni di curve e di strettoie; ma stavolta i Chitchatuk non persero tempo ad ammirare la zattera rivestita di ghiaccio e si misero subito al lavoro, sciogliendo i legacci e separando i tronchi.
Durante la prima visita, tutta la banda si era meravigliata alla vista della nostra ascia e ora fui in grado di mostrare come si usava: tagliai ogni tronco in pezzi più corti, ciascuno di un metro e mezzo. Utilizzando la mia torcia laser ormai a corto di carica, A. Bettik e Aenea mi imitarono, nella nostra improvvisata catena di montaggio; intanto i Chitchatuk raschiavano il ghiaccio dalla zattera che stentava a stare a galla, tagliavano o disfacevano nodi e portavano i tronchi nel punto dove li tagliavamo e li ammucchiavamo. Al termine, sulla sporgenza di ghiaccio c’erano anche la pietra focolare e le lanterne extra, mentre i tronchi erano accatastati nel tunnel, come la legna da ardere per l’anno venturo.
Sulle prime quel pensiero mi divertì, ma poi mi resi conto di quanto sarebbe stata gradita ai Chitchatuk una simile provvista di materiale combustibile… calore, luce per tenere lontano gli spiriti artici. Guardai con occhi diversi la nostra zattera smantellata. Be’, se non riuscivamo ad attraversare il secondo portale…
Servendoci ora di Aenea come interprete, comunicammo a Cuchiat che ci sarebbe piaciuto lasciargli l’ascia, il focolare e le varie altre cose. Mi sembra giusto dire che le facce dietro i denti di spettro artico parvero sbalordite. I Chitchatuk si ammassarono intorno a noi, ci abbracciarono e ci diedero manate sulle spalle, con forza tale da lasciarci senza fiato. Perfino il rabbioso Aichacut mostrò qualcosa di simile a un rude affetto.
Ogni membro della banda si legò sulla schiena tre o quattro pezzi di tronco; A. Bettik, Aenea e io li imitammo (i tronchi pesavano come se fossero di cemento, in quella gravità) e iniziammo il lungo viaggio in salita, verso la superficie, il vuoto, le tempeste e gli spettri artici.