8

La sera scese presto. Dalla torre nella città in rovina di Endymion, dove m’ero svegliato a metà di quel giorno che pareva non finire mai, guardai l’ultima luce autunnale affievolirsi e morire. A. Bettik mi aveva accompagnato nella mia stanza. L’abito da sera, semplice ma elegante (calzoni di cotone marrone chiaro che diventavano attillati appena sotto il ginocchio, camicia bianca di lino, con un accenno di gale alle maniche, panciotto di pelle nera, calze nere, scarpe di camoscio, nere, cinturino da polso, d’oro) era ancora ben sistemato sul letto. L’androide mi accompagnò anche nello stanzino da bagno, un piano più sotto, e mi disse che il pesante accappatoio di cotone appeso alla porta era per me. Ringraziai, feci il bagno, mi asciugai i capelli, indossai tutto ciò che si trovava sul letto, tranne il cinturino d’oro, e attesi alla finestra, mentre la luce diventava più dorata e l’ombra delle montagne strisciava sull’università. Quando la luce si affievolì fino ad annullare le ombre e sopra le montagne orientali comparvero le più luminose stelle del Cigno, tornò A. Bettik.

— È ora? — domandai.

— Non proprio, signore — rispose l’androide. — Prima mi aveva chiesto di tornare per una conversazione.

— Ah, sì — dissi. Indicai il letto, l’unico mobile della stanza. — Sediamoci.

L’androide rimase accanto alla porta. — In piedi sono del tutto a mio agio, signore.

Incrociai le braccia e mi appoggiai al davanzale. Dalla finestra entrava aria fresca, odorosa di chalma. — Non chiamarmi signore — dissi. — Raul basta e avanza. — Esitai. — A meno che tu non sia programmato per rivolgerti agli… ah… — stavo per dire "umani", ma non volevo dare l’impressione di pensare che A. Bettik fosse "non" umano — … alla gente in quel modo — conclusi alla meno peggio.

A. Bettik sorrise. — No, signore. Non sono affatto programmato… non sono una macchina. A parte diverse protesi sintetiche… per aumentare la mia forza fisica, per esempio, o per consentirmi di resistere alle radiazioni… non ho parti artificiali. Mi è stata insegnata la deferenza nello svolgimento delle mie mansioni, tutto qui. Potrei chiamarla signor Endymion, se preferisce.

Scrollai le spalle. — Non importa. Mi dispiace sapere tanto poco sugli androidi.

A. Bettik sorrise di nuovo. — Non c’è bisogno di scusarsi, signor Endymion. Pochissime persone ancora in vita hanno visto un esemplare della mia razza.

"Della mia razza" notai. Interessante. — Parlami della tua razza — dissi. — Nell’Egemonia la biocostruzione di androidi non era illegale?

— Sì, signore. — Vidi che aveva assunto la posizione di riposo e mi domandai oziosamente se per caso non avesse fatto il militare. — Ancora prima dell’Egira — continuò A. Bettik — la biocostruzione di androidi era illegale sulla Vecchia Terra e su molti mondi dell’Egemonia. Ma la Totalità permise la biocostruzione di un certo numero di androidi da usare nella Periferia. A quel tempo Hyperion faceva parte della Periferia.

— Ne fa parte tuttora.

— Sì, signore.

— Quando sei stato biocostruito? In quali pianeti sei vissuto? Quali compiti avevi? — Esitai un istante. — Se non sono domande indiscrete.

— No, certo, signor Endymion — rispose lui, con calma. Nella voce aveva la traccia di un dialetto per me nuovo. D’altri mondi. Antico. — Fui creato nell’anno 26 dalla fondazione della colonia, calendario locale.

— Nel XXV secolo della Vecchia Terra — dissi, sorpreso. — 694 anni fa.

A. Bettik annuì in silenzio.

— Perciò sei nato… sei stato biocostruito… dopo la sua distruzione — dissi, più a me stesso che all’androide.

— Sì, signore.

— E Hyperion è stato la tua prima… ah… destinazione di lavoro?

— No, signore. Nel primo mezzo secolo d’esistenza, ho lavorato su Asquith, al servizio di Sua Altezza Reale Arthur VIII, sovrano del regno in esilio di Windsor, e anche al servizio di suo cugino, principe Rupert del principato in esilio di Monaco. Alla morte di re Arthur, passai in eredità a suo figlio, Sua Altezza Reale William XXIII.

— Re Billy il Triste.

— Sì, signore.

— E sei venuto su Hyperion quando re Billy il Triste fuggì a causa della rivolta di Horace Glennon-Height?

— Sì. A dire il vero, i miei fratelli androidi e io siamo stati mandati su Hyperion trentadue anni prima che vi sbarcassero Sua Altezza e gli altri coloni. Fummo inviati qui dopo la vittoria del generale Glennon-Height nella battaglia di Fomalhaut. Sua Altezza ritenne saggio che fosse pronto un pianeta alternativo per il regno in esilio.

— E fu allora che incontrasti il signor Sileno — suggerii, con un gesto verso il soffitto, rivedendo nella mente il vecchio poeta dentro la rete d’apparecchiature che lo manteneva in vita.

— No — disse l’androide. — Negli anni in cui la Città dei Poeti era abitata, i miei compiti non mi portarono in contatto col signor Sileno. Ho avuto il piacere di conoscere il signor Sileno in epoca posteriore, durante il suo pellegrinaggio nella Valle delle Tombe del Tempo, due secoli e mezzo dopo la morte di Sua Altezza.

— E da allora sei sempre stato su Hyperion. Cinquecento e passa anni su questo pianeta.

— Sì, signor Endymion.

— Sei immortale? — domandai. Sapevo che era una domanda impertinente, ma volevo la risposta.

A. Bettik mostrò quel suo sorriso appena accennato. — No, certo, signore. Morirò anch’io, per un incidente o per una ferita tanto grave da rendere impossibili le riparazioni. Solo, quando fui biocostruito, le mie cellule e i miei sistemi furono sottoposti in nanotecnologia a una forma sperimentale del trattamento Poulsen, per cui ho un’estrema resistenza all’invecchiamento e alle malattie.

— Per questo gli androidi hanno la pelle azzurra?

— No, signore. Abbiamo pelle azzurra perché al tempo della nostra biocostruzione nessuna razza umana era di quel colore e i progettatori ritenevano d’estrema importanza che fosse possibile distinguerci a occhio dagli esseri umani.

— Non ti consideri umano?

— No, signore. Mi considero androide.

Sorrisi per la mia ingenuità. — Continui a svolgere prestazioni tipiche dei servi — dissi. — Eppure da secoli la schiavitù androide è stata dichiarata illegale in tutta l’Egemonia.

A. Bettik rimase in silenzio.

— Non vorresti essere libero? Una persona a buon diritto indipendente?

A. Bettik si accostò al letto. Pensai che si sarebbe seduto, ma lui si limitò a piegare e ammucchiare i vestiti che avevo indossato poco prima. — Signor Endymion — disse poi — dovrei farle notare che, per quanto le leggi dell’Egemonia siano morte con l’Egemonia, ormai da alcuni secoli mi ritengo persona libera e indipendente.

— Però tu e gli altri lavorate per il signor Sileno, qui, di nascosto — insistetti.

— Sì, signore. Ma lo faccio per libera scelta. Sono stato progettato per servire la razza umana. Faccio bene il mio lavoro. E ne traggo soddisfazione.

— Allora sei rimasto qui di tua spontanea volontà.

A. Bettik annuì con un breve sorriso. — Sì, nei limiti del libero arbitrio di ciascuno di noi, signore.

Con un sospiro mi staccai dalla finestra. Ormai fuori era buio pesto. Immaginai che fra non molto sarei stato chiamato a cena dal vecchio poeta. — E continuerai a stare qui e a badare al vecchio fino alla sua morte — dissi.

— No, signore — replicò A. Bettik. — Se sarà chiesto il mio parere sulla faccenda.

Esitai, sorpreso. — Davvero? E dove andrai, se sarai consultato in proposito?

— Se accerterà la missione che il signor Sileno le ha offerto, signore — disse quell’uomo dalla pelle azzurra — sceglierei di venire con lei.


Quando fui accompagnato di sopra, scoprii che quel piano non era più la camera d’un malato, ma era stato trasformato in una sala da pranzo. La poltrona di flussoschiuma a cuscino d’aria era scomparsa, i monitor medici erano svaniti, i quadri comando per le trasmissioni non si vedevano e il soffitto era aperto al cielo. Con l’occhio addestrato dell’ex pastore localizzai subito le costellazioni del Cigno e delle Due Gemelle. Davanti a ogni finestra di vetro colorato c’erano bracieri posti su alti tripodi, le cui fiamme davano alla sala altra luce e calore. Al centro della stanza c’era un tavolo da pranzo lungo tre metri. Porcellane, argenteria e cristallerie risplendevano alla guizzante luce di candele poste in due candelabri lavorati. Alle estremità del tavolo erano apparecchiati due posti. In quello più lontano, Martin Sileno era già accomodato su di una sedia dall’alto schienale.

Il vecchio poeta era a stento riconoscibile, pareva essersi liberato di vari secoli in poche ore. Da una sorta di mummia con pelle di pergamena e occhi infossati, si era trasformato in un normale anziano signore… affamato, a giudicare dalla luce che gli brillava negli occhi. Mentre mi avvicinavo, notai le sottili cannule delle fleboclisi e i filamenti dei monitor che serpeggiavano sotto il tavolo; ma, per il resto, l’illusione di una persona riportata in vita dal regno dei morti era perfetta.

Nel vedere la mia espressione, Sileno ridacchiò. — Questo pomeriggio mi hai sorpreso nel momento peggiore, Raul Endymion — gracchiò. La sua voce era ancora roca per l’età, ma molto più energica di prima. — Mi stavo ancora riprendendo dal gelido sonno — proseguì il poeta. Con un gesto m’invitò ad accomodarmi all’altro capo del tavolo.

— Crio-fuga? — dissi scioccamente, mentre aprivo il tovagliolo di lino e me lo sistemavo in grembo. Da anni non cenavo a un tavolo così elegante: il giorno del congedo dalla Guardia Nazionale ero andato dritto al migliore ristorante della città portuale di Gran Chaco, nella parte meridionale dell’Artiglio, e avevo ordinato i più raffinati piatti del menu, spendendo l’intera paga dell’ultimo mese. Ne era valsa la pena.

— La merdosa crio-fuga, certo — disse il vecchio poeta. — Come credi che passo questi decenni? — Ridacchiò di nuovo. — Mi occorrono alcuni giorni per riprendermi dallo scongelamento. Non sono giovane come una volta.

Presi fiato. — Se non sono indiscreto — dissi — quanti anni ha?

Il poeta non badò alla domanda e chiamò l’androide maggiordomo (non A. Bettik), che fece un cenno in direzione della scala. Entrarono altri androidi e iniziarono in silenzio a servire le portate. Mi riempirono il bicchiere per l’acqua. A. Bettik mostrò al poeta una bottiglia di vino, aspettò l’assenso e poi eseguì il rituale, offrendogli il tappo e un assaggio. Martin Sileno rigirò sulla lingua il vino d’annata, deglutì, emise un borbottio. A. Bettik lo ritenne d’approvazione e versò il vino a lui e a me.

Arrivarono gli antipasti, due per ciascuno. Riconobbi lo yakitori di pollo cotto a fuoco vivo e il tenero carpaccio di manzo del Maine con ruchetta. In aggiunta, Sileno si servì di foie gras sauté avvolto in foglie di mandragora, sistemato sul tavolo accanto a lui. Presi lo spiedino di metallo decorato e assaggiai lo yakitori. Era squisito.

Martin Sileno poteva anche avere ottocento o novecento anni, era forse il più vecchio essere umano vivente… ma ne aveva, di appetito, quel vecchio strambo! Vidi luccicare denti bianchi e perfetti, mentre il poeta attaccava il carpaccio, e mi domandai se quelle nuove aggiunte erano protesi dentarie o sostituzioni ARN. Probabilmente queste ultime.

Mi accorsi d’avere una gran fame. Evidentemente la pseudorisurrezione o l’esercizio fisico per arrampicarmi fino alla finestra della torre mi avevano stimolato l’appetito. Per alcuni minuti non ci fu conversazione, solo il lieve fruscio di passi degli androidi che servivano a tavola, lo scoppiettio delle fiamme nei bracieri, un occasionale refolo di brezza notturna dall’alto e il rumore delle nostre mascelle.

Mentre gli androidi portavano via i piatti degli antipasti e servivano scodelle di bisque di cozze, nera e fumante, il poeta disse: — Ho saputo che oggi hai fatto conoscenza della nostra nave.

— Sì — dissi. — Era proprio la nave privata del Console?

— Naturalmente — rispose Sileno. Rivolse un gesto a un androide. Fu messo in tavola pane ancora caldo di forno. Il suo profumo si mescolò con il vapore della bisque e con l’aroma di fogliame autunnale portato dalla brezza.

— E lei si aspetta che usi quella nave per salvare la bambina? — domandai. Pensavo che a quel punto il poeta mi avrebbe domandato quale decisione avessi preso.

Lui disse invece: — Cosa pensi della Pax, signor Endymion?

Sorpreso, rimasi col cucchiaio a mezz’aria. — La Pax? — ripetei.

Sileno attese in silenzio.

Posai il cucchiaio e mi strinsi nelle spalle. — Non mi pare d’averci pensato molto.

— Neppure dopo che un suo tribunale ti ha condannato a morte?

Invece di esporre ciò che avevo pensato poco prima, cioè che non era stata l’influenza della Pax a condannarmi, ma quella sorta di giustizia di frontiera che veniva applicata su Hyperion, risposi: — No. La Pax in pratica non ha influenzato molto la mia vita.

Il vecchio poeta annuì e sorseggiò la bisque. — E la Chiesa?

— In che senso?

— Anche la Chiesa non ha influenzato molto la tua vita?

— No, direi. — Mi accorsi di fare la figura dell’adolescente impacciato, ma le domande parevano meno importanti di quella che in teoria avrebbe dovuto rivolgermi e della risposta che avrei dovuto dargli: la mia decisione.

— Ricordo la prima volta in cui sentimmo parlare della Pax — disse Sileno. — Aenea era scomparsa da qualche mese. Giunsero in orbita navi della Pax e i militari occuparono Keats, Port Romance, Endymion, l’università, tutti gli spazioporti e tutte le città importanti. Poi decollarono su skimmer da guerra e capimmo che cercavano i crucimorfi dell’altopiano Punta d’Ala.

Annuii. Erano cose risapute. L’occupazione dell’altopiano Punta d’Ala e la ricerca dei crucimorfi erano state l’ultima scommessa di una Chiesa moribonda e l’inizio della Pax. Solo dopo quasi un secolo e mezzo le vere truppe della Pax avevano occupato tutto Hyperion e dato l’ordine di sgombrare Endymion e le altre città nelle vicinanze dell’altopiano.

— Ma le navi che scesero qui durante l’espansione della Pax — continuò il poeta — quali storie portarono! L’espansione della Chiesa da Pacem nei mondi della vecchia Rete, poi nelle colonie della Periferia…

Gli androidi portarono via le scodelle di bisque e tornarono con piatti di cacciagione disossata con mostarda e manta del Kans al gratin con mousse di caviale.

— Anatra? — domandai.

Il poeta mostrò i denti ricostituiti. — Pareva appropriata, dopo il tuo… ah… guaio della settimana scorsa.

Sospirai e toccai con la forchetta la porzione d’anatra. Vapori umidi m’arrivarono alle guance e agli occhi. Pensai all’impazienza di Izzy, mentre le anatre si avvicinavano all’acqua aperta. Mi pareva una vita fa. Guardai Martin Sileno e cercai d’immaginare che cosa si provasse ad avere secoli di ricordi con cui vedersela. Come poteva, una persona, non uscire di senno, con ricordi di vite intere immagazzinati in una sola mente? Il poeta mi sorrideva, in quel suo modo folle: ancora una volta mi domandai se non fosse davvero pazzo.

— Così sentimmo parlare della Pax e ci domandammo come sarebbe stata, una volta giunta davvero — proseguì il poeta, continuando a masticare. — Un governo teocratico… impensabile, nei secoli dell’Egemonia. A quel tempo la religione era, ovviamente, una pura scelta personale… ho fatto parte di una decina di religioni e ne ho iniziate più d’una, ai bei tempi, quand’ero una celebrità nel mondo delle lettere. — Mi guardò con occhi accesi. — Ma tu naturalmente lo sai, Raul Endymion. Conosci i Canti,

Assaggiai la manta gratinata e rimasi in silenzio.

— Molti miei conoscenti erano cristiani Zen — riprese Sileno. — Più Zen che cristiani, è logico, ma in realtà poco dell’uno e dell’altro. I pellegrinaggi personali erano divertenti. Luoghi di potere, la ricerca del proprio punto di Baedecker, tutta quell’immondizia… — Ridacchiò. — L’Egemonia non si sarebbe mai sognata di lasciarsi coinvolgere nella religione, naturalmente. La semplice idea di mescolare governo e opinione religiosa era barbara… una cosa che si poteva trovare su Qom-Riyadh o su qualche altro pianeta desertico della Periferia. E poi venne la Pax, col suo guanto di velluto e il suo crucimorfo di speranza…

— La Pax non governa — obiettai. — Consiglia.

— Precisamente — convenne il vecchio poeta, puntando verso di me la forchetta, mentre A. Bettik gli versava un altro bicchiere di vino. — La Pax consiglia. Non governa. Su centinaia di pianeti la Chiesa viene incontro ai fedeli e la Pax consiglia. Ma, naturalmente, se sei un cristiano che desidera rinascere, non trascuri il consiglio della Pax né il velato suggerimento della Chiesa, giusto?

Scrollai di nuovo le spalle. L’influenza della Chiesa era stata una costante per tutta la mia vita. Non ci vedevo niente d’insolito.

— Ma tu non sei un cristiano che desidera rinascere, vero, signor Endymion?

Allora guardai il vecchio poeta e mi venne un orribile sospetto. In qualche modo, pensai, aveva manovrato la mia finta esecuzione e mi aveva fatto trasportare lì, mentre le autorità avrebbero dovuto seppellirmi in mare. Aveva molta influenza sulle autorità di Port Romance. E se avesse organizzato lui il mio arresto e la sentenza? Se avesse voluto mettermi alla prova?

— La domanda è un’altra — proseguì Sileno, senza badare al mio sguardo da basilisco. — Perché tu non sei cristiano? Perché non vuoi rinascere? Non ti piace la vita, Raul Endymion?

— Mi piace — risposi, conciso.

— Ma non hai accettato la croce. Non hai accettato il dono di una vita prolungata.

Posai la forchetta. Un androide lo interpretò come segno che avevo finito e mi tolse il piatto con l’anatra ancora intatta. — Non ho accettato il crucimorfo! — precisai, brusco. Come spiegare il sospetto cresciuto nel mio clan di nomadi durante generazioni in cui eravamo considerati gli esuli, gli estranei, gli indigeni privi di dimora? Come spiegare il fiero spirito d’indipendenza di persone come Nonna e come mia madre? Come spiegare il retaggio di rigore filosofico e di scetticismo innato trasmessomi da chi mi aveva allevato e istruito? Non ci provai nemmeno.

Martin Sileno annuì, come se avessi spiegato tutto. — E tu consideri il crucimorfo qualcosa di diverso dal miracolo offerto ai fedeli tramite la sorprendente intercessione della Chiesa cattolica?

— Considero il crucimorfo un parassita — replicai. Rimasi sorpreso io stesso per la veemenza del tono.

— Forse hai paura di perdere… ah… la virilità — commentò con voce rauca il poeta.

Gli androidi misero in tavola due cigni scolpiti nel cioccolato moka e farciti di tartufi arborei delle terre alte. Trascurai il mio. Nei Canti, il pellegrino prete, Paul Duré, racconta la scoperta della tribù perduta, i Bikura, e il motivo della sua sopravvivenza nei secoli, grazie a un simbionte a forma di croce offerto dal leggendario Shrike. Il crucimorfo risuscitava i Bikura come oggi risuscita la gente nell’era della Pax; solo, nel racconto del prete, gli effetti secondari comprendevano danni cerebrali irreversibili dopo parecchie risurrezioni e la scomparsa degli organi e degli impulsi sessuali. I Bikura erano eunuchi mentalmente ritardati… tutti quanti.

— No — dissi. — So che la Chiesa ha risolto il problema.

Sileno sorrise: quando sorrideva, pareva la mummia di un satiro. — Se si accetta la Comunione e se si risuscita sotto gli auspici della Chiesa — precisò. — Altrimenti, chi per caso è riuscito a venire in possesso di un crucimorfo fa la stessa fine dei Bikura.

Annuii. Intere generazioni avevano tentato di rubare l’immortalità. Prima che la Pax isolasse l’altopiano, gli avventurieri contrabbandavano crucimorfi. Altri simbionti erano stati rubati alla Chiesa stessa. Il risultato era stato sempre uguale: idiozia e asessualità. Solo la Chiesa possedeva il segreto della risurrezione ben riuscita.

— E allora? — dissi.

— E allora perché la devozione alla Chiesa e il pagamento di una tassa ogni decimo anno di servizio sono stati per te, ragazzo mio, un prezzo troppo alto? Miliardi di persone hanno scelto la vita.

Rimasi in silenzio per qualche istante. Alla fine dissi: — Miliardi di persone possono fare ciò che vogliono. La mia vita è importante per me. Voglio mantenerla… mia!

Perfino io non trovavo molto sensata questa affermazione, ma il poeta annuì di nuovo, come se avessi dato una spiegazione soddisfacente. Mangiò il cigno di cioccolata. Gli androidi portarono via i piatti e servirono il caffè.

— Bene — disse il poeta — hai riflettuto sulla mia proposta?

La domanda era così assurda che fui obbligato a soffocare una risata. — Sì — risposi — ho riflettuto.

— E allora?

— E allora ho alcune domande.

Martin Sileno attese in silenzio.

— Cosa c’è, per me, in questa storia? Lei parla della difficoltà di tornare alla solita vita qui su Hyperion… mancanza di documenti e tutto il resto… ma sa che mi trovo a mio agio in queste zone desolate. Per me sarebbe molto più facile andare nelle paludi e tenermi alla larga dalle autorità della Pax, anziché correre nello spazio, con la sua amica ragazzina a rimorchio. Inoltre, per la Pax sono morto. Potrei tornare a casa nelle brughiere e restare col mio clan senza difficoltà.

Martin Sileno annuì.

Dopo un altro momento di silenzio, dissi: — Allora perché dovrei anche solo prendere in considerazione questa assurdità?

Il vecchio poeta sorrise. — Tu vuoi essere un eroe, Raul Endymion.

Sbuffai, sprezzante e appoggiai le mani sulla tovaglia. Le dita parevano tozze e impacciate, fuori posto su quel raffinato tessuto di lino.

— Tu vuoi essere un eroe — ripeté. — Vuoi essere uno di quei rari esseri umani che fanno la storia, anziché limitarsi a guardarla scorrere come acqua intorno a uno scoglio.

— Non so di cosa parla — replicai. Lo sapevo benissimo, naturalmente, ma non credevo che potesse conoscermi bene fino a quel punto.

— Ti conosco benissimo — disse Martin Sileno. Parve rispondere al mio pensiero, non alle mie parole.

Neppure per un secondo, devo dirlo, pensai che il vecchio fosse telepatico. Per prima cosa, non credo nella telepatia (almeno, a quel tempo non ci credevo) e in secondo luogo ero più incuriosito dal potenziale di un essere umano vissuto quasi mille anni. Diamine, pensai, anche se è pazzo, forse ha imparato a leggere l’espressione facciale e le sfumature fisiche: il risultato non sarebbe molto diverso dalla telepatia.

O forse aveva tirato a indovinare e fatto centro.

— Non voglio essere un eroe — dichiarai in tono piatto. — Ho già visto cosa accade agli eroi, quando inviarono la mia brigata contro i ribelli nel continente meridionale.

— Ah, Ursa — borbottò lui. — L’orso del polo sud. La più inutile massa di ghiaccio e di fango che ci sia su Hyperion. Ricordo alcune voci di disordini da quelle parti.

La guerra laggiù era durata otto anni di Hyperion e aveva ucciso migliaia di ragazzi come me tanto stupidi da arruolarsi nella Guardia Nazionale. Forse il vecchio poeta non era poi così sagace come cominciavo a ritenerlo.

— Non intendo eroe come gli idioti che si buttano sulle granate al plasma per fare scudo ad altri — continuò Sileno, umettandosi le labbra, con un guizzo della lingua, come una lucertola. — Intendo eroe come quelli il cui valore e la cui bravura sono tanto leggendari da fare in modo che siano onorati come divinità. Intendo eroe nel senso letterale, come protagonista centrale predestinato a gesta importanti. Intendo eroe come colui i cui tragici difetti saranno la sua rovina. — Il poeta esitò e mi guardò: pareva aspettare una reazione. Ma io lo fissai in silenzio.

— Niente tragici difetti? — disse lui infine. — Né predisposizione a gesta importanti?

— Non voglio essere un eroe — ripetei.

Il vecchio poeta s’ingobbì sulla tazza di caffè. Quando rialzò il viso, aveva negli occhi una luce maliziosa. — Dove ti fai tagliare i capelli, ragazzo?

— Prego?

Si umettò di nuovo le labbra. — Mi hai sentito. Hai i capelli lunghi, ma non incolti. Dove te li fai tagliare?

Sospirai. — A volte, quando stavo nelle paludi per lungo tempo, me li tagliavo da solo; ma quando sono a Port Romance, vado in un negozietto di via Datoo.

— Ahhh — disse Sileno, appoggiandosi alla spalliera. — Conosco via Datoo. Si trova nel Distretto Notte. Un vicolo, più che una via. C’era un mercato all’aperto che vendeva furetti in gabbie dorate. C’erano barbieri ambulanti, ma il miglior salone apparteneva a un vecchio, Palani Woo. Aveva sei figli e, man mano che crescevano, aggiungeva una poltrona nel negozio. — Alzò gli occhi e ancora una volta fui colpito dall’energia della sua personalità. — Parlo di un secolo fa — disse.

— Mi faccio tagliare i capelli nel salone di Woo — dissi. — Il pronipote di Palani Woo, Kalakaua, è l’attuale proprietario. Ci sono ancora sei poltrone.

— Sì — disse il poeta, annuendo a se stesso. — Ben poco cambia nel nostro amato Hyperion, vero, Raul Endymion?

— Era questo, il suo punto?

— Punto? — Aprì le mani, come per mostrare che non nascondeva niente di così sinistro come un punto. — Niente punti. Conversazione, ragazzo mio. Mi diverte pensare che le Figure Storiche del Mondo, addirittura eroi dei miti futuri, pagano per farsi tagliare i capelli. M’è venuto in mente secoli fa, a proposito… la bizzarra sconnessione fra la sostanza del mito e la sostanza della vita. Sai cosa significa "Datoo"?

Fui sorpreso dall’improvviso cambio d’argomento. — No.

— Un vento che soffiava da Gibilterra. Portava una magnifica fragranza. Alcuni degli artisti e dei poeti che fondarono Port Romance devono avere pensato che le foreste di chalma e di weir, che ricoprivano le montagne sopra la palude, avevano un buon profumo. Sai cos’era Gibilterra, ragazzo?

— No.

— Una grande rocca sulla Terra — gracchiò il vecchio. Mostrò di nuovo i denti. — Bada bene, non ho detto Vecchia Terra.

L’avevo notato.

— La Terra è la Terra, ragazzo. Vissi lì, prima che scomparisse, quindi dovrei saperlo.

Quel pensiero mi dava ancora le vertigini.

— Voglio che tu la trovi — disse con occhi scintillanti il poeta.

— Che trovi… la Vecchia Terra? Pensavo volesse mandarmi in giro con la bambina… Aenea.

Con un movimento delle mani ossute scacciò l’obiezione. — Vai con lei e troverai la Terra, Raul Endymion.

Mossi il capo in un cenno d’assenso e intanto considerai se era saggio spiegare a quel vecchio che la Vecchia Terra era stata inghiottita dal buco nero provocato nelle sue viscere durante il Grande Errore del ’38. D’altra parte il vecchio era fuggito da quel mondo ridotto in frantumi. Non aveva senso contraddire le sue illusioni. Nei Canti aveva accennato a un complotto delle IA del TecnoNucleo, in guerra fra loro, per rubare la Vecchia Terra… per trafugarla e nasconderla nell’Ammasso Ercole o nella Nube di Magellano, i Canti discordavano a questo proposito… ma era una fantasia. La Nube di Magellano era una galassia a parte, distante più di 160 mila anni luce dalla Via Lattea, se ricordavo giusto, e nessuna nave, della Pax o dell’Egemonia, era mai stata inviata più lontano della nostra piccola sfera in un braccio della spirale della nostra galassia… e anche con il motore Hawking e il passaggio a realtà non einsteiniane, un viaggio fino alla Grande Nube di Magellano avrebbe richiesto molti secoli di tempo/nave e decine di migliaia d’anni di debito temporale. Perfino gli Ouster, che avevano la passione per gli spazi bui fra le stelle, non avrebbero intrapreso un simile viaggio.

Inoltre, non si rapiscono i pianeti.

— Voglio che trovi la Terra e la riporti indietro — proseguì il vecchio poeta. — Voglio rivederla, prima di morire. Mi farai questo favore, Raul Endymion?

Lo guardai negli occhi. — Certo — dissi. — Salvare dalle Guardie Svizzere e dalla Pax la bambina, proteggerla finché non sarà Colei Che Insegna, trovare la Vecchia Terra e riportarla indietro in modo che lei la riveda. Facile. Altro?

— Sì — disse Martin Sileno, col tono d’assoluta solennità che accompagna la demenza. — Devi scoprire che cazzo combina il Tecno-Nucleo e impedirgli di attuarlo.

Annuii di nuovo. — Trovare il TecnoNucleo scomparso e impedire che il potere congiunto di migliaia di IA simili a dèi attui qualsiasi cosa abbia in ballo — dissi, stillando sarcasmo. — Ho preso nota. Sarà fatto. Altro?

— Sì. Devi parlare agli Ouster e vedere se possono offrirmi l’immortalità… la vera immortalità, non quella merda di risurrezione cristiana.

Finsi di prendere appunti su di un invisibile blocchetto. — Ouster… immortalità… non merda cristiana. Fattibile. Segnato. Altro?

— Sì, Raul Endymion. Voglio che la Pax sia distrutta e che il potere della Chiesa sia abbattuto.

Annuii. Due o trecento pianeti si erano uniti spontaneamente alla Pax. Trilioni d’esseri umani avevano ricevuto spontaneamente il battesimo della Chiesa. L’esercito della Pax era più potente di quanto la FORCE dell’Egemonia non si fosse mai sognata al massimo del suo splendore. — D’accordo — dissi. — Me ne occuperò io. Altro?

— Sì. Devi impedire allo Shrike di nuocere a Aenea o di spazzare via la razza umana.

Qui esitai. Secondo il poema epico del vecchio, lo Shrike era stato distrutto dal soldato Fedmahn Kassad in un’imprecisata epoca futura. Pur conoscendo la futilità di far entrare la logica nella conversazione con un pazzo, misi in evidenza questo particolare.

— Sì! — sbottò il vecchio poeta. — Ma è una questione di tempo! Devi fermare lo Shrike adesso, non fra vari millenni!

— D’accordo — risposi. A che scopo discutere?

Martin Sileno si lasciò ricadere contro la spalliera, come se tutta la sua energia si fosse dissipata. Vidi di nuovo in lui la mummia animata: nelle pieghe della pelle, negli occhi infossati, nelle dita ossute. Ma nei suoi occhi brillava ancora una luce intensa. Provai a immaginare la forza della personalità di quell’uomo nel pieno del suo vigore: non ci riuscii.

Sileno rivolse un cenno agli androidi. A. Bettik portò due calici e versò lo champagne.

— Allora accetti, Raul Endymion? — domandò il poeta, con voce forte e formale. — Accetti l’incarico di salvare Aenea, di viaggiare con lei e di portare a termine le altre imprese?

— A una sola condizione — dissi.

Sileno corrugò la fronte e aspettò che continuassi.

— Voglio prendere con me A. Bettik. — L’androide era ancora accanto al tavolo. Teneva in mano la bottiglia di champagne. Guardava dritto davanti a sé; non si girò a guardare l’uno o l’altro di noi, né lasciò trasparire una qualsiasi emozione.

Il poeta si mostrò sorpreso. — Il mio androide? Parli sul serio?

— Parlo sul serio.

— A. Bettik è con me da prima che alla tua bis-bis-bisnonna venissero le tette — gracchiò il poeta. Calò sul tavolo la mano, con tanta forza che mi preoccupai per le sue fragili ossa. — A. Bettik — disse, brusco — Vuoi andare con lui?

L’uomo dalla pelle azzurra annuì senza girare la testa.

— Vaffanculo — disse il poeta. — Prendilo pure. Vuoi altro, Raul Endymion? La mia poltrona a cuscino d’aria, forse? Il mio respiratore? I miei denti?

— Nient’altro — risposi.

— E allora, Raul Endymion — disse il poeta, in tono di nuovo formale — accetti l’incarico? Salverai, servirai e proteggerai Aenea, finché il destino della bambina non si sarà compiuto… o morirai nel tentativo?

— Accetto.

Martin Sileno alzò il bicchiere e io lo imitai. Troppo tardi pensai che pure l’androide avrebbe dovuto bere con noi: il vecchio poeta già faceva il brindisi.

— Alla pazzia — disse. — Alla divina follia. Alle insane mete e ai messia che gridano nel deserto. Alla morte dei tiranni. Alla confusione dei nostri nemici.

Cominciai a portare alle labbra il bicchiere, ma il vecchio poeta non aveva terminato.

— Agli eroi. Agli eroi che si fanno tagliare i capelli. — Vuotò il bicchiere in un solo sorso.

Lo imitai.

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