Abner Marsh batté poderosamente la punta del bastone di noce americano sul bureau dell’albergo per richiamare l’attenzione dell’impiegato. «Sto cercando un uomo di nome York,» disse. «Josh York. Credo che si chiami così. È qui da voi?»
L’addetto alla ricezione era un uomo anziano con gli occhiali. I colpi improvvisi lo fecero sobbalzare. Si voltò e scrutò Marsh, poi s’illuminò in un sorriso. «Perbacco, è proprio il Capitano Marsh,» disse in tono affabile. «Erano almeno sei mesi che non vi si vedeva da queste parti, Capitano. Oh, però abbiamo saputo della sventura. Terribile, è questa la parola, terribile. È dal lontano ’36 che sono qui e non avevo mai visto un disastro simile. Blocchi di ghiaccio di quella portata…»
«Non dartene pensiero, non è certo affar tuo,» sbottò Abner Marsh visibilmente infastidito. Aveva previsto commenti di quel tenore. Il Planters’ House era un albergo assai popolare nell’ambiente dei battellieri. Marsh stesso vi aveva pranzato regolarmente prima di quell’inverno crudele. Ma dopo la disastrosa gelata se n’era tenuto alla larga, e non solo per via dei prezzi. Pur apprezzando l’ottima qualità delle pietanze servite al Planters’ House, non era altrettanto stuzzicato dal genere di compagnia che vi avrebbe trovato: timonieri, comandanti e secondi, tutta gente del fiume, vecchi amici e vecchi rivali, e tutti inevitabilmente al corrente della disgrazia che lo aveva colpito. Abner Marsh non voleva la pietà di nessuno. «Dimmi solo dov’è la stanza di York,» ordinò perentoriamente all’anziano impiegato.
Questi dondolò la testa con fare nervoso. «Mister York non è nella sua stanza, Capitano. Lo troverete nella sala da pranzo, a consumare il suo pasto.»
«Adesso? A quest’ora?» Marsh scoccò un’occhiata all’orologio dell’albergo riccamente ornato, poi, non contento, sganciò dagli occhielli i bottoni d’ottone della giacca e tirò fuori il suo orologio d’oro da taschino. «Mezzanotte è passata da dieci minuti,» disse, incredulo. «E tu dici che sta mangiando?»
«Sissignore, proprio così. Sceglie orari molto particolari, questo Mister York, e non è il tipo a cui si dice di no, Capitano.»
Un aspro grugnito, profondamente gutturale, fu il commento di Abner Marsh. Poi il Capitano ripose l’orologio nel taschino e si allontanò senza una parola, attraversando con passi lunghi e pesanti l’atrio lussuosamente arredato. Era un colosso d’uomo, e per nulla paziente. E non era aduso a discutere d’affari a mezzanotte. Impugnava il bastone con imponenza scuotendolo poderosamente, come se mai nessuna disgrazia si fosse abbattuta su di lui, e continuava ad esser l’uomo che era sempre stato.
Adorna com’era di lampadari di vetro intagliato, infissi di lucido ottone, tavoli rivestiti da tovaglie bianche del lino più pregiato e apparecchiati con le porcellane e i cristalli più preziosi, la sala da pranzo s’accostava per sontuosa eleganza al salone principale di un battello di lusso. Nelle ore che di norma sono dedite al pasto, i tavoli erano gremiti di viaggiatori e battellieri, ma ora la sala èra vuota, e gran parte delle luci spente. E ciò invitò il Capitano ad una riflessione. Tutto sommato i colloqui di mezzanotte possedevano un risvolto positivo: se non altro si sarebbe risparmiato la pietosa sequela di condoglianze. Due camerieri negri stavano parlottando vicino alla porta della cucina. Marsh li ignorò ed avanzò verso il lato opposto della sala, dove uno sconosciuto ben vestito stava cenando da solo.
L’uomo dovette sentire il rumore dei suoi passi, ma non alzò gli occhi per guardarlo. Per la verità, era tutto preso e compreso nel raccogliere gustose cucchiaiate di consommé di testina di vitello da una ciotola di porcellana. Il taglio della lunga giacca nera rivelava inequivocabilmente la sua estraneità alla comunità fluviale. Non un uomo del fiume, dunque, forse un cittadino degli Stati dell’Est, o forse addirittura un forestiero, perché no? Era alto e robusto, seppur non quanto lo era Marsh; seduto, dava l’impressione di possedere una statura di tutto rispetto, tuttavia gli difettava la corpulenza che faceva di Marsh un gigante. Sulle prime, il Capitano lo giudicò vecchio, per via della testa apparentemente canuta. Poi, avvicinatosi a lui, s’accorse che i capelli non erano affatto bianchi, bensì di un biondo pallidissimo, e così, tutto d’un tratto, lo sconosciuto assunse un aspetto quasi fanciullesco. York era perfettamente rasato, non v’erano baffi o basette sul suo viso lungo e fresco, e la pelle era chiara al pari dei capelli. Le mani sembravano quelle di una donna, così pensò Marsh mentre le osservava, sovrastando il tavolo con la sua possente figura.
La punta del bastone picchiò sul tavolo. Il rumore, reso ovattato dalla tovaglia, fece del brusco appello un gentile invito. «Siete voi Josh York?» disse.
York sollevò lo sguardo e i loro occhi si incontrarono. Fino all’ultimo dei suoi giorni, Abner Marsh serbò il ricordo di quel momento: la prima volta che guardò gli occhi di Joshua York. Ogni suo pensiero, ogni suo progetto, tutto ciò che la sua mente aveva concepito fu risucchiato dal vortice degli occhi di York. Il ragazzo e il vecchio, il damerino e il forestiero, tutti questi personaggi svanirono in un solo istante, e rimase unicamente York, l’uomo, la sua forza, il sogno, l’intensità.
Gli occhi di York erano grigi, di una tenebrosità sconcertante in un viso dal pallore così straordinario. Le pupille, capocchie di spillo, nere e ardenti, pupille che trafissero Marsh, s’insinuarono dentro di lui, gli soppesarono l’anima. Il grigio intorno ad esse pareva vivo, mobile, come la nebbia che danza sul fiume in una notte oscura, quando le rive scompaiono, le luci scompaiono, e non c’è più nulla al mondo, solo il tuo battello, e il fiume, e la nebbia. Tra quelle nebbie, Abner Marsh scorse cose innumeri; visioni fugacemente intraviste, barlumi guizzanti e subito svaniti. Una lucida intelligenza si affacciava da quelle nebbie. Ma con essa si stagliava, oscura e raccapricciante, una belva, una bestia cieca e feroce, incatenata e furiosa, una fiera che ulula alla nebbia. Risa, solitudine, crudeli passioni; tutto ciò York aveva nei suoi occhi.
Ma più di ogni altra cosa, quegli occhi possedevano la forza, una forza terribile, una potenza spietata e inflessibile come quella del ghiaccio che aveva infranto i sogni di Marsh. E laggiù, tra quelle nebbie, Marsh sentì il ghiaccio muoversi, avanzare lentamente, così lentamente, e udì il fragore terrificante dei battelli che si frantumavano, distrutti come tutte le sue speranze.
In tutta la sua vita Abner Marsh aveva guardato tanti e tanti uomini, fissandoli negli occhi con quella stessa penetrante intensità. Ed anche stavolta prolungò il suo sguardo, indugiando il più possibile nella tenebra di quegli occhi. Con la mano serrata intorno al bastone, tanto forte da temere di spezzarlo in due, Marsh sostenne a lungo lo sguardo di York, poi, alla fine cedette, e distolse gli occhi da lui.
L’uomo seduto al tavolo spostò da un lato la sua minestra, e rivolgendo a Marsh un gesto d’invito, gli disse, «Capitano Marsh. Vi stavo aspettando. Prego, sedete con me.» Parlò con voce suadente, misurata e disinvolta.
«Sì,» disse Marsh, in un bisbiglio quasi impercettibile. Scostò una sedia dal tavolo e prese posto di fronte a lui. Marsh era un uomo di mole massiccia, alto più di un metro e ottanta e pesante più di centocinquanta chili. Aveva la faccia di un rosso acceso ed una barba folta e nera che, negli intenti del Capitano, avrebbe dovuto coprire un naso schiacciato e rincagnato ed una rigogliosa vegetazione di porri e verruche. Ma essa, pur con l’ausilio delle basette, faceva ben poco; di Marsh si diceva che fosse l’uomo più brutto del fiume, e lui lo sapeva. Con la pesante giacca blu da comandante, trapunta da una doppia fila di bottoni d’ottone, la sua figura s’imponeva fiera e temibile. Ma gli occhi di York lo avevano spogliato della sua traboccante aggressività. Quell’uomo era un fanatico, decise Marsh. Aveva già visto in passato occhi come quelli, sul volto di folli e di predicatori invasati, e una volta, quegli stessi occhi, li aveva veduti sul viso dell’uomo chiamato John Brown, laggiù, nel sanguinoso Kansas. Marsh non voleva aver nulla a che fare con fanatici, predicatori, proibizionisti e sostenitori della temperanza.
Ma quando York parlò, i suoi accenti non furono quelli di un fanatico. «Il mio nome è Joshua Anton York, Capitano J.A. York negli affari, semplicemente Joshua per gli amici. Spero che col tempo diverremo l’una e l’altra cosa: soci in affari e buoni amici.» Il suo tono era cordiale ma contenuto e razionale.
«Questo poi si vedrà,» rispose Marsh, incerto. Gli occhi grigi che lo fronteggiavano, sembravano adesso distaccati e vagamente divertiti; ciò che prima vi aveva scorto, qualunque cosa fosse, era sparito. Marsh si sentì confuso.
«Suppongo che abbiate ricevuto la mia lettera.»
«Ce l’ho qui con me,» disse Marsh, ed estrasse la busta ripiegata da una tasca del giaccone. Quand’era giunta, l’offerta gli era apparsa come un impossibile colpo di fortuna, la salvezza di tutto ciò che aveva temuto ormai irrimediabilmente perduto. Adesso, però, non ne era più così sicuro. «Voi vorreste entrare in affari partecipando ad un’impresa di navigazione, è così?» disse, protendendosi in avanti.
Apparve un cameriere. «Desiderate cenare con Mister York, Capitano?»
«Ve ne prego,» disse York con ardore.
«Sì, ne sarò lieto,» disse Marsh. Forse York poteva vincerlo con la potenza del suo sguardo, ma non c’era uomo lungo l’intero corso del fiume che potesse battere il suo appetito. «Prendo anch’io un po’ di quella minestra, e una dozzina di ostriche. Oh, e due polli farciti arrosto con patate. Ben croccanti, mi raccomando. E qualcosa di buono per annaffiarli. Cosa state bevendo, York?»
«Borgogna.»
«Benissimo, portane una bottiglia anche a me.»
York sembrava divertito. «Avete un appetito formidabile, Capitano.»
«Questa è una città for-mi-da-bi-le,» disse Marsh scandendo bene ogni sillaba. «Ed un fiume for-mi-da-bi-le, Mister York. Bisogna mettersi in forze. Non siamo a New York, e neppure a Londra.»
«Oh, ne sono ben consapevole,» rispose York.
«Beh, lo spero per voi, se avete seriamente intenzione di dedicarvi alla navigazione. I battelli qui, sono la cosa più for-mi-da-bi-le di tutto.»
«Veniamo agli affari, dunque, senz’altro indugio. Voi possedete una linea di navigazione per il trasporto di merci e passeggeri. Desidero acquistare metà dell’impresa, e visto che siete qui, immagino che la mia offerta vi interessi.»
«M’interessa in maniera considerevole,» confermò Marsh, «e altrettanto considerevole è la mia perplessità. Voi, York, non avete affatto l’aria di uno sprovveduto. E di sicuro, avete preso le dovute informazioni sul mio conto prima di scrivermi questa lettera.» Con un dito picchiettò sulla busta. «Sicché, per certo sapete che l’inverno scorso mi ha praticamente mandato in rovina.»
York non espresse commenti, ma qualcosa nella sua espressione invitò Marsh a continuare.
«La Fevre River Packet Company, sono io,» proseguì il Capitano. «L’ho chiamata così in ricordo del luogo in cui sono nato, lassù sul Fevre, vicino Galena, e non perché lavorassi solamente su quel fiume, il che, difatti, non è stato. Possedevo sei battelli, ed essi viaggiavano per lo più lungo il corso superiore del Mississippi, da St. Louis a St. Paul, con qualche puntata sul Fevre, l’Illinois e il Missouri. Gli affari andavano benone, ogni anno aggiungevo uno o due battelli nuovi, e contavo di inserirmi nel traffico commerciale dell’Ohio, o forse addirittura di entrare nella rete di scambi di New Orleans. Ma lo scorso luglio il mio Mary Clarke si incendiò per lo scoppio di una caldaia. Accadde nei pressi di Dubuque, bruciò proprio sulla linea di galleggiamento e ci furono un centinaio di morti. E quest’inverno — è stato un inverno terribile. Quattro dei miei battelli erano ormeggiati qui a St. Louis, per svernare capite, il Nicholas Perrot, il Dunlheit, il Sweet Fevre e l’Elizabeth A., nuovo di zecca, in servizio soltanto da quattro mesi. Oh, un battello così maneggevole, lungo quasi novanta metri, fornito di dodici grosse caldaie, veloce come ogni altro battello del fiume. Ero davvero orgoglioso del mio Lady Liz. Mi era costato la bellezza di 200.000 dollari, ma li valeva fino all’ultimo centesimo.»
In quell’istante fu servito il consommé. Marsh ne assaggiò un cucchiaio e si accigliò. «Scotta,» disse. «Beh, ad ogni modo, St. Louis è un ottimo posto per svernare. Quaggiù non fa mai troppo freddo, e mai troppo a lungo. Ma quest’inverno è stato diverso. Sì, signore. Il ghiaccio. Quel fiume si è gelato, maledettamente.» Marsh allungò sul tavolo una mano rossa ed enorme, il palmo all’insù, e lentamente serrò le dita in un pugno possente. «Mettetemi un uovo qui in mezzo, York, e avrete un’idea di quel che succede. Il ghiaccio può stritolare un battello più facilmente di quanto io possa rompere un uovo. E quando si spacca, oh, allora è ancora peggio. Blocchi gianteschi scivolano lungo il fiume, devastano le banchine, distruggono gli argini, sconquassano le imbarcazioni, quasi ogni cosa viene distrutta. Alla fine dell’inverno, avevo perso i battelli, tutti e quattro. Il ghiaccio me li ha portati via.»
«E l’assicurazione?» chiese York.
Marsh attaccò il consommé, risucchiando rumorosamente cucchiaiate di brodo. Tra una cucchiaiata e l’altra, scosse la testa. «Io non sono un giocatore, Mister York. Non ho mai contratto una polizza d’assicurazione. Assicurarsi è come giocare d’azzardo, solo che si scommette contro se stessi. Ogni mio guadagno, fino all’ultimo soldo, l’ho sempre investito nei miei battelli.»
York annuì. «Mi risulta che possediate ancora un battello.»
«Infatti,» disse Marsh. Finì la minestra e fece cenno che gli servissero la seconda portata. «L’Eli Reynolds, un piccolo battello di 45 metri con la ruota poppiera. Lo uso per i trasporti sull’Illinois, perché ha una scarsa trazione; l’ho portato a svernare a Peoria, così si è scansato il peggio della gelata. E questo è il mio patrimonio, signore, tutto ciò che mi è rimasto. Il guaio, Mister York, è che l’Ely Reynolds non vale granché. Nuovo, mi è costato soltanto 25.000 dollari, e sto parlando del ’50.»
«Sette anni,» osservò York. «Non è poi tanto tempo.»
Marsh scosse il capo. «Per un battello sette anni sono tanti, altroché se lo sono,» obiettò. «La maggior parte non dura più di quattro, cinque anni. Il fiume li divora. L’Ely Reynolds è stato costruito meglio di molti altri, cionondimeno non ha una lunga vita davanti a sé.» Il Capitano pose mano alle ostriche. Le raccoglieva dal piatto adagiate su metà del guscio e le ingoiava intere, annacquandone ciascuna con una salutare sorsata di vino. «Sicché, tutto considerato, sono piuttosto perplesso, Mister York,» continuò dopo aver fatto fuori una mezza dozzina di ostriche. «Volete comprare metà della mia impresa di navigazione che consiste solamente in un battello vecchio e sparuto. Nella vostra lettera accennate ad un prezzo d’offerta. Un prezzo troppo alto. Forse quando possedevo sei battelli, allora sì la Fevre River Packets valeva tanto. Ma ora no.» Ingollò un’altra ostrica. «Non vi basterebbero dieci anni ad ammortizzare un simile investimento, non con il Reynolds. Non può trasportare un carico cospicuo, né passeggeri in numero sufficiente a produrre utili accettabili.» Marsh si asciugò la bocca con il tovagliolo e scrutò lo straniero seduto dirimpetto. Il cibo lo aveva ristorato, ed ora si sentiva di nuovo se stesso, padrone della situazione. Gli occhi di York erano intensi, non c’era da dubitarne, ma nulla di così temibile si annidava in essi.
«Voi avete bisogno del mio denaro, Capitano,» fece York. «Perché mi state dicendo questo? Non temete che possa trovare un altro socio?»
«Io non sono fatto in quel modo,» disse Marsh. «Sono trent’anni che vivo sul fiume, York. Una zattera mi portò giù a New Orleans quand’ero ancora un ragazzo, e prima di navigare sui battelli ho lavorato su chiatte e barconi. Sono stato mozzo, timoniere, finanche commissario di bordo. Tutto ciò che si fa su barche e battelli io l’ho fatto. Tutto sono stato, fuorché una cosa. Non sono mai stato un truffatore.»
«Un uomo onesto,» disse York, e una sottile vena di sarcasmo trapelò dalla sua voce, una vena d’ironia vaga, però, quel tanto che serviva a negare a Marsh la certezza che l’uomo seduto di fronte a lui lo stesse deridendo. «Sono lieto che abbiate ritenuto giusto mettermi al corrente dello stato economico della vostra impresa, Capitano. A dire il vero, ne ero già a conoscenza. Ciò nonostante la mia offerta rimane tale.»
«Perché?» domandò Marsh con burbera foga. «Solo uno stupido getta via i suoi soldi. E voi non mi sembrate affatto uno stupido.»
La terza pietanza giunse prima che York avesse il tempo di rispondere. I polli di Marsh erano stati cotti a dovere, ben croccanti come piacevano al Capitano. Questi staccò una coscia e l’addentò famelicamente. A York fu servita una gigantesca bistecca di manzo, rossa e semicruda, galleggiante in un mare di sangue e sugo. Marsh osservò il commensale che affrontava il compito di tagliarla. Un’opera che intraprese con destrezza e disinvoltura. Il coltello scivolò nella carne come se questa fosse burro, senza mai fermarsi ad intaccare o a segare, cosa che sovente faceva Marsh. York maneggiava la forchetta col garbo di un nobile, scambiandola di mano quando deponeva il coltello. Forza e grazia; York le possedeva entrambe in quelle sue mani lunghe e pallide, e Marsh ne fu ammirato. Averle paragonate a mani da donna lo lasciò stupito. Erano bianche, ma forti; solide come i tasti bianchi del pianoforte a coda nel gran salone dell’Eclipse.
«Ebbene?» disse Marsh. «Non avete risposto alla mia domanda.»
Joshua York s’interruppe per un istante. Poi alla fine parlò, «Siete stato onesto con me, Capitano Marsh. Ed io non ripagherò la vostra onestà con delle menzogne, come del resto avevo inteso. Ma neppure vorrò gravarvi del fardello della verità. Ci sono cose che non posso rivelarvi, cose che di certo non vorreste apprendere. La mia offerta comporta il rispetto di alcune condizioni, lasciate che ve le sottoponga e vediamo se sarà possibile addivenire ad un accordo. In caso contrario, ci accomiateremo amichevolmente.»
Marsh strappò via il petto al secondo pollo. «Andate avanti,» disse. «Vi ascolto.»
York depose coltello e forchetta e congiunse le dita. «Per una serie di ragioni del tutto personali desidero diventare armatore di un battello. Voglio navigare lungo l’intero corso di questo grande fiume, e voglio farlo nell’agio e nella più completa riservatezza, non da passeggero, bensì da capitano. Ho un sogno, un fine. Cerco amici ed alleati, e ho nemici, molti nemici. I particolari non vi riguardano. Non insistete per conoscerli, vi mentirei. Non insistete mai.» Lo sguardo s’inasprì ferocemente per un solo istante, e subito si raddolcì mentr’egli sorrideva. «Ciò che può e deve interessarvi è il mio desiderio di possedere e comandare un battello, Capitano. Come voi stesso potete facilmente arguire, io non appartengo alla tribù del fiume. Non so nulla dei battelli, o del Mississippi, oltre a ciò che ho letto in qualche libro e ho appreso nelle settimane che ho trascorso a St. Louis. Ovvio, quindi, che abbia bisogno di un socio, di qualcuno che abbia la più totale familiarità col fiume e con la gente del fiume, uno che sappia svolgere e controllare le operazioni che il mio battello deve compiere quotidianamente, e che mi lasci libero di perseguire i miei scopi personali.
«Questo socio deve possedere anche altre qualità. Dev’essere discreto, giacché non desidero far sì che la mia condotta — che riconosco essere talora alquanto peculiare — divenga argomento di conversazione tra la gente che bazzica il lungofiume. Il mio socio dev’essere fidato, giacché deporrò nelle sue mani ogni comando. Dev’essere coraggioso. Non voglio uno smidollato, o un superstizioso, né un che sia eccessivamente religioso. Voi siete un uomo religioso, Capitano?»
«No,» disse Marsh. «Non ho mai digerito i bigotti, né loro me.»
York sorrise. «Pratico. Voglio un uomo pratico, concreto. Un uomo che si concentri sul proprio lavoro, e non mi faccia troppe domande. La riservatezza è un bene che tengo in gran conto, e se talvolta le mie azioni dovessero apparire bizzarre o arbitrarie o capricciose, ebbene esigo che non se ne abbia mai da ridire. Avete capito quali sono le mie richieste?»
Marsh si tirò pensosamente la barba. «In tal caso?»
«Diverremo soci,» affermò York. «Affiderete ai vostri avvocati e ai vostri impiegati la gestione della compagnia. Voi viaggerete con me sul fiume. Io sarò comandante. Voi potrete chiamarvi timoniere, capitano in seconda, qualunque titolo vogliate. Il comando effettivo del battello sarà comunque affidato a voi. I miei ordini non saranno frequenti, ma quella volta che comanderò qualcosa, voi farete in modo che venga ubbidito senza discutere. Con noi viaggeranno alcuni miei amici, avranno a disposizione una cabina a titolo gratuito. Potrei ritenere opportuno affidare loro delle mansioni sul battello, compiti che stabilirò a mia discrezione. Non discuterete queste decisioni. Potrei acquisire nuove amicizie durante le soste, ed ospitare a bordo anche queste. Accoglierete cordialmente i nuovi amici. Se saprete rispettare queste condizioni, Capitano Marsh, diverremo ricchi insieme e viaggeremo sul vostro fiume negli agi e nel lusso.»
Abner Marsh rise. «Beh, può darsi. Ma questo fiume non è mio, Mister York, e se pensate di viaggiare nel lusso sul vecchio Eli Reynolds, avrete una cocente delusione quando vi salirete a bordo. Quel battello è una vecchia bagnarola sgangherata e non offre che poverissime sistemazioni, e il più delle volte è zeppa come un uovo di forestieri che al prezzo di un passaggio ponte viaggiano da un posto improbabile all’altro. Sono due anni che non ci metto piede — adesso è il vecchio Capitano Yoerger a comandarlo al posto mio — ma l’ultima volta che ci ho viaggiato era ridotto proprio male. Voi che bramate il lusso, dovreste acquistare la comproprietà di gioielli come l’Eclipse o il John Simonds.»
Joshua York bevve un sorso di vino e sorrise. «Non avevo in mente l’Eli Reynolds, Capitano Marsh.»
«Ma quello è l’unico battello che possiedo.» York mise giù il bicchiere col vino. «Venite,» disse, «Spostiamoci di qua. Andiamo nella mia stanza, approfondiremo il discorso.»
Marsh protestò debolmente. Il Planters’ House offriva un eccellente dessert, e non gradiva l’idea di rinunciarvi. Tuttavia, dovette cedere alle insistenze di York.
La stanza di York era una suite spaziosa e ben arredata, la migliore sistemazione di cui disponeva l’albergo, solitamente riservata ai ricchi proprietari di piantagioni venuti su da New Orleans. «Sedetevi,» disse York imperiosamente, e con un cenno indicò un’ampia e comoda poltrona del soggiorno. Marsh si sedette mentre il suo ospite entrava in uno stanzino interno da cui fece ritorno dopo pochi istanti recando uno scrigno con rinforzi in ferro. Lo depose su di un tavolo e cominciò ad armeggiare con la serratura. «Venite qui,» disse, ma Marsh si era già alzato e gli stava alle spalle. York sollevò il coperchio.
«Oro,» disse piano Marsh. Allungò una mano e toccò le monete. Le fece scorrere tra le dita, assaporando il tocco del metallo biondo, lo splendore ed il tintinnio. Portò una moneta alla bocca e la saggiò. «Abbastanza puro,» sentenziò, sputando. Rigettò quindi la moneta nel piccolo forziere.
«Diecimila dollari in pezzi d’oro da venti,» disse York. «Ho altri due scrigni uguali a questo, e certificati di credito di banche di Londra, Filadelfia e Roma, per un ammontare assai maggiore. Accettate la mia offerta, Capitano Marsh, ed avrete un secondo battello, un battello di gran lunga più grande e potente del vostro Ely Reynolds. O forse, farei meglio a dire che noi due avremo un secondo battello.» Sorrise. Abner Marsh aveva deciso di rifiutare l’offerta di York. Aveva un disperato bisogno di quel denaro, ma era un uomo sospettoso e poco aduso ai misteri, e questo York pretendeva una dose eccessiva di fiducia cieca. L’offerta era buona, troppo buona; Marsh era certo che sotto sotto nascondesse un pericolo, un inganno, e se avesse accettato sarebbe stato lui a pagarne le consueguenze. Ma ora, abbacinato dal colore della ricchezza di York, la sua determinazione cominciò a vacillare. «Un nuovo battello, avete detto così?» disse senza vigore.
«Sì,» rispose York, «e questo è da considerarsi al di fuori della somma che sono disposto a pagare per acquistare la comproprietà della vostra linea di navigazione.»
«Quanto…» cominciò Marsh. Le labbra gli si seccarono. Le leccò nervosamente. «Quanto avreste intenzione di spendere per costruire questo nuovo battello, Mister York?»
«Quanto occorre?» chiese York tranquillamente.
Marsh sollevò una manciata di monete d’oro e le lasciò ricadere nello scrigno, facendosele scorrere tra le dita sonoramente tintinnati. Il luccichio di queste, pensò, ma non disse altro che, «Non dovreste portare con voi una somma simile, York. Ci sono canaglie che vi ucciderebbero per una sola di queste monete.»
«So proteggermi, Capitano,» replicò York. Marsh spiò lo sguardo dei suoi occhi e si sentì raggelare. Commiserò allora il ladro che avesse cercato di rubare l’oro di Joshua York.
«Fareste quattro passi con me? Lungo l’argine?»
«Non mi avete ancora dato una risposta, Capitano.»
«Avrete la vostra risposta. Prima andiamo laggiù. C’è una cosa che voglio farvi vedere.»
«Benissimo,» acconsentì York. Chiuse il coperchio dello scrigno ed il dolce luccichio giallo svanì dalla stanza, che d’improvviso sembrò angusta e tenebrosa.
La notte era fresca e densa d’umidità. Gli stivali dei due uomini riecheggiarono nelle strade oscure e deserte. Il passo di York, agile e aggraziato, quello di Marsh pesante e autoritario. York indossava una larga giacca da timoniere il cui taglio la faceva somigliare ad un corto mantello, e portava sul capo un alto cappello di castoro un po’ vecchiotto che proiettava lunghe ombre nel chiarore della mezza luna. Con occhi fiammeggianti Marsh scrutava i vicoli oscuri che si snodavano tra i magazzini di squallidi mattoni, e si studiava di esibire un aspetto solidamente e torvamente forte, sufficiente a tenere alla larga canaglie d’ogni sorta.
Una moltitudine di battelli erano allineati lungo l’argine; almeno quaranta, ormeggiati ai pontili d’attracco o alle barche da scarico. Neppure a quell’ora il lungofiume godeva di una pace completa. Cataste enormi di merci da carico disegnavano ombre nere nel chiarore della luna, e gruppi di scaricatori sfaccendati oziavano appoggiati a casse o a balle di fieno passandosi una bottiglia di mano in mano o fumando le loro pipe d’argilla. La luce brillava ancora dalle finestre delle cabine di una dozzina di battelli. Il Wyandotte, che navigava sul Missouri, era acceso e fumava vapore. Scorsero un uomo in piedi sull’alto ponte del Texas di un grande battello con le ruote laterali. Li stava guardando con curiosità. Abner Marsh e York passarono oltre; sfilarono davanti alla processione di battelli oscuri e silenziosi i cui alti fumaioli si stagliavano netti contro la volta stellata, simili ad una fila di alberi anneriti con le cime ingioiellate da bizzarre infiorescenze.
Finalmente il Capitano Marsh si fermò dinanzi ad un grande battello con le ruote a lato. Era un battello riccamente ornato, e sul ponte principale torreggiava una montagna di merci. Lo sbarcatoio era sollevato per evitare indesiderate intrusioni a bordo; la vecchia scialuppa logorata dalle intemperie gli dondolava accanto, strofinandosi sulla murata. Persino nel fioco lucore della mezza luna lo splendore di quel battello si mostrava con sfolgorante imponenza agli occhi dell’osservatore. Non c’era battello lungo l’argine che possedesse pari grandezza e superba fierezza.
«Sì?» disse York con voce sommessa e rispettosa. Quando in seguito il Capitano ripensò a quel momento, capì che probabilmente era stato proprio ciò che lo aveva spinto a compiere il passo — il rispetto nella voce di York.
«Ecco, questo è l’Eclipse,» disse Marsh. «Vedete, il nome è scritto lì, sulla ruota.» Indicò il punto con il bastone. «Riuscite a leggerlo?»
«Perfettamente. La mia vista notturna è ottima. Sicché, dite che questo battello è speciale?»
«Diavolo se lo è. Speciale, sì. È l’Eclipse. Tutti sul fiume, dal più giovane al più vecchio, lo conoscono. Ormai ha già fatto il suo tempo — è stato costruito nel ’52, cinque anni fa. Ma è ancora magnifico. Dicono che sia costato 375.000 dollari, e li vale tutti. Non c’è mai stato un battello più grande, più bello, più for-mi-da-bi-le di questo. Io me lo sono studiato con cura, ci ho viaggiato. So quello che dico.» Marsh indicò l’imbarcazione. «Misura 110 metri per dodici, e la grande sala è lunga 99 metri. Non s’è mai visto nulla di simile. A un’estremità c’è una statua d’oro di Henry Clay, e la statua di Andy Jackson si trova dalla parte opposta. E tutti e due si lanciano a vicenda occhiate fiammeggianti. Ci sono cristalli, argenti e vetri colorati che il Planters’ House non si sogna neppure; dipinti ad olio, cibi squisiti mai degustati, e gli specchi — oh, certi specchi. E questo è niente paragonato alla sua velocità.
«Laggiù, sul ponte di manovra, porta ben 15 caldaie. Ha una vogata di 3 metri e 30, ve lo dico per certo, e potete credermi che non c’è battello sul fiume che possa competere con l’Eclipse quando il Capitano Sturgeon lo fa filare a tutto vapore. Fa diciotto miglia all’ora controcorrente, e senza sforzo. Nel ’53 segnò il record di velocità nel percorrere il tratto da New Orleans a Louisville. Lo so a memoria quanto impiegò. Quattro giorni, nove ore, trenta minuti, e riuscì a battere il dannato A.L. Shotwell anticipandolo di cinquanta minuti. E l’A.L. Shotwell non è certo una lumaca.» Marsh si girò per fronteggiare York. «Avevo sempre sperato che un giorno il mio Lady Liz avrebbe potuto competere con l’Eclipse, superandolo in velocità o eguagliandolo, ma non avrebbe mai potuto, adesso lo so. So che m’illudevo, mi prendevo gioco di me stesso. Non possedevo il denaro che occorre a costruire un battello capace di tener testa all’Eclipse.
«Datemi voi quel denaro, Mister York, e avrete trovato un socio in affari. Questa è la mia risposta, signore. Volete metà della proprietà della Fevre River Packets ed un socio che mandi avanti la baracca in maniera discreta, senza ficcare il naso nei vostri affari? Ci sto. A patto che voi mi diate il denaro sufficiente a costruire un battello come questo.»
Joshua York fissò il grande battello con la ruota laterale. Quieto e silenzioso, dondolava tranquillo nell’oscurità, pronto a rispondere ad ogni sfida. York si rivolse ad Abner Marsh con un sorriso sulle labbra ed una fioca fiammella negli occhi tenebrosi. «Affare fatto,» fu tutto ciò che disse. E gli tese la mano.
Marsh si aprì in un sorriso sghembo scoprendo i denti rotti e sporgenti. La sua mano massiccia e carnosa si chiuse intorno a quella bianca e snella di York, e strinse. «Affare fatto, dunque,» disse ad alta voce ed impresse alla sua stretta tutta la potenza che occorreva a sorreggere, stringere e frangere, come sempre faceva quando concludeva un affare, al fine di saggiare la volontà ed il coraggio dell’uomo con cui stava trattando. E serrava con vigore, mollando la presa solo quando leggeva il dolore negli occhi del suo uomo.
Ma gli occhi di York rimasero limpidi, e la sua mano attanagliò quella di Marsh con una forza sorprendente. Con un vigore via via crescente, serrò quella mano, ed i muscoli sotto la pallida carne si arrotolarono e si tesero come molle di ferro, e Marsh inghiottì sonoramente e si sforzò di non gridare.
York abbandonò la presa. «Venite,» disse, dando a Marsh energiche pacche sulle spalle che lo fecero barcollare lievemente. «Abbiamo dei piani da fare.»