Abner Marsh possedeva una mente che non era dissimile dal suo corpo. Essa era grande in tutti i sensi, ampia nelle dimensioni ed altrettanto nelle capacità, ed in essa il Capitano poteva stiparvi ogni sorta di cose. Era anche forte; quando la mano di Abner Marsh prendeva qualcosa, era assai difficile che si lasciasse scivolar via tale cosa, e così, quando la sua mente afferrava qualcosa, era difficile che se la dimenticasse. Era un uomo possente con un cervello possente, ma c’era ancora un’altra qualità che accomunava corpo e mente: erano entrambi ponderati. Per qualcuno, magari, la parola giusta era ‘lenti’. Marsh non correva, non ballava, non saltellava né sgattaiolava; egli camminava, e la sua andatura dritta e solenne lo faceva giungere lì dove voleva andare. Lo stesso poteva dirsi per la sua mente. Abner Marsh non era lesto nella parola o nel pensiero, ma era lungi dall’esser stupido. Egli ruminava ben bene ogni cosa, e lo faceva al passo misurato che più gli si confaceva.
Mentre il Fevre Dream scivolava via dalle sponde di Natchez, il Capitano Marsh stava solo incominciando a rimuginare il racconto fattogli da Joshua York. E quanto più meditava su di esso, tanto più si sentiva sopraffare da una tormentosa inquietudine. Se si poteva dar credito alla storia bizzarra di Joshua York, accanito cacciatore di vampiri, un numero considerevole delle tante stranezze che avevano afflitto il Fevre Dream trovavano una spiegazione plausibile. Eppure, quel racconto non spiegava ogni cosa. La memoria lenta ma tenace di Abner Marsh seguitava oziosamente a sollevar quesiti, a vagare alla deriva tra i ricordi che fluttuavano nella sua testa come tronchi morti galleggianti sulle acque del fiume, buoni per nulla, ma fastidiosi.
Simon, per esempio. Simon che leccava zanzare.
La straordinaria vista notturna di Joshua.
E più di ogni altra cosa, la furiosa reazione che aveva avuto il giorno in cui Marsh era piombato nella sua cabina. Né quella visita lo aveva convinto ad uscire per assistere al sorpasso del Southerner. Questo era un particolare che turbava Marsh profondamente. Era facile per Joshua spiegare la sua preferenza per le ore notturne attribuendola all’esigenza di adeguarsi alle abitudini di quei suoi vampiri, ma ciò non giustificava affatto il modo in cui aveva reagito quel pomeriggio. La maggioranza della gente — rifletteva Marsh — viveva normalmente la propria vita durante il giorno, ma ciò non impediva a nessuno di gettarsi giù dal letto alle tre del mattino se vi fosse stato qualcosa d’interessante da vedere.
Marsh sentiva il bisogno impellente di parlarne con qualcuno. Jonathan Jeffers era un mostro in fatto di letture, e Karl Framm con ogni probabilità conosceva a memoria ogni maledetta storia che fosse stata mai raccontata lungo quel maledetto fiume; sia l’uno che l’altro sapevano di sicuro tutto ciò che c’era da sapere su questi assurdi vampiri. Fatto stava che non poteva parlarne con loro. Lo aveva promesso a Joshua, ed egli era obbligato nei confronti di quell’uomo, e certamente non lo avrebbe tradito una seconda volta. Non senza una buona ragione, comunque, e per il momento non aveva altro che sospetti mezzo abbozzati.
Sospetti che però andavano delineandosi più compiutamente ogni giorno che passava, consolidandosi man mano che il Fevre Dream scivolava sulle acque del Mississippi, discendendone il corso. Ora, normalmente, la navigazione procedeva di giorno, per far sosta al crepuscolo e poi ripartire il mattino successivo. Fortunatamente stavano facendo un tempo più accettabile rispetto al lento avanzare che aveva contraddistinto il viaggio fino a Natchez, e ciò, almeno, rincuorava Marsh. Ma vi furono altri cambiamenti che lo rallegrarono assai meno.
Marsh non provava alcuna simpatia per i nuovi amici di Joshua York ed evitò di dar loro confidenza; difatti, gli era bastato poco per decidere che fossero altrettanto strambi quanto gli altri amici del suo socio. Come quelli, si vedevano in giro solo di notte e condividevano tutte le altre loro bizzarrie. Di Raymond Ortega, Marsh notò subito la sua irrequietezza e lo giudicò un individuo indegno di fiducia. Restio a limitare il suo vagabondare nelle zone destinate alla circolazione dei passeggeri, si ostinava ad intrufolarsi in posti che non gli appartenevano. Si comportava in maniera sufficientemente educata, non senza però mescolare all’educazione una buona dose di alterigia e insolenza. Quell’uomo turbava Marsh. In un certo qual modo, lo raggelava.
La vicinanza di Valerie non era altrettante raggelante, ma non per questo meno inquietante. Ed inquietanti erano le sue parole, i sorrisi provocatori, e quegli occhi, quei suoi incredibili occhi. Inoltre, per essere la fidanzata di Raymond Ortega, la sua condotta era a dir poco ambigua. Fin dal primo istante fu in rapporti confidenziali con Joshua. Troppo maledettamente confidenziali, a giudizio di Marsh. Una signora che si rispetti sarebbe rimasta nella sala riservata al sesso femminile, ma Valerie trascorreva le sue notti in compagnia di Joshua nel grande salone, e talvolta passeggiava con lui sul ponte. Marsh sentì addirittura un uomo dire di averli visti salire insieme alla cabina di Joshua. Il Capitano tentò di mettere in guardia York sulle voci calunniose che cominciavano a circolare, ma Joshua reagì con una scrollata di spalle. «Abbiano pure il loro scandalo, se fa piacere alla ciurma,» disse. «Valerie mostra un grande interesse per il nostro battello ed io sono lieto di mostrarglielo. Non c’è nulla tra noi oltre l’amicizia, di questo vi do la mia parola.» Nel dire ciò assunse un’espressione un po’ mesta. «Potrei forse desiderare che fosse altrimenti, ma ciò che vi ho detto è la verità.»
«Sarà meglio che manifestiate con maggior cautela i vostri desideri,» sentenziò Marsh seccamente. «Quell’Ortega potrebbe avere altre idee in merito. Viene da New Orleans, potrebbe essere un creolo. Sapete, Joshua, è gente che non ci mette granché a battersi in duello per un nonnulla.»
Joshua York sorrise. «Non ho paura di Raymond, ma vi ringrazio per l’avvertimento, Abner. E adesso, vi prego, lasciate che io e Valerie ci comportiamo come meglio ci aggrada.»
E Marsh lo fece, ma non senza un certo disagio. Ea sicuro che prima o poi Ortega avrebbe piantato qualche grana, specie quando Valerie divenne la compagna fissa di Joshua York nelle notti che seguirono. Quella dannata femmina lo stava rendendo cieco a tutti i pericoli che lo circondavano, ma non v’era nulla che il Capitano Marsh potesse fare per aprirgli gli occhi.
E quello fu solo l’inizio. Ad ogni approdo, nuovi sconosciuti salivano a bordo e a tutti Joshua assegnava prontamente una cabina. Una notte, a Bayou Sara, lui e Valerie lasciarono il battello e vi fecero ritorno portando con sé un uomo pallido e massiccio, un certo Jean Ardant. A pochi minuti di distanza da lì, un nuovo scalo, presso un deposito di legname, Ardant era sbarcato ed era andato a prelevare un damerino dal colorito olivastro di nome Vincent. A Baton Rouge altri quattro sconosciuti si erano aggregati alla cricca; altri tre a Donaldsonville.
E poi cominciarono quei pranzi. Quando la strana comitiva si fece più numerosa, Joshua York ordinò che un tavolo fosse sistemato nella saletta del Texas, e lì prese l’abitudine di pranzare a mezzanotte con i suoi compagni, vecchi e nuovi. La cena la consumavano nel salone con tutti gli altri passeggeri, ma questi pranzi erano privati. La consuetudine ebbe inizio a Bayou Sara. Una volta Abner Marsh confessò a Joshua che l’idea di consumare regolarmente un pasto a mezzanotte gli piaceva proprio, ma questa sua confidenza non bastò a fargli guadagnare un invito. Joshua si limitò a sorridere, e i banchetti continuarono, con un numero di convitati che cresceva di notte in notte. Alla fine la curiosità ebbe il sopravvento sulla discrezione ed Abner Marsh fece in modo di capitare dalle parti della saletta un paio di volte, così da rimediare almeno una sbirciatina dalla finestra. Non che vi fosse granché da vedere. Gente seduta a mangiare e a conversare. Le lampade ad olio effondevano fiochi chiarori, le tende erano semichiuse. Joshua sedeva a capotavola, Simon alla sua destra e Valerie alla sinistra. Tutti bevevano l’abominevole elisir di Joshua, del quale erano state stappate parecchie bottiglie. La prima volta che Marsh si mise a girovagare in quei paraggi, Joshua stava parlando animatamente mentre tutti gli altri stavano in ascolto. Valerie lo fissava quasi con adorazione. Quando Marsh riuscì a sbirciare nella saletta per la seconda volta, Joshua stava ascoltando Jean Ardant, una mano posata casualmente sulla tovaglia. Marsh restò qualche istante ad osservare e vide Valerie adagiare la sua mano sopra quella di Joshua. Questi la guardò e le sorrise affettuosamente. Valerie ricambiò quel sorriso. Gli occhi di Abner Marsh cercarono lesti Raymond Ortega. «Maledetta, stupida femmina,» borbottò il Capitano tra i denti, e si allontanò alla svelta, aggrottando le sopracciglia.
Marsh si sforzava di trarre un senso, un significato da tutto ciò, dalla presenza di tutti quegli eccentrici individui e dalle loro stramberie, da tutto ciò che Joshua York gli aveva detto a proposito dei vampiri. Ma venirne a capo non era facile, e quanto più si provava a cavar qualcosa dalle sue riflessioni, tanto più cresceva la sua confusione. La biblioteca del Fevre Dream non comprendeva testi che avessero a che fare con vampiri e creature simili, e Marsh non aveva la minima intenzione di introdursi ancora una volta nella cabina di Joshua. Quando furono a Baton Rouge, il Capitano si recò in città, nelle locande più popolari, e offrì da bere agli altri avventori, sperando, tra una chiacchiera e l’altra, di trarre qualche informazione interessante. Faceva in modo di introdurre nella conversazione l’argomento dei vampiri, di solito rivolgendosi agli altri bevitori dicendo, «Ditemi un po’, non avete mai sentito parlare di vampiri, qui sul fiume?» Immaginava che fosse un espediente meno pericoloso che introdurre l’argomento direttamente sul battello: lì quella parola da sola sarebbe bastata a far scatenare le male lingue.
Qualcuno gli rise in faccia o lo guardò con una strana espressione. Un uomo di colore, libero, un tipo corpulento, nero come la fuliggine e col naso rotto, uno che Marsh aveva avvicinato in una taverna particolarmente fumosa, se la diede a gambe non appena il Capitano gli fece quella domanda. Marsh tentò di rincorrerlo ma non ci volle molto perché quello sparisse alla vista lasciandolo indietro ansimante. Altri sembravano piuttosto informati sui vampiri, ma niente di ciò che gli dissero aveva minimamente a che fare con il Mississippi. Si sentì ripetere la stessa tiritera sulle croci, l’aglio, le bare piene di terreno, tutte cose che aveva udito dalle labbra di Joshua, solo con qualche particolare in più.
Marsh prese a sorvegliare con maggiore attenzione la condotta di York e compagni quando si incontravano a cena e dopo il pasto, nel salone. Stando a quanto gli avevano detto, i vampiri non mangiavano e non bevevano, ma Joshua e gli altri tracannavano copiose quantità di vino, whiskey e brandy quando non attingevano dalla riserva personale di York, e tutti indistintamente sembravano fin troppo lieti di far giustizia di un saporito pollo o di una bistecca di maiale.
Joshua non mancava mai di esibire il suo anello d’argento, con lo zaffiro grosso quanto l’occhio di un piccione, e nessuno dei suoi amici sembrava infastidito dall’argenteria disseminata a profusione in tutta la sala. Utilizzavano correttamente le posate d’argento quando mangiavano, e lo facevano meglio della maggior parte dei membri dell’equipaggio del Fevre Dream.
E quando a sera venivano accesi i lampadari, gli specchi che tappezzavano il salone luccicavano fulgidamente ed in essi prendevano vita folle di sagome elegantemente abbigliate le cui immagini si riflettevano nelle brillanti superfici, immagini che danzavano, bevevano e giocavano a carte proprio come i loro gemelli corporei facevano nell’autentico salone. Notte dopo notte, Abner Marsh si scopriva a spiare in quegli specchi. Joshua era sempre lì dove sarebbe dovuto essere, a sorridere, a ridere, a scivolare da uno specchio all’altro sotto braccio a Valerie, a parlare di politica con un passeggero, ad ascoltare i racconti del fiume dalla bocca di Framm, a conversare in privato con Simon o Jean Ardant; ogni notte mille Joshua York calcavano i tappeti che rivestivano il ponte del Fevre Dream, e ciascuno di essi era vivo e splendido al pari di tutti gli altri. Quanto ai suoi amici, anche la loro immagine appariva puntualmente negli specchi.
Ciò sarebbe dovuto bastare a dissipare i dubbi del Capitano, ma la mente ostinata e sospettosa di Marsh continuava ad essere turbata. E soltanto quando giunsero a Donaldsonville, egli concepì un piano che avrebbe dovuto fugare ogni suo timore. Si recò in città munito di una borraccia che riempì d’acqua santa prelevata in una chiesa cattolica che sorgeva nei pressi del fiume. Ciò fatto, chiamò a parte il ragazzo che serviva al loro capo della tavola e gli diede cinquanta centesimi. «Stasera riempi il bicchiere d’acqua del Capitano York con questa, hai capito?» gli disse Marsh. «Voglio fargli uno scherzo.»
A sera, per tutto il tempo della cena il giovane cameriere non fece altro che osservare il Capitano York, impaziente di vedere lo scherzo realizzato. Ne fu deluso. Joshua vuotò il bicchiere d’acqua santa con quanta naturalezza fosse mai possibile. «Beh, maledizione,» mormorò Marsh a se stesso. «Questo dovrebbe risolvere definitivamente la questione.»
Ma neppure quella prova estrema bastò a tranquillizzarlo, e quella sera Abner Marsh si scusò con i commensali e si allontanò dal salone. Aveva bisogno di pensare. Sedeva da un paio d’ore sulla veranda del Texas, da solo, la sedia reclinata all’indietro ed i piedi poggiati sul parapetto, quando udì un fruscio di sottane sulla scaletta.
Valerie salì sul ponte e gli si pose accanto, abbassando il capo per sorridergli. «Buona sera, Capitano Marsh,» gli disse.
Il Capitano, accigliato, ritirò i piedi dal parapetto e la sedia ricadde di botto sull’assito del ponte. «Ai passeggeri non è permesso salire sul Texas,» disse, sforzandosi di celare il suo disappunto.
«Faceva così caldo di sotto. Ho pensato che forse quassù sarebbe stato un po’ più fresco.»
«Beh, questo è vero,» replicò Marsh in tono incerto. Non sapeva proprio cos’altro avrebbe potuto dire dopo. La verità era che le donne lo avevano sempre fatto sentire a disagio. Non c’era posto per loro nel mondo di un battelliere, e Marsh non aveva mai imparato il modo giusto di comportarsi col gentil sesso. Se poi erano belle, il disagio era ancora maggiore, e Valerie lo sconcertava come qualsiasi elegante matrona di New Orleahs.
Gli stava accanto in piedi con una mano snella delicatamente avvolta intorno ad una colonnina intarsiata, e gli occhi persi tra le onde che si inseguivano verso Donaldsonville. «Raggiungeremo New Orleans domani, vero?» chiese.
Marsh si alzò dalla sedia, immaginando che probabilmente non fosse corretto restare seduto mentre lei era in piedi. «Sì, signora,» rispose. «Solo poche ore, e ho intenzione di entrare in città a tutto vapore, perciò non ci metteremo niente ad arrivare.»
«Capisco.» D’improvviso Valerie si voltò, ed il suo viso pallido e perfetto apparve estremamente serio mentre fissava il Capitano con quegli immensi occhi purpurei. «Joshua dice che siete voi il vero comandante del Fevre Dream. Curiosamente mitre un grande rispetto per voi. Vi darà ascolto.»
«Siamo soci,» disse Marsh.
«Se il vostro socio fosse in pericolo, verreste in suo aiuto?»
Abner Marsh si rabbuiò, ripensando a ciò che Joshua gli aveva detto dei vampiri, consapevole della bellezza e del pallore di Valerie incantevole nel chiarore stellare, consapevole dell’abissale profondità dei suoi occhi. «Joshua sa che può venire da me se si trova in difficoltà,» disse Marsh. «Un uomo che non aiuti il suo socio non può affatto considerarsi un uomo.»
«Parole,» disse Valerie in tono sprezzante, gettando indietro i folti capelli neri. Il vento s’intrecciava tra essi e li scarmigliava, ondulandoli tutt’intorno al suo viso mentr’ella parlava. «Joshua York è un grand’uomo, un uomo forte. Un re. Merita un socio migliore di voi, Capitano Marsh.»
Abner Marsh sentì un’ondata di sangue corrergli al volto. «Di cosa diavolo andate parlando?» sbottò.
Lei sfoderò un sorriso scaltro. «Vi siete introdotto nella sua cabina,» disse.
La furia di Marsh esplose improvvisa. «È stato a lui a dirvelo?» fece. «Che sia maledetto, avevamo già risolto quella faccenda. In ogni caso, non è cosa che vi riguardi.»
«Lo è,» ribatté Valerie. «Joshua corre un grave pericolo. E Joshua è audace, incauto. È necessario che qualcuno lo aiuti. Io voglio farlo, ma voi, Capitano Marsh, siete l’unico a cui da ascolto.»
«Non ho la più pallida idea di cosa stiate dicendo, signora,» disse Marsh. «Che genere di aiuto occorrerebbe a Joshua? Io mi sono offerto di aiutarlo con quei dannati vam… a risolvere dei problemi che ha dovuto affrontare, ma non ha voluto sentirne.»
D’un tratto l’espressione di Valerie si fece più dolce. «Vorreste aiutarlo per davvero?» gli chiese.
«Dannazione, è il mio socio.»
«E allora invertite la rotta del vostro battello, Capitano Marsh. Portateci via di qua, portateci a Natchez, a St. Louis, non fa differenza. Ma non a New Orleans. Non dobbiamo andare a New Orleans domani.»
Abner Marsh sbuffò. «Perché diavolo non dovremmo?» domandò. Anziché rispondergli, Valerie volse altrove lo sguardo, ed allora il Capitano continuò. «Questo è un battello, sapete, non è un cavallo che posso dirigere dove mi pare e piace. Abbiamo un programma da rispettare, passeggeri da imbarcare, merci da scaricare. Dobbiamo andare necessariamente a New Orleans.» Aggrottò le sopracciglia. «E poi, cosa direbbe Joshua?»
«All’alba si sarà ritirato a dormire nella sua cabina,» disse Valerie. «Quando si sveglierà, staremo risalendo il fiume e saremo già fuori pericolo.»
«Joshua è il mio socio,» riaffermò Marsh. «Un uomo deve potersi fidare del suo socio. Se ho sbagliato una volta, non intendo farlo ancora, né per voi né per nessun altro. E non cambierò la rotta del Fevre Dream senza dirglielo. Ora, se Joshua viene da me e mi dice che non vuole andare a New Orleans, diavolo, in quel caso ne possiamo discutere. Ma non altrimenti. Volete che vada io stesso a chiedergli cosa ne pensa?»
«No!» esclamò d’impulso Valerie, in tono allarmato.
«Credo proprio che andrò a dirglielo lo stesso,» fece Marsh. «Deve sapere che siete pronta a tramare contro di lui non appena vi volta la schiena.»
Valerie gli prese un braccio tra le mani. «Vi prego, no,» implorò. La sua stretta era possente. «Guardatemi, Capitano Marsh.»
Abner Marsh era deciso ad andarsene, ma qualcosa nella voce di lei lo costrinse ad obbedirle. Il Capitano guardò quegli occhi di porpora, e continuò a guardarli, senza potersene staccare.
«Non è poi così difficile guardarmi,» disse Valerie, sorridendo. «Vi ho sorpreso a guardarmi più d’una volta, Capitano. Non riuscite a togliermi gli occhi di dosso, non è forse vero?»
Marsh aveva la gola terribilmente secca. «Io…»
Di nuovo Valerie gettò i capelli all’indietro, in un gesto pieno di foga selvaggia. «Non è possibile che nei vostri sogni vi siano soltanto battelli, Capitano Marsh. Questa nave è una fredda signora, un’amante avara. La calda carne è più generosa del legno e del ferro.» Era la prima volta che Marsh udisse una donna parlare in quel modo. Restò lì impietrito. «Avvicinatevi,» lo invitò Valerie, e lo trasse verso di sé, finché non vi furono che pochi centimetri a separarlo dal suo viso rivolto all’insù. «Guardatemi,» gli disse. Il Capitano percepiva il caldo palpito vibrante di lei, così vicina, raggiungibile, e quegli occhi gli parvero vasti laghi purpurei, freddi laghi di seta, irresistibilmente invitanti. «Voi mi desiderate, Capitano,» disse lei in un sussurro.
«No.»
«Oh, voi mi volete, invece. Vedo il desiderio ardervi negli occhi.»
«No,» protestò Marsh. «Voi siete… Joshua…»
Valerie rise; un riso leggero, etereo, sensuale, musicale. «Non prendetevi pena per Joshua. Prendete ciò che desiderate. Avete paura, è questo che vi frena. Non abbiate paura.»
Abner Marsh era scosso da brividi violenti, e nel fondo della sua coscienza capì con un sussulto che stava tremando per il desiderio. Mai nella sua vita aveva desiderato una donna con tale ardore. Eppure, in qualche modo, egli non voleva abbandonarsi a quella brama, la combatteva invece, malgrado gli occhi di Valerie lo attraessero sempre più verso di lei, ed il mondo intero fosse ormai pervaso dal suo profumo.
«Conducetemi nella vostra cabina, Capitano, ora,» fu un sussurro. «Stanotte sono vostra.»
E Marsh, con flebili accenti, «Lo volete?» Il sudore gli colava dalla fronte, annebbiandogli gli occhi. «No,» riuscì a mormorare. «Non, non si può…»
«Sì, si può,» si oppose lei. «Non avete che da farmi una promessa.»
«Una promessa?» ripeté Marsh con voce roca.
Gli occhi violetti fiammeggiarono, ammiccanti. «Portateci via, lontano da New Orleans. Promettetemelo e mi avrete. Bruciate dalla voglia, lo sento.»
Abner Marsh sollevò le mani e le posò sulle spalle di lei. Tremava. Aveva le labbra secche. Avrebbe voluto stringerla a sé, schiacciarla contro il suo corpo, avvolgerla in un possente abbraccio bestiale, scaraventarla sul suo letto. Ed invece, senza saper come o perché, il Capitano fece appello a tutta la forza ch’era in lui e la respinse malamente. Ella gridò, si sbilanciò e cadde su un ginocchio. Marsh, libero ora dalla prigionia di quegli occhi, esplose in un boato. «Andate via di qua!» ruggì. «Via da questo ponte! Che razza di donna infernale siete voi? Andate via! Non siete altro che una… andate via di qua!»
Valerie sollevò nuovamente il viso verso quello di lui, e le labbra, tratte all’indietro, snudavano i denti. «Io posso farvi…» cominciò rabbiosamente.
«No,» disse Joshua York. Un fermo, calmo diniego che giunse dalle spalle di lei.
Joshua era apparso dalle ombre così improvvisamente da sembrare che la tenebra stessa si fosse materializzata fino a prender forma umana. Valerie lo guardò fissamente, emise un lieve suono gutturale e fuggì via, dileguandosi giù per la scala.
Marsh si sentiva così spossato che a stento si reggeva in piedi. «Maledizione,» biascicò. Prese un fazzoletto da una tasca e si asciugò il sudore dalla fronte. Quando ebbe finito, scorse Joshua che lo guardava pazientemente. «Non so cos’abbiate visto, Joshua, ma non è come pensate.»
«So esattamente come sono andate le cose, Abner,» replicò Joshua. Dal tono non sembrava particolarmente adirato. «Sono stato qui quasi per tutto il tempo. Quando mi sono accorto che Valerie aveva lasciato il salone, sono uscito anch’io a cercarla, e nel salire la scaletta ho sentito le vostre voci.»
«Io invece non mi sono accorto di voi,» disse Marsh.
Joshua sorrise. «So essere molto silenzioso quando ciò conviene ai miei propositi, Abner.»
«Quella donna,» disse Marsh. «È… si è offerta di… all’inferno, non è altro che una maledetta…» Le parole stentavano a sortire. «Non è una signora,» concluse debolmente. «Mandatela via, ed anche quell’Ortega.»
«No.»
«Perché diavolo no?» protestò Marsh con un ruggito. «L’avete sentita!»
«Ciò non cambia le cose,» disse Joshua con voce calma. «Semmai, ciò che ho udito me la rende ancor più cara. Lo avrebbe fatto per me, Abner. Lei tiene a me più di quanto sperassi, più di quanto osassi augurarmi.»
Abner Marsh sbottò in furiose imprecazioni. «State dicendo un mucchio di assurdità.»
Joshua sorrise dolcemente. «Forse no. Ad ogni modo, ciò non deve preoccuparvi, Abner. Lasciate che sia io ad occuparmi di Valerie. Non cagionerà altri problemi, statene certo. Era solo spaventata.»
«Di New Orleans,» aggiunse Marsh. «Dei vampiri. Lei sa.»
«Sì.»
«Siete sicuro di poter affrontare ciò verso cui ci stiamo imbattendo, qualunque cosa sia?» fece Marsh. «Se volete saltare lo scalo a New Orleans, ditelo allora, dannazione! Valerie è dell’avviso che…»
«E voi, Abner, cosa ne pensate voi?» gli chiese Joshua.
Marsh lo scrutò muto per un lungo, lunghissimo momento. Poi disse, «Penso che andremo a New Orleans,» ed entrambi sorrisero.
E fu così che il Fevre Dream il mattino seguente entrò nel porto di New Orleans, con l’azzimato Dan Albright al timone ed Abner Marsh ritto e fiero sul ponte, con la sua giacca da capitano ed il capello nuovo fiammante. Il sole brillava ardente in un cielo azzurro, intensamente azzurro, e piccole onde dorate si formavano intorno ad ogni spuntone di roccia, ad ogni pur modesta escrescenza, rendendo visibile qualunque possibile ostacolo ed agevolando in tal modo la navigazione che procedeva, dunque, ad un tempo strepitoso. Il molo di New Orleans era gremito di battelli e d’ogni sorta di velieri; il fiume danzava, vivo, nel concerto dei loro fischi, al rintoccare delle loro campane.
Marsh, appoggiato al suo bastone, contemplava la città che si stagliava immensa avanti a sé, ed intanto ascoltava il Fevre Dream lanciar segnali alle altre navi coi rintocchi della sua campana e col selvaggio, acuto sibilare delle sue ciminiere. Molte volte nella sua lunga carriera di uomo del fiume, era giunto a New Orleans, ma mai era stato come stavolta, mai vi era approdato dominandola dal ponte del suo battello, il più grande, il più bello, il più veloce di quanti se ne vedevano lungo il molo. In quel momento Abner Marsh si sentiva come il Signore della Creazione.
Una volta ancoratisi al molo, bisognava, però, darsi da fare: scaricare le merci, accaparrarsi nuove consegne per il viaggio di ritorno a St. Louis, far pubblicare avvisi pubblicitari nei giornali locali. Marsh decise inoltre che la compagnia avrebbe dovuto aprire una sua agenzia laggiù, sicché si mise immediatamente al lavoro cercando una sede appropriata, aprendo un conto bancario ed assumendo un agente. Quella sera cenò al St. Charles Hotel con Jonathan Jeffers e Karl Framm, ma la sua mente stentava a concentrarsi sulle gustose pietanze per divagare verso i pericoli che tanto spaventavano Valerie e domandandosi che cosa si accingesse a fare il suo socio Joshua York.
Quando Marsh fece ritorno al battello, Joshua stava conversando con i suoi compagni nella saletta del Texas e non notò nulla di strano o di diverso dal solito, solo che Valerie — sedutagli accanto — aveva un’aria in qualche modo crucciata, turbata. Marsh andò a coricarsi e cancellò dalla mente tutta la faccenda, e nei giorni che seguirono non ci pensò che sporadicamente. Il Fevre Dream lo teneva molto impegnato durante il giorno, e di notte trascorreva il suo tempo a banchettare nei ristoranti del centro, a farsi vanto del suo battello tra un brindisi e l’altro nelle taverne del porto, a passeggiare lungo il Vieux Carré ammirando l’incantevole sfilata delle bellissime dame creole, il lusso dei cortili, delle fontane, delle logge. E così, dapprincipio, Marsh pensò che New Orleans era bella come lui la ricordava.
Ma poi, poco alla volta, una strana inquietudine cominciò a crescere in lui, una vaga sensazione di disagio che lo portava a vedere cose a lui familiari con occhi ora diversi. Il clima era bestiale; durante il giorno l’afa era opprimente, e solo la brezza del fiume rendeva un po’ più sopportabile quell’aria densa e umida. Giorno e notte, fetide esalazione si levavano dalle fogne a cielo aperto, putridi miasmi che aleggiavano sulle acque stagnanti come un abominevole profumo. Non c’era da stupirsi che sovente a New Orleans imperversasse la febbre gialla, pensò Marsh. La città straripava di negri liberi, di giovani ed avvenenti meticci e di mulatte vestite con la stessa eleganza delle donne bianche. Ma essa era altrettanto gremita di schiavi. Li si poteva vedere ovunque, a sbrigar faccende per i loro padroni, seduti come tanti derelitti o a far pugni nei recinti di Moreau e Common Street, andare e venire dai Mercati della Borsa in lunghe file incatenate, occupati a spurgare le fogne. Neppure laggiù, sui pontili del molo, l’occhio sfuggiva ai segni dello schiavismo: i grandi battelli con le ruote laterali che smaltivano il traffico commerciale di New Orleans trasportavano continuamente negri su e giù per il fiume, e Abner Marsh ne vedeva sempre arrivare o partire a frotte ogniqualvolta si recava al Fevre Dream. Il più delle volte, gli schiavi viaggiavano in catene, accalcati miserabilmente tra le merci, a sudar l’anima al calore dei forni.
«Oh, è disgustoso,» si lamentò Marsh con Jonathan Jeffers. «Non è igienico. E sentite bene cosa vi dico, non voglio niente del genere sul Fevre Dream. Nessuno appesterà mai il mio battello con roba simile, chiaro?»
Jeffers gli rivolse uno sguardo di ironica approvazione. «Bravo, Capitano. Però, se non facciamo il traffico di schiavi, perderemo un bel mucchio di soldi. Parlate come un abolizionista.»
«Non sono affatto un dannato abolizionista,» protestò Marsh, infervorandosi, «ma quel che ho detto lo penso sul serio. Se un gentiluomo vuol portare con sé un paio di schiavi, servitori e cose simili, sta bene, nulla da ridire. Darò loro un posto sul ponte o una cabina, non m’importa un bel niente. Ma prenderli a bordo come merce, tutti incatenati da un maledetto trafficante, questo no.»
Alla settima notte di sosta a New Orleans, Abner Marsh provò una strana nausea per quella città e divenne impaziente di partire. Quella stessa notte Joshua York scese nel salone per la cena con alcune carte fluviali tra le mani. Marsh aveva incontrato raramente il suo socio da quando erano arrivati lì. «Che ve ne pare di New Orleans?» chiese Marsh a York mentre questi prendeva posto a tavola.
«Oh, la città è bella,» rispose York con uno strano turbamento nella voce che indusse Marsh ad alzare gli occhi dal panino che stava imburrando. «Non posso che ammirare il Vieux Carré. New Orleans è completamente diversa da ogni altra città fluviale che abbiamo visto finora, la si potrebbe quasi equiparare ad una città europea; ed anche nel quartiere americano vi sono splendide costruzioni. Ciò nondimeno, non mi piace star qui.»
Marsh si rabbuiò. «Per quale ragione?»
«Questo luogo mi suscita una brutta sensazione, Abner. Il caldo, i colori sgargianti, gli odori, gli schiavi — è una città viva, questa New Orleans, ma dentro di sé, dietro la sua appariscente vitalità, ho l’impressione che marcisca, putrida di malattia. È tutto così ricco e bello qui, la cucina, i modi della gente, l’architettura, ma oltre questo…» Scosse il capo. «Ovunque si vedono sontuosi cortili ciascuno dei quali boriosamente ostenta la sua magnifica fontana. E poi si vedono carrettieri vendere acqua del fiume raccolta in barili, ed allora si comprende che l’acqua di quelle fontane è malsana, e non la si può bere. Si gustano cibi ricchi di saporite salse e piccanti intingoli, e poi si scopre che le spezie hanno il solo intento di celare il fatto che la carne sta andando a male. Se si passeggia nel St. Louis, l’occhio cade sullo splendore dei marmi e sulla stupenda cupola dove una pioggia scintillante di luce si riversa sulla rotonda, e poi s’apprende che quel luogo magnifico è un famoso mercato di schiavi dove esseri umani vengono venduti come fossero capi di bestiame. Qui anche nei cimiteri regna la bellezza. Non si trovano modeste lapidi o croci di legno, ma sontuosi mausolei marmorei, ciascuno più imponente di quello che l’ha preceduto, e tutti sormontati da sculture e nobilitati da alti sentimenti espressi in poetici versi scolpiti nella pietra. Ma dentro ognuno di questi santuari v’è un cadavere putrescente, brulicante di vermi. I morti devono essere imprigionati nella pietra perché il terreno non è buono neppure a seppellirveli, e le fosse si riempiono d’acqua. E così la pestilenza incombe su questa bellissima città come una lugubre cappa.
«No, Abner,» concluse Joshua con un’espressione strana e distante nei profondi occhi grigi. «Io amo la bellezza, ma talvolta una cosa bella all’apparenza cela in sé il male e l’abiezione. Più presto lasceremo questa città, tanto più ne sarò lieto.»
«Corpo del diavolo!» esclamò Abner Marsh. «Che possa essere dannato se ne so il perché, ma è la stessa cosa che provo io. Non temete, ce ne andremo via di qua al più presto.»
Joshua York storse la bocca. «Certo,» disse. «Ma non prima di aver assolto il mio ultimo compito.» Spostò da un lato il suo piatto e spiegò la mappa che aveva portato con sé a tavola. «Domani, all’alba, voglio che il Fevre Dream continui a discendere il corso del fiume.»
«A discendere il fiume?» disse Marsh sbigottito. «Diavolo, cosa può esserci d’interessante per noi più giù? Qualche piantagione, un mucchio di cajun, paludi, canali, e poi il Grande Golfo.»
«Guardate,» disse York, e col dito tracciò un percorso lungo il Mississippi. «Seguiamo il corso del fiume fino a questo punto, poi imbocchiamo questo ramo secondario e procediamo per circa sei miglia, fino a qui. Non impiegheremo molto tempo, e potremo essere di ritorno a New Orleans la notte seguente, così da prendere a bordo i passeggeri diretti a St. Louis. Voglio fare una breve sosta qui.» Il dito si abbatté fermamente sopra un punto della mappa.
Abner Marsh aveva davanti a sé una bistecca di prosciutto di maiale, ma la ignorò, e si protese al di sopra di essa per scorgere il punto indicato da Joshua.
«Cypress Landing,» lesse sulla carta. «Beh, non saprei.» Guardò intorno a sé il salone per tre quarti vuoto non essendoci passeggeri a bordo. Karl Framm, Whitey Blake e Jack Ely stavano mangiando al capo opposto del tavolo. «Mister Framm,» lo chiamò Marsh, «venite un momento qui.» Quando Framm lo ebbe raggiunto, gli indicò il percorso tracciato da York. «Potete portarci fin laggiù, e poi risalire questo ramo secondario? O siamo troppo grossi?»
Framm si strinse nelle spalle. «Alcuni di questi rami paludosi sono abbastanza larghi e profondi, altri invece, non reggerebbero neppure una barchetta a remi, figurarsi un battello. Ma credo di poterlo fare. Laggiù è fitto di piantagioni e punti d’approdo, se possono arrivarci altri battelli… Però, è pur vero che la maggior parte di loro non sono grandi e grossi come il Fevre Dream. Ciò ci farà andare un po’ più lentamente. Dovremo far scandagli per tutto il percorso, ed essere molto attenti alle secche e agli spuntoni rocciosi, e quasi sicuramente saremo costretti a segare una montagna di rami d’albero se non vogliamo che ci spezzino in due i fumaioli.» Si chinò a studiare la carta. «Dove andiamo esattamente? Sono sceso laggiù al massimo una volta o due.»
«In un posto chiamato Cypress Landing,» rispose Marsh.
Framm serrò le labbra pensosamente. «Non dovrebbe essere troppo difficoltoso. È la vecchia piantagione dei Garoux. I battelli ci andavano regolarmente, a prendere le patate dolci e lo zucchero di canna da portare a New Orleans. Garoux è morto, però, e con lui tutta la sua famiglia. Da allora non si è più sentito parlare del Cypress Landing. Un momento, ora mi viene in mente di aver sentito raccontare alcuni fatti, strane storie, proprio su quei luoghi. Perché andiamo lì?»
«Una faccenda del tutto personale,» disse Joshua York. «Voi preoccupatevi solo di condurci laggiù, Mister Framm. Partiremo domani all’alba.»
«Siete voi il comandante,» disse Framm, e con questo se ne ritornò al suo pasto.
«Dove diavolo è finito il mio latte?» si lamentò Abner Marsh. Si guardò intorno. Il cameriere, un giovinetto negro dalla figura snella, esitava presso la porta della cucina. «Ti decidi o no a servirmi la cena?» gli urlò in un boato che fece sobbalzare il ragazzo visibilmente. Marsh tornò a rivolgersi a York. «Questo viaggio,» disse. «Fa parte… di quella cosa di cui mi avete parlato?»
«Sì,» fu la recisa replica di York.
«Pericoloso?» incalzò Marsh.
Joshua York scrollò le spalle.
«Non mi piace,» disse Marsh, «questa faccenda dei vampiri.» Nel pronunziare la parola vampiri la sua voce si affievolì in un sussurro.
«Presto sarà tutto finito, Abner. Farò una breve visita a questa piantagione, sistemerò alcune cose e porterò via con me alcuni amici. Allora sarà proprio finita.»
«Lasciate che venga con voi,» fece Marsh. «Solo per questa volta. Non voglio dire che non vi credo, ma sarebbe assai più facile darvi credito se potessi vedere uno di quei — voi sapete cosa — con i miei occhi.»
Joshua lo guardò. Marsh ricambiò quello sguardo per un breve istante, ma qualcosa negli occhi di York sembrò tendersi verso di lui, fino a toccarlo, e d’improvviso, senza una spiegazione logica, s’era rivolto a guardare altrove. Joshua ripiegò la mappa fluviale. «Non ritengo che sarebbe una mossa saggia,» disse, «ma ci penserò. Scusatemi, adesso. Devo sbrigare alcune cose.» Si alzò e lasciò la tavola.
Marsh lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava, pervaso da un’inquietante incertezza sul significato di quanto era appena accaduto tra loro. Poi, infine, mormorò, «Comunque sia, accidenti a lui,» e rivolse la sua attenzione alla bistecca che lo attendeva.
Alcune ore più tardi, Abner Marsh ebbe dei visitatori.
Si trovava nella sua cabina, e tentava di dormire. Il colpo leggerò lo fece destare di soprassalto quasi avesse avuto la potenza di un tuono, e Marsh sentì il palpitare selvaggio del suo cuore. Era spaventato, senza conoscerne la ragione. La cabina era immersa nell’oscurità più nera. «Chi è?» gridò. «Al diavolo!»
«Sono io, Toby, Capitano,» giunse la risposta in un sommesso bisbiglio.
La paura di Marsh si dissolse istantaneamente e gli sembrò la cosa più stupida del mondo. Toby Lanyard era la persona più mite e gentile che avesse mai messo piede sopra un battello. «Vengo,» fece Marsh, ed accese una lampada presso il comodino prima di andare ad aprire la porta.
Due uomini lo attendevano fuori. Toby poteva avere sessant’anni o giù di lì, era calvo ad eccezione di una frangia di grigi capelli ferrigni che gli orlava il cranio nero, la faccia consunta, rattrappita e nera come un paio di vecchi e comodi stivali. Con lui c’era un negro più giovane, un tipo tarchiato con un abito costoso. Nella penombra, ce ne volle un po’ perché Marsh lo riconoscesse come Jebediah Freeman, il barbiere che aveva assunto su a Louisville. «Capitano,» esordì Toby, «noi vorremmo parlarvi, in privato, se possibile.»
Marsh li invitò ad entrare con un gesto. «Di che si tratta, Toby?» chiese, chiudendo la porta.
«Siamo qui a fare da portavoce, Capitano,» disse il cuoco. «Voi mi conoscete da molto tempo, sapete che non vi mentirei.»
«Certo che lo so,» disse Marsh.
«E non sarei neppure capace di abbandonarvi. Mi avete dato la libertà e tutto il resto perché lavorassi per voi. Ma ci sono alcuni tra gli altri negri, i fuochisti ed altri manovali, che non vogliono dare ascolto a me e neppure a Jeb quando diciamo loro che siete un uomo giusto e rispettabile. Hanno paura, e vogliono filarsela. Il ragazzo che serviva a tavola stasera, ha sentito che parlavate col Capitano York. Dicevate che saremmo andati laggiù, in quel posto dei Cipressi, e adesso tutti i negri non parlano d’altro.»
«Ebbene?» fece Marsh. «Non siete mai andati laggiù prima d’ora, nessuno di voi. Cos’avete contro Cypress Landing?»
«Oh, niente, Capitano,» rispose Jeb. «Ma qualcuno degli altri ne ha sentito parlare. Corrono strane voci su quel luogo, Capitano. Brutte storie. Tutti i negri sono fuggiti via di lì per le brutte cose che vi accadevano. Cose terribili, Capitano, terribili.»
«Siamo venuti a chiedervi di non andare laggiù, Capitano,» disse Toby. «Voi lo sapete, non vi ho mai chiesto niente, questa è la prima volta.»
«Non sarà un cuoco né un barbiere a dirmi dove portare il mio battello,» disse Abner Marsh con severa fermezza. Ma poi, guardò in faccia Toby, e si ammansi. «Non accadrà nulla,» promise, «ma se per caso voi due volete aspettare qui a New Orleans, non c’è alcun problema, restate pure. Non avremo bisogno del cuoco e del barbiere per una gitarella così breve.»
Toby parve subito grato per quella soluzione, tuttavia disse, «I fuochisti, però…»
«Quelli mi servono.»
«Non resteranno, Capitano, ve lo dico io.»
«Mike il Peloso avrà sicuramente un paio di paroline da dire al proposito.»
Jeb scosse la testa. «Quei negri hanno paura di Mike il Peloso, oh, sì, se ne hanno, ma quel posto dove volete portarci li spaventa ancora di più. Se la squaglieranno, sicuro come la morte.»
Marsh imprecò. «Branco di maledetti imbecilli,» disse. «Non possiamo navigare senza fuochisti. Ma è Joshua che vuole questo viaggio, non io. Datemi il tempo di mettermi qualcosa addosso e andrò a cercare il Capitano York. Gli dirò come stanno le cose.»
I due negri si scambiarono un’occhiata senza aggiungere parola. Joshua York non era solo. Quando Marsh fu davanti alla porta della cabina del comandante, sentì la voce del suo socio, ritmica e sonora, risonare dall’interno. Marsh esitò, poi borbottò un’imprecazione non appena si rese conto che Joshua stava declamando dei versi, e ad alta voce. Martellò sulla porta con la punta del bastone e York s’interruppe, invitandolo ad entrare.
Joshua sedeva tranquillo con un libro in grembo, un lungo, pallido dito a segnare il verso, un bicchiere di vino sul tavolo accanto a lui. Valerie occupava l’altra poltrona. Alzò gli occhi su Marsh e subito distolse lo sguardo. Da quella notte sul Texas aveva preso ad evitarlo, e Marsh, dal canto suo, non trovava difficile ignorarla. «Diglielo, Toby,» ordinò il Capitano.
Il vecchio cuoco sembrò avere maggiori difficoltà nel trovare le parole rispetto a quando aveva denunciato i fatti a Marsh, ma dopo qualche esitazione alla fine vuotò il sacco. E quando ebbe terminato restò lì impalato con gli occhi bassi, a contorcere tra le mani il vecchio e logoro cappello.
Joshua York lo guardò con occhi severi. «Di cosa hanno paura quegli uomini?» chiese in un tono freddo e garbato.
«Di morire, signore.»
«Da’ loro la mia parola che li proteggerò.»
Toby scosse il capo. «Capitano York, non per mancarvi di rispetto, ma quei negri hanno paura anche di voi, specialmente ora che volete portarci laggiù.»
«Credono che siate uno di loro,» intervenne Jeb. «Voi e i vostri amici, volete portaci laggiù dagli altri, è questo che pensano gli uomini a bordo. Quelle strane voci raccontano di gente che non esce mai allo scoperto con la luce del giorno, e voi fate lo stessa cosa, Capitano, esattamente la stessa cosa. Io e Toby, beh, è naturale, sappiamo che non è così, ma gli altri no.»
«Di’ loro che raddoppierò la paga per tutto il tempo che staremo laggiù,» disse Marsh.
Toby non alzò gli occhi, ma si limitò a scuotere il capo. «Non gli importa dei soldi a quelli, fuggiranno lo stesso.»
Abner Marsh bestemmiò. «Joshua, se quelli non si fanno convincere neppure dai soldi o da Mike il Peloso, vuol dire che non c’è niente da fare. Dovremo sbarazzarcene, fuochisti, scaricatori ed altri, e ne assumeremo di nuovi, solo che la cosa ci porterà via un po’ di tempo.»
Valerie si protese in avanti e posò la mano sul braccio di York. «Ti prego, Joshua,» disse con voce quieta. «Da’ ascolto a quanto ti dicono. Questo è un segno. Non era destino che ci andassimo. Riportaci a St. Louis. Hai promesso di farmi vedere St. Louis.»
«E lo farò,» disse Joshua, «ma non prima di aver concluso il mio compito.» Si rivolse quindi a Jeb e Toby con il volto rabbuiato da una severa espressione. «Non avrei grosse difficoltà a raggiungere Cypress Landing via terra,» disse. «E non c’è dubbio che sarebbe il modo più semplice e rapido di ottenere i miei scopi. Ma ciò non mi soddisfa, signori. Che questo sia o non sia il mio battello, che io ne sia o non ne sia il comandante, non permetterò che l’equipaggio diffidi di me. Non permetterò che i mei uomini abbiano paura di me.» Depose sul tavolo il libro di poesie con un tonfo ben udibile — era visibilmente frustrato. «Finora ho fatto qualcosa che vi abbia arrecato danno, Toby?» domandò Joshua. «Ho forse maltrattato qualcuno della vostra gente? Ho fatto una qualsiasi cosa tale da giustificare simili sospetti?»
«No, signore,» disse Toby in un filo di voce.
«Tu dici di no, eppure loro sono pronti a disertare malgrado ciò?»
«Signorsì, Capitano, temo di sì,» disse Toby.
Il volto di Joshua York assunse un’espressione dura e determinata. «E se dimostrassi di non esser ciò che credono io sia?» Gli occhi guizzarono da Toby a Jeb e viceversa. «Se mi vedessero alla luce del giorno, avrebbero fiducia in me?»
«No,» sbottò Valerie, sconvolta. «Joshua, non puoi…»
«Posso,» disse lui, «e voglio farlo. Ebbene, Toby?»
Il cuoco sollevò la testa, vide gli occhi di York ed annuì lentamente. «Beh, forse… se vedessero che non siete…»
Joshua scrutò a lungo i due negri. «Molto bene,» disse infine. «Pranzerò con voi domani pomeriggio. Apparecchiate il mio posto a tavola.»
«Ch’io sia dannato,» fece Abner Marsh.