CAPITOLO TREDICESIMO

A bordo del Fevre Dream
NEW ORLEANS
Agosto 1857

Joshua scelse l’abito bianco per recarsi a pranzo, e Toby superò se stesso. La notizia non aveva tardato a diffondersi, com’era prevedibile, e praticamente l’intero equipaggio del Fevre Dream si rese disponibile per l’occasione. I camerieri, impeccabili nella lindura delle loro eleganti giacche bianche, sciamavano in un flusso continuo tra la cucina e la sala, recando le portate del sontuoso banchetto di Toby offerte su grandi vassoi fumanti e finissime porcellane. Questo il menù servito ai convitati: zuppa di tartaruga e insalata d’aragoste, granchi ripieni e animelle lardellate, pasticcio d’ostriche e costolette di castrato, tartaruga d’acqua dolce, pollo fritto, rape e peperoni imbottiti, roast beef e costolette di vitello impanate, patate irlandesi, mais, carote, carciofi e fagioli, pane, panetti e panini a profusione, vino e liquori del bar e latte fresco procurato in città, vassoi di burro freschissimo e infine, per dessert, budino di prugne, torta al limone, sorbetti ai vari gusti e pan di spagna con crema al cioccolato.

Mai in vita sua Abner Marsh aveva mangiato pietanze più succulente di quelle. «Corpo di mille diavoli,» disse, rivolgendosi a York. «Perché non venite più spesso a pranzo quaggiù?»

Joshua, dal canto suo, quasi non toccò cibo. A vederlo nel luminoso chiarore diurno, sembrava tutt’altra persona; avvizzito, in un certo qual senso, e meno imponente. Sotto i fasci di luce che filtrava dagli osteriggi la sua pelle chiara assumeva un pallore malaticcio, e Marsh vi scorse una terrea patina grigiastra. Inoltre, sembrava che si muovesse con una lentezza letargica, intervallata, talora, da scatti concitati, ed in quelle movenze non c’era nulla della grazia e della possente energia che di norma appartenevano alla sua persona. Ma la diversità più impressionante la si riscontrava nei suoi occhi. Ombreggiati dall’ampia tesa del cappello bianco ch’egli portava sul capo, gli occhi apparivano stanchi, infinitamente stanchi. Le pupille ridotte a due minuscole capocchie di spillo, e la grigia corolla che le incorniciava, smorta, sbiadita, priva della sua intensità cromatica, quella intensità che così sovente Marsh vi aveva scoperto.

Ciò nondimeno, Joshua era là, ed era questa l’unica cosa che contava. Era uscito dalla sua cabina in pieno giorno ed aveva percorso i ponti scoperti fino alla scala, poi, giunto nel salone, si era seduto al suo posto per desinare al cospetto di Dio, dell’equipaggio, di tutti. Ed ora, dinanzi ad una simile indiscutibile realtà, ogni timore, ogni fola, cui le sue abitudini notturne avevan dato origine, si dissolsero all’istante, e mentre una cascata di luce inondava Joshua York ed il suo candido vestito, tutto parve indicibilmente stupido. Joshua fu tranquillo per tutta la durata del pranzo, limitandosi a dare laconiche risposte a chi gli rivolgeva delle domande, ed interloquendo raramente nella conversazione con commenti personali. Quando venne servito il dessert, spostò da un lato il piatto che gli stava davanti e depose il coltello stancamente. «Chiamate Toby,» disse.

Il cuoco apparve dalla cucina e si fece avanti, sporco di farina e unto d’olio. «Non vi è piaciuto il cibo, Capitan York? Non avete mangiato quasi niente.»

«Era ottimo, Toby. Il fatto è che purtroppo a quest’ora del giorno non ho molto appetito. Però, fatto sta che sono qui. E credo proprio di aver dato una sufficiente dimostrazione.»

«Sì signore. Adesso non ci saranno più problemi.»

«Perfetto.»

Quando Toby fu ritornato in cucina, York si rivolse a Marsh. «Ho deciso di rimandare la partenza di un giorno ancora,» disse. «Partiremo da qui domani al tramonto, anziché stasera.»

«Bene, d’accordo, Joshua. Mi passereste un’altra fetta di quella torta, per favore?»

York sorrise e gliela porse.

«Capitano, stasera sarebbe meglio che domani,» disse Dan Albright, intento a pulirsi i denti con uno stecchino d’osso. «Sento puzza di burrasca in arrivo.»

«Domani.»

Albright alzò le spalle.

«Toby e Jeb possono restare qui,» riprese York. «Di fatto è mia intenzione utilizzare le unità dell’equipaggio strettamente necessarie a governare il battello. I passeggeri che si troveranno a bordo prima della partenza saranno fatti sbarcare e attenderanno qualche giorno a terra finché non saremo tornati. Non verrà accettato a bordo nessun carico di merci, sicché anche gli scaricatori saranno esonerati dal servizio per qualche giorno. Porteremo con noi una sola guardia. È attuabile tutto ciò?»

«Ritengo di sì,» rispose Marsh, e coprì con lo sguardo la lunga tavola. Gli ufficiali stavano tutti guardando Joshua con visibile curiosità.

«Domani al tramonto, allora,» ribadì York. «Adesso vogliate scusarmi. Devo riposare.» Si alzò, e per un breve istante sembrò malfermo sulle gambe. Marsh si affrettò ad alzarsi a sua volta, ma York gl’impedì con un gesto di soccorrerlo. «Sto bene,» disse. «Ora è meglio che mi ritiri nella mia cabina. Fate in modo che non venga disturbato finché non saremo pronti a lasciare New Orleans.»

«Non scenderete per la cena stasera?» gli chiese Marsh.

«No.» Gli occhi di York scivolarono lungo le pareti del salone. «Decisamente lo preferisco di notte. Lord Byron non si sbagliava. Il giorno è davvero troppo sfarzoso.»

Il Capitano Marsh: «Eh?»

«Non vi ricordate?» fece York. «La poesia che vi recitai ai cantieri di New Albany. Si adatta così bene al Fevre Dream. Ella in bellezza incede…»

«…come la notte,» continuò Jeffers, accomodandosi gli occhiali. Abner Marsh si volse a guardarlo, la bocca aperta dallo sbigottimento. Che Jeffers fosse un demonio nel fare i conti e nel giocare a scacchi, beh, era cosa risaputa, né lo aveva stupito la sua abitudine di frequentare teatri, ma che recitasse poesie gli giungeva davvero nuova.

«Voi conoscete Byron!» esclamò York, estasiato. E tale fu la sua gioia che in quell’istante parve tornare ad essere la persona che fin’allora avevano conosciuto.

«Lo conosco,» ammise Jeffers, inarcando un sopracciglio mentre osservava York. «Capitano, state forse suggerendo che i nostri giorni qui sul Fevre Dream siano giorni trascorsi nella bellezza e nella grazia?» Sorrise. «Beh, per Mister Framm e Mike il Peloso sarà una novità di sicuro.»

Mike il Peloso si mise a ridere sguaiatamente. Framm, invece, inalberò la sua protesta, «Ehi, un momento, solo perché ho tre mogli devo esser giudicato un cattivo soggetto? E poi, sapete, ognuna di esse non esiterebbe un istante a farsi garante della mia onestà.»

«Ma di cosa diavolo andate cianciando?» s’intromise Abner Marsh. La maggior parte degli ufficiali e dei membri dell’equipaggio sembravano disorientati almeno quanto lui.

E Joshua, sorridendo evasivamente: «Mister Jeffers mi sta rammentando la strofa finale della poesia di Byron. Prese allora a declamare:

E su quelle gote, e su quella fronte,

Così dolce, serena, eppur sì eloquente,

I sorrisi che vincono, i colori che s’accendono,

Ma parlano di giorni nella grazia trascorsi,

Una mente in pace con tutto quel che v’è intorno,

Un cuore che amor sente innocente!

«Siamo innocenti noi, Capitano?» fece Jeffers.

«Nessuno è mai innocente fino in fondo,» replicò Joshua York, «ma la poesia, ciò nondimeno, giunge anche a me e mi parla, Mister Jeffers. La notte è bella, e possiamo sperare di trovare la pace e l’armonia nel suo cupo splendore. Son troppi gli uomini che temono l’oscurità irragionevolmente.»

«Forse,» dubitò Jeffers. «Tuttavia, a volte la si deve temere.»

«No,» fu il secco diniego di Joshua York, e con esso abbandonò la comitiva, interrompendo così, bruscamente, la schermaglia verbale che lo aveva contrapposto a Jeffers. Non appena se ne fu andato altri commensali cominciarono a lasciare la tavola per attendere ai loro compiti, ma Jonathan Jeffers rimase al proprio posto, rapito dai suoi pensieri, lo sguardo fisso verso un punto distante nella parte opposta della sala. Marsh si sedette e si accinse a finire l’ennesima razione di torta. «Mister Jeffers,» disse, «non ci capisco più niente. Cosa sta succedendo su questo fiume? Maledette poesie. Che bene può mai portare tutto quel parlare forbito? Se questo Lord Byron aveva qualche cosa da dire, ebbene, perché non l’ha detta in parole chiare e semplici? Avanti, datemi una risposta.»

Jeffers posò gli occhi smarriti sul Capitano Marsh. «Scusate, Capitano,» disse, sbattendo le palpebre. «Per la verità stavo cercando di ricordare una cosa. Cos’è che avete detto?»

Marsh ingollò una poderosa forchettata di torta, ne facilitò la deglutizione con una sorsata di caffè e ripeté la domanda.

«Beh, sapete, Capitano,» rispose Jeffers con un sorrisetto ironico, «la ragione fondamentale è nella bellezza della poesia. Il modo in cui le parole si compongono e si armonizzano insieme, i ritmi, le immagini che evocano. Sentir declamare versi ad alta voce è assai gradevole. Le rime, la loro musicalità, il mero suono.» Un sorso di caffè. «È una cosa difficile da spiegare se non la si sente. Diciamo che somiglia molto ad un battello, Capitano.»

«Non ho mai visto una poesia bella come un battello a vapore,» commentò Marsh aspramente.

Jeffers sogghignò. «Capitano, perché il Northern Light ha quella grossa immagine dell’Aurora dipinta sulla ruota? Non ne ha mica bisogno! Le pale ruoterebbero con altrettanto vigore senza di essa. Perché sulla nostra timoniera, e su tante altre, abbondano ornamenti, fregi, incisioni e così via, perché ogni battello che si rispetti è stracarico di tappeti, lussuosi rifinimenti in legno, dipinti ad olio ed elaborati trafori? Perché le nostre ciminiere hanno le cime infiorate? Il fumo ne verrebbe fuori altrettanto agevolmente se fossero dritte.»

Marsh ruttò ed aggrottò le sopracciglia.

«Si potrebbe benissimo costruire battelli semplici, senza pretese, spogli di qualsiasi orpello. Ma così come sono, è più piacevole guardarli, ammirarli, e viaggiarci sopra. Questo stesso concetto è alla base della poesia, Capitano. Un poeta potrebbe esprimere un suo pensiero in modo semplice e diretto, certo che potrebbe, ma se quello stesso pensiero viene espresso in versi e rime esso si eleva e diviene sublime, magnifico.»

«Beh, può darsi,» borbottò Marsh dubbiosamente.

«Scommetto di riuscire a trovare una poesia che possa piacere persino a voi,» lo sfidò Jeffers. «Byron ne scrisse per l’appunto una che fa al caso nostro. S’intitola La Distruzione di Sennacherib

«Che posto è mai quello?»

«È di una persona che si tratta, non di un luogo,» corresse Jeffers. «Una poesia su di una guerra, Capitano. Possiede un ritmo meraviglioso. Versi che galoppano, vivi e trascinanti come Le ragazze di Buffalo.» Si alzò e si raddrizzò la giacca. «Venite con me, ve la faccio vedere.»

Marsh mandò giù il caffè fino all’ultimo sorso, si staccò finalmente dalla tavola e seguì Jonathan Jeffers nella biblioteca del Fevre Dream. Si abbandonò con grande riconoscenza alla comoda imbottitura di un’ampia poltrona mentre il commissario di bordo spulciava tra gli scaffali che riempivano la stanza svettando fino al soffitto. «Eccolo,» esultò finalmente Jeffers, prelevando un volume di dimensioni piuttosto consistenti. «Sapevo che da qualche parte dovevamo avere un libro con le poesie di Byron.» Incominciò a sfogliare le pagine, alcune delle quali non erano mai state aperte, cosa ch’egli fece servendosi di un’unghia, e continuò a sfogliarle finché non ebbe trovato l’oggetto della sua ricerca. Ed allora assunse una postura di circostanza e lesse, La Distruzione di Sennacherib.

Effettivamente la poesia possedeva un suo ritmo, Marsh dovette riconoscerlo, un movimento interno che acquistava vigore grazie soprattutto all’appassionata interpretazione di Jeffers. Niente a che vedere, comunque, con Le ragazze di Buffalo. Però, tutto sommato, quei versi non gli dispiacquero. «Non è male,» ammise quando Jeffers ebbe finito. «Solo il finale lascia un po’ a desiderare. Questi dannati bigotti piazzano il Signore quasi dappertutto.»

Jeffers si mise a ridere. «Lord Byron non era esattamente un bigotto, ve lo assicuro. Anzi, era un dissoluto, o almeno tanto se ne diceva.» L’ometto assunse un’espressione pensosa e ricominciò a girare le pagine.

«Cosa state cercando adesso?»

«La poesia che volevo ricordare a tavola. Byron scrisse un’altra lirica sulla notte, decisamente l’opposto di… ah, eccola.» Gli occhi corsero su e giù lungo la pagina. Jeffers annuì, poi, «Ascoltate questa, Capitano. Il titolo è Tenebre.» Cominciò a declamare:

«Ho fatto un sogno, che un sogno affatto non era,

Il fulgido sole s’era spento e le stelle

Erravano incerte nello spazio eterno,

Oscure, alla deriva, e la Terra gelata

Dondolava cieca, oscurantesi nell’area senza luna;

Il mattino giungeva e se n’andava — e ritornava,

Senza recar giorno,

E gli uomini dimenticaron le loro passioni nel terrore

Della loro desolazione; e tutti i cuori

Si raggelarono nell’egoistica preghiera per la luce…»

Via via che la lettura procedeva, la voce del commissario di bordo aveva assunto un tono cupo e sinistro. Ed intanto la poesia si scioglieva, lunghissima, più lunga d’ogni altra. Marsh non tardò a perdere il filo delle parole, ma queste riuscivano ugualmente a penetrargli l’anima, avvolgendo la stanza tutta intera in una terrificante coltre di gelo. Frasi e segmenti di versi indugiavano nella mente del Capitano; la poesia era gravida di terrore, di preghiere vane e di disperazione, ebbra di follia, di pire funerarie, rigurgitante di guerra, di fame, affollata d’uomini ridotti al rango di bestie.

«…un pasto fu col Sangue portato, e ciascuno

Si saziò ostilmente dall’altro appartato

Ingozzandosi avido nelle tenebre celato; nulla più

Dell’Amor era rimasto; e la terra intiera

Un sol pensier levava — ed esso era Morte

Meschina e subitanea; e i tormenti della fame

Si placavano sulle viscere degli altri — uomini

Perivano e le loro ossa insepolte restavano

Al pari della carne;

E l’affamato dall’affamato veniva divorato…»

Jeffers leggeva e leggeva senza posa, ed il male si sommava al male in una macabra danza, finché, ad un certo punto, egli concluse:

«Dormivano nell’abisso immoto

Le onde eran morte; le maree sepolte nella loro tomba,

La Luna, loro Signora, s’era spenta prim’ancora;

I venti disseccati nell’aria stagnante,

E le nuvole perite; nessun bisogno avevano le Tenebre

Del loro aiuto — Essa era l’Universo.»

Jeffers richiuse il libro.

«Vaneggiamenti,» commentò Marsh. «Sembra il delirio di un febbricitante.»

Jonathan Jeffers abbozzò un pallido sorriso. «Del Signore qui non c’è neppure l’ombra,» sospirò. «A mio avviso, Byron possedeva due concezioni diverse dell’oscurità. In quella poesia s’avverte una preziosa, lieve innocenza. Mi domando se il Capitano York la conosce.»

«Naturale,» disse Marsh, sporgendosi in avanti dalla poltrona. «Date un po’ qua.» Protese la mano.

Jeffers gli porse il libro. «Cominciate ad interessarvi di poesia, Capitano?»

«Questo non vi riguarda.» Marsh fece scivolare in tasca il libro di poesie. «Non avete nulla di cui occuparvi nel vostro ufficio?»

«Certamente,» replicò Jeffers, e prese congedo.

Per tre o quattro minuti, Abner Marsh restò immobile, lì nella biblioteca, pervaso da una stranissima sensazione; quella poesia aveva avuto il potere di turbarlo profondamente. Dopotutto, pensò, questa faccenda delle poesie poteva avere un qualche significato. Decise così di dare un’occhiata a quel libro a tempo perso, e scoprirlo da solo.

Buona parte del pomeriggio e della prima serata impegnarono il Capitano Marsh in una serie di incombenze che gli tolsero dalla mente quel proposito, sicché il libro finì dimenticato in tasca. Karl Framm aveva in programma una cena al St. Charles di New Orleans, e Marsh decise di fargli compagnia. Era quasi mezzanotte quando fecero ritorno al Fevre Dream. Fu allora che il libro gli capitò di nuovo tra le mani, mentre si svestiva nella sua cabina. Lo appoggiò con delicatezza sul comodino, indossò la camicia da notte e si dispose ad una breve lettura al lume di candela.

Letta di notte, nella penombra solitaria dell’angusta cabina, Tenebre gli sembrò ancor più sinistra, sebbene le parole sulla pagina avessero ormai perduto in buona parte quella fredda aura di minaccia di cui Jeffers le aveva avvolte. Tuttavia, esse furono egualmente inquietanti. Il Capitano girò alcune pagine e lesse Sennacherib ed Ella in bellezza incede, e poi altre poesie ancora, ma i suoi pensieri ritornavano oziosamente ad errare nel cupo reame di Tenebre. Nulla poté la calura della notte contro il gelo che fece accaponar la pelle delle braccia di Abner Marsh.

Sul frontespizio del libro vi era un ritratto di Byron. Marsh lo esaminò attentamente. Sembrava decisamente attraente, bruno e sensuale come un creolo; era più che comprensibile che ottenesse tanto successo con le donne nonostante fosse presumibilmente zoppo. Naturalmente era anche un nobile. Lo si leggeva sotto la sua immagine:


GEORGE GORDON, LORD BYRON 1788 — 1824

Abner Marsh si soffermò su quel volto, studiandolo per un po’, e si scoprì invidioso dei bei tratti del poeta. La bellezza era qualcosa che non aveva mai vissuto dal di dentro; sognare battelli grandiosi, magnifici, compensava forse la cospicua carenza di bellezza ch’egli sapeva in sé. Con quella sua mole mastodontica, le sue verruche, quel naso spiaccicato sulla faccia, Marsh non s’era mai dato troppa pena per le donne. Da giovane, quando discendeva il fiume a bordo di chiatte e zattere, frequentava certi posti a Natchez-sotto-la-collina e a New Orleans dove un marinaio poteva assicurarsi una notte di sollazzo ad un prezzo ragionevole. E in seguito, quando la Fevre River Packets andava a gonfie vele, c’era stata qualche donna di Galena, di Dubuque o di St. Paul che avrebbero acconsentito a sposarlo; rispettabili vedove dai corpi tozzi e dai volti marcati, consapevoli di qual buon partito fosse un uomo come lui, grande e grosso, forte e sano, e proprietario di tutti quei battelli. Ma l’interesse per lui non aveva tardato a svanire dopo la rovinosa gelata che aveva decimato la sua flotta; ad ogni buon conto, non era quello il genere di donne che suscitava i desideri di Marsh. Questi, infatti, quando si concedeva tali pensieri, il che non accadeva di frequente, sognava donne leggiadre, fiere ed eleganti come i suoi battelli, non dissimili dalle brune bellezze creole e meticce di New Orleans.

Marsh sbuffò sonoramente e spense la candela. Cercò di dormire. Ma inquietanti presenze infestavano i suoi sogni; fievoli parole echeggiavano minacciose nei recessi ottenebrati della sua mente.

…Il mattino giungeva e se n’andava — e ritornava senza recar mai giorno.

…Ingozzandosi avido nelle tenebre celato: Nulla più dell’amor era rimasto.

…E gli uomini dimenticaron le loro passioni nel terrore della loro desolazione.

…Un pasto fu col Sangue portato.

…un uomo straordinario.

Abner Marsh si drizzò a sedere nel letto. Era perfettamente sveglio, e nelle orecchie rimbombavano i tonfi martellanti del suo cuore. «Dannazione,» mormorò. Trovò un fiammifero, accese la candela sul comodino ed aprì il libro di poesie alla pagina che riportava il ritratto di Byron. «Dannazione,» ripeté.

Marsh si vestì in un lampo. Provava il desiderio ardente di una compagnia gagliarda, qualcosa di possente, come i muscoli di Mike e la sua spranga di ferro, o Jonathan Jeffers con il suo bastone. Ma quella era una faccenda privata tra lui e Joshua, e si era impegnato a non farne parola ad alcuno.

Si gettò un po’ d’acqua sulla faccia, s’armò del bastone di noce e uscì sul ponte, desiderando come non mai d’avere un prete a bordo o magari Un crocifisso. In tasca aveva il libro di poesie. Laggiù, presso il pontile d’imbarco, un altro battello cominciava a fumare mentre si procedeva a caricarvi le merci; Marsh sentì il canto sommesso e melanconico dei manovali che trasportavano i colli lungo le passerelle.

Giunto alla porta della cabina di Joshua, Abner Marsh sollevò il bastone per bussare, poi un’ondata improvvisa di dubbi lo sommerse, facendolo esitare. Joshua aveva lasciato il preciso ordine di non essere disturbato. E ciò che Marsh aveva intenzione di dirgli lo avrebbe di certo contrariato enormemente. Chissà, forse era tutta una colossale cretinata … quella poesia doveva averlo tormentato procurandogli insulsi incubi, o forse aveva mangiato qualcosa di indigesto. Eppure… eppure…

Era ancora piantato là davanti con il bastone sollevato, la fronte corrugata da dubbi e incertezze, quando la porta della cabina si aprì silenziosamente.

All’interno della cabina era buio come nel ventre di una vacca. Le stelle e la luna scagliavano radi barlumi attraverso lo squarcio della porta, ma oltre la soglia tutto era avvolto da una vellutata, compatta oscurità. A pochi passi di distanza dalla porta s’indovinava la sagoma ombrosa di una figura eretta. La luna lambì i piedi nudi e la vaga forma dell’uomo si materializzò confusamente alla percezione visiva. «Entrate, Abner,» si udì dalle tenebre la voce di Joshua, un aspro sussurro.

Abner Marsh varcò la soglia.

L’ombra si mosse, e d’improvviso la porta si chiuse. Marsh sentì la chiave girare nella serratura. Ora il buio fu totale. Non riusciva più a distinguere la minima parvenza d’un oggetto. Una mano possente lo afferrò fermamente per un braccio e lo trasse in avanti. Poi lo sospinse all’indietro, e, per un istante, il Capitano fu preda della paura, finché non sentì la rassicurante consistenza della sedia sotto di lui.

Un fruscio nell’oscurità. Marsh si guardò intorno, cieco, sforzandosi di scorgere una qualche forma coerente nella fitta tela del buio. Sentì quindi le sue stesse labbra schiudersi e profferire, «Non avevo bussato.»

«No,» giunse pronta la risposta di Joshua. «Vi ho sentito arrivare. Inoltre, vi stavo aspettando, Abner.»

«Lo aveva detto che sareste venuto,» si aggiunse una seconda voce, giungendo da un altro punto della cabina buia. Una voce di donna, sommessa, amara. Valerie.

«Voi,» disse Marsh, sopraffatto dallo stupore. Non s’era aspettato una simile evenienza. Era confuso, adirato, incerto, e la presenza di Valerie non gli facilitava di certo le cose. «Cosa ci fate voi qui?» le domandò con irruenza.

«Potrei chiedere lo stesso a voi,» replicò lei senza alterare il suo tono pacato. «Io sono qui perché Joshua ha bisogno di me, Capitano Marsh. Per aiutarlo. Ed è ben più di quanto abbiate fatto voi, a dispetto di tutte le vostre belle parole. Voi e quelli della vostra razza, con tutti quei sospetti, tutte le vostre pie…»

«Basta, Valerie,» la interruppe Joshua bruscamente. «Abner, io non conosco il motivo di questa vostra visita, sapevo tuttavia che prima o poi sareste venuto. Avrei dovuto scegliermi un socio meno arguto, uno stolto che avrebbe eseguito ogni mio ordine senza discutere. Siete troppo perspicace, per il vostro bene forse, e per il mio anche. Sapevo che sarebbe stata solo questione di tempo, ma infine avreste tratto le vostre conclusioni dalle confidenze di cui vi ho messo a parte lassù, a Natchez. Vi ho scoperto più volte a scrutarci, a studiarci. Né sono passati inosservati quei piccoli esami a cui ci avete sottoposto.» Un aspro sogghigno forzato interruppe il suo parlare. «L’acqua santa, addirittura!»

«Come… lo sapevate, dunque?»

«Sì.»

«Maledetto servo d’un negro.»

«Non siate così inclemente con lui. Quel ragazzo ha ben poco a che fare con ciò, Abner, quantunque non abbia potuto far a meno di notare il modo in cui ha continuato a fissarmi per tutta la durata del pranzo.» Stavolta Joshua rise, e lo sforzo fece di quel riso un suono terribilmente innaturale. «No, il ragazzo non c’entra, è stata l’acqua stessa a rivelarmi la sua natura. Un bicchiere d’acqua limpida mi compare davanti pochi giorni dopo il nostro colloquio, cosa devo dedurne? Da quando stiamo navigando sul fiume abbiamo bevuto sempre e solo acqua torbida, carica di fanghiglia e sedimento. Avrei potuto farmici un giardino con tutto il terriccio che ho lasciato sul fondo dei bicchieri.» Divertito, emise un suono secco, più simile ad uno schiocco che ad un risolino. «Oppure avrei potuto riempirci la mia bara.»

Marsh ignorò quest’ultima osservazione. «Sapete invece cos’è che dovete fare? Agitate il vostro bicchiere per far salire a galla quel terriccio, poi bevetelo assieme all’acqua. Così diverrete un vero uomo del fiume.» S’interruppe e tacque per un lungo istante. «O forse diverrete soltanto un uomo.»

«Ah,» fece Joshua, «sicché siamo arrivati al nocciolo della questione.» Dette queste parole, restò a lungo silente, e l’aria nella cabina sembrò farsi soffocante, resa greve dal silenzio e dall’oscurità. Quando, finalmente, Joshua parlò, il suo tono fu serio, glaciale. «Avete portato con voi un crocifisso, Abner? O un paletto?»

«Ho portato questo,» disse Marsh. Tirò fuori il libro di poesie e lo lanciò nell’aria buia, mandandolo nella direzione dove presumeva fosse seduto Joshua.

Udì un movimento, uno scatto, ed una mano afferrò il libro roteante. Un fruscio di pagine sfogliate. «Byron,» disse Joshua, disorientato.

Abner Marsh non sarebbe stato in grado di scorgere le sue stesse dita ad un palmo dal suo naso, così impenetrabile era il buio della cabina, le cui finestre erano serrate ad ogni spiraglio. Quanto a Joshua, ebbene, la sua vista acuta non solo gli aveva consentito di afferrare il libro al volo, ma gli permetteva finanche di leggerne le pagine. Di nuovo Marsh sentì la pelle incresparglisi a dispetto del calore che avvolgeva la stanza chiusa.

«Perché Byron? Mi sconcertate. Un ennesimo esame, un crocifisso, un interrogatorio, niente di tutto ciò mi avrebbe stupito. Ma perché Byron?»

«Joshua,» fece Marsh, «quanti anni avete?»

Silenzio.

«Di solito riesco ad indovinare l’età delle persone. Ma con voi non è cosa facile, con quei capelli bianchi, e tutto il resto. Tuttavia, a giudicare dal vostro aspetto — dal volto, dalle mani — vi darei trent’anni, trentacinque al massimo. Questo libro dice che il poeta morì trentatré anni fa. E voi avete detto di averlo conosciuto.»

Joshua sospirò. «Già,» ammise in tono amareggiato. «Uno stupido errore. Ero rimasto così estasiato alla vista del battello, che persi il controllo su di me. In seguito pensai che la mia leggerezza non avrebbe avuto conseguenze. Voi non sapevate nulla di Byron. Mi persuasi quindi che avreste dimenticato.»

«Non sempre sono lesto nel trarre conclusioni, in compenso, però, non dimentico mai.» Marsh serrò il pugno intorno al manico del bastone, e rassicurato dalla solida presa si protese in avanti. «Joshua, voglio che noi due ci parliamo in modo franco. Mandate via la donna.»

La gelida risata di Valerie squarciò la cortina del buio. Adesso sembrava più vicina, sebbene Marsh non avesse avvertito alcuno spostamento. «Uno stupido cui non manca l’audacia,» osservò.

«Valerie resta qui, Abner,» fu la secca risposta di Joshua. «Tutto ciò che volete dire a me, anch’essa può sentirlo. Lei è come me.»

Marsh si sentì stretto in una morsa di fredda solitudine. «Come voi,» fece eco alle parole di Joshua con estrema gravita. «A questo punto, ditemelo. Cosa siete voi

«Giudicatelo voi stesso.» Un bagliore improvviso fiammeggiò nella stanza nera all’accendersi di un fiammifero che fece sussultare il Capitano.

«Oh, mio Dio,» esclamò Marsh con voce gracchiante.


La fiammella, seppur per brevi istanti, scagliò la sua pallida luce sulla persona di Joshua. Le labbra erano gonfie e squarciate da profonde crepe. La pelle ustionata ed annerita si tendeva terribilmente sulla fronte e sulle guance. Vesciche rigonfie di acquiccia e di pus affioravano da sotto il mento e si contavano numerose sulla carne viva della mano che sorreggeva il fiammifero. Gli occhi grigi, sbiaditi e velati da strie di muco, si spalancavano dalle orbite cave. Joshua York sorrideva trucemente, e Marsh sentì la pelle ustionata crepitare e lacerarsi. Un pallido fluido colò lentamente lungo una guancia, fiottando da una nuova screpolatura appena apertasi. Un lembo di pelle si staccò e cadde, rivelando la rosea carne che v’era al di sotto.

Poi il fiammifero si spense e l’oscurità fu come una manna.

«Dicevate di essere il suo socio,» sbottò Valerie in tono d’accusa. «Dicevate di volerlo aiutare. Ecco l’aiuto che gli avete dato, voi e la vostra ciurma rosa dai sospetti e dalle minacce. Poteva morire per colpa vostra. Lui è un Re, il pallido Signore, e voi non siete niente, cionondimeno ha voluto subire questo per guadagnarsi la vostra inutile lealtà. Siete soddisfatto adesso, Capitano Marsh? Sembra di no, visto che siete qua.»

«Cosa diavolo vi è successo?» fece Marsh, ignorando le provocazioni di Valerie.

«Mi sono esposto alla luce del vostro “sfarzoso” giorno per meno di due ore,» rispose Joshua, ed ora Marsh capì la ragione del suo penoso sussurrare. «Ero consapevole del rischio. Lo avevo già fatto in passato, quando era stato necessario. Quattro ore di luce avrebbero potuto costarmi la vita. Sei ore mi avrebbero ucciso senza il minimo dubbio. Ma due ore o giù di lì, trascorse per lo più al riparo dai raggi diretti — conosco i miei limiti. Le ustioni si presentano peggiori di quanto lo siano in realtà. Quanto al dolore, è sopportabile. E non durerà a lungo. Domani, a quest’ora, nessuno sospetterà mai che qualcosa mi abbia danneggiato. La mia pelle guarisce da sola. Le vesciche si aprono, la pelle morta si stacca e va via. Lo avete visto anche voi.»

Abner Marsh chiuse gli occhi e li riaprì. Non servì a nulla. In entrambi i casi il buio appariva come una coltre compatta, e soltanto il pallido, azzurrino residuo dell’immagine del fiammifero persisteva nel fondo delle sue pupille, e con esso l’orripilante spettro della faccia dilaniata di Joshua. «Lasciamo stare l’acqua santa, e gli specchi. Non significano niente. Il fatto è che non potete andare in giro di giorno, non potete farlo. Ciò che mi avete raccontato — di quei maledetti vampiri… esistono davvero. Solo che mi avete mentito. Voi mi avete mentito, Joshua! Non siete affatto un cacciatore di vampiri, siete uno di loro. Sì, voi e lei, e tutti quanti gli altri. Siete voi stessi dei maledetti vampiri!» Marsh sollevò il bastone e lo tese minacciosamente davanti a sé — un’inutile arma per difenderlo da cose invisibili. La gola secca gli bruciava dolorosamente. Sentì Valerie ridacchiare e farsi più vicina.

«Abbassate la voce, Abner,» gli disse Joshua in tono calmo, «e risparmiatemi la vostra indignazione. Sì, vi ho mentito. Fin dal nostro primo incontro vi avevo avvertito di non insistere per ottenere delle risposte perché avreste ricevuto soltanto menzogne. Mi avete costretto a mentirvi. Mi rincresce solo che non siano state menzogne convincenti.»

«Il mio socio.» Abner Marsh era furioso. «All’inferno, non riesco ancora a capacitarmi. Un assassino, o forse peggio di un assassino. Cosa siete andato a fare in tutte queste notti? Siete andato a caccia di qualche viandante solitario, qualche poveraccio da dissanguare, da sbranare? Sì, ora è tutto chiaro. Trovata la preda, via a tutto vapore per una nuova tappa, una nuova caccia. Una città diversa quasi ogni notte, in questo modo siete al sicuro. Prima che la gente a terra scopra il misfatto siete già da un’altra parte. E non dovete neppure prendervi il disturbo di darvi ad una fuga precipitosa, macché, partite in tutta calma e in grande stile a bordo di un lussuoso vapore, comodamente alloggiato nella vostra cabina personale. Non c’è da stupirsi che ci tenevate tanto a possedere un battello di vostra proprietà, Capitano York. Andate all’inferno, maledetto.»

«Tacete,» ordinò York, e la forza della sua voce fu tale da far ammutolire Marsh istantaneamente. «Abbassate quel bastone prima che rompiate qualcosa agitandolo in quel modo. Abbassatelo, ho detto.» Marsh lo lasciò cadere sul tappeto. «Bene,» si placò Joshua.

«È uguale a tutti gli altri,» disse Valerie. «Non capisce, Joshua. Per te sa provare soltanto odio o paura. Non possiamo permettere che esca vivo da qui.»

«Forse,» disse Joshua con riluttanza. «Credo che in lui ci sia qualcosa di più, ma forse mi sbaglio. Cosa ne dite voi, Abner? Attento a misurare le parole. Parlate come se la vostra vita dipendesse da ogni sillaba che pronuncerete.»

Ma Abner Marsh era troppo furioso per pensare. La paura che lo aveva invaso aveva scatenato adesso un accesso d’ira; era stato destinatario di menzogne, ingannato, raggirato, trattato come un brutto bestione col cervello di una gallina. Nessun uomo aveva mai osato trattare Abner Marsh in quel modo, e poco importava che York non fosse affatto un uomo. York aveva trasformato il Fevre Dream, la sua creatura, in una sorta di incubo galleggiante. «È da lungo tempo che navigo su questo fiume,» cominciò Marsh. «Non provate a spaventarmi. Viaggiavo sul mio primo battello quando vidi un mio amico buscarsi una coltellata nelle budella in un saloon di St. Joe. Afferrai la carogna che sferrò il colpo, gli strappai di mano il coltello e gli spezzai la schiena. E sono stato anche a Bad Axe, e giù nel sanguinoso Kansas, perciò non sarà certo un dannato succhiasangue a mettermi paura con le sue minacce. Volete prendermi, fatevi sotto allora. Peso il doppio di voi, e per giunta siete arrostito fino alle ossa. Forza, fatevi sotto, e vi torcerò il collo. Meritate che lo faccia comunque per come vi siete comportato.»

Silenzio. Poi, sorprendentemente, Joshua York proruppe in una lunga e sonora risata. «Ah, Abner,» disse quando si fu ricomposto, «siete davvero un battelliere, e lo siete fino al midollo. Metà sognatore e metà sbruffone, e completamente sciocco. Siete lì seduto in totale cecità e sapete bene che uno spiraglio di luce che s’insinua tra le tende chiuse o che s’infila sotto la porta mi basta per vedere ogni cosa alla perfezione. Ve ne state lì seduto, grasso e lento nei movimenti, consapevole della mia forza e della mia scattante agilità. Dovreste sapere con quanta silenziosità so muovermi.» Vi fu una pausa, un lieve scricchiolio, e d’improvviso la voce di York giunse da tutt’altra direzione. «Così.» Ancora silenzio. «E così.» Dietro di lui. «E così.» Adesso era tornato dov’era originariamente; Marsh, che aveva girato la testa ogni volta seguendo la direzione da cui proveniva la voce, fu colto da vertigini. «Potrei dissanguarvi fino alla morte colpendovi cento volte senza che ve ne accorgeste neppure. Potrei avvicinarmi a voi, invisibile nell’oscurità, e squarciarvi la gola prim’ancora che vi rendiate conto che abbia finito di parlare. Eppure, malgrado tutto questo, ve ne state lì seduto a guardare nella direzione sbagliata, con la barba protesa, a sbraitare e minacciare.» Joshua sospirò. «Avete coraggio, Abner Marsh. Scarso giudizio, ma molto coraggio.»

«Se avete deciso di uccidermi, non perdete tempo,» disse Marsh. «Sono pronto. Non avrò battuto l’Eclipse, ma sono riuscito a fare quasi tutto ciò che desideravo. Preferisco marcire in una di quelle elegantissime tombe di New Orleans piuttosto che comandare un battello per un branco di vampiri.»

«Una volta vi chiesi se foste superstizioso, o religioso,» disse Joshua. «Negaste di esserlo. Eppure adesso vi sento parlare dei vampiri con un qualsiasi ignorante venuto da fuori.»

«Cosa state dicendo? Siete stato proprio voi a dirmi…»

«Sì, sì. Bare piene di terreno, creature prive d’anima che non appaiono negli specchi, esseri che non possono attraversare acque in movimento, creature che possono trasformarsi in lupi o in pipistrelli, che possono dissolversi in nebbia eppure indietreggiano di fronte ad uno spicchio d’aglio. Siete un uomo troppo intelligente per credere a queste sciocchezze, Abner. Scrollatevi di dosso le vostre paure e la vostra rabbia, per un solo istante, e ragionate

Ciò mise Abner Marsh alle strette. Di fatto, il mordace sarcasmo del tono di York gli aveva fatto apparire tutto così irrimediabilmente insulso. Certo era bastata un po’ di luce solare ad ustionarlo così malamente, però ciò non toglieva che egli avesse bevuto dell’acqua santa, portasse un anello d’argento e la sua immagine si riflettesse negli specchi. «Mi state forse dicendo che non siete un vampiro? È questo che intendete, o cosa?» Marsh era disorientato, smarrito.

«I vampiri non esistono,» disse Joshua in tono paziente. «Sono come le storie del fiume che Karl Framm racconta con tanta passione. Come il tesoro del Drennan Whyte. Il battello fantasma di Raccourci. Come quel pilota così fedele al suo compito da mettersi al timone dopo che era morto. Storie, Abner. Semplici divertimenti, invenzioni che un adulto non prende sul serio.»

«Alcune di quelle storie hanno qualcosa di vero,» protestò debolmente il Capitano Marsh. «Voglio dire, conosco un mucchio di piloti che affermano di aver visto le luci del battello fantasma nei pressi di Raccourci, e dicono persino di aver sentito imprecare e bestemmiare gli uomini allo scandaglio. E il Drennan Whyte, beh, io non credo nelle maledizioni, ma quel battello è affondato proprio come ha raccontato Mister Framm, e le altre barche giunte a recuperarlo sono colate a picco nello stesso modo. Quanto al pilota morto, corpo del diavolo, io lo conoscevo. Era un sonnambulo, ecco cos’era, e pilotava il battello mentre dormiva. Solo che la storia racconta i fatti esagerando in qualche particolare.»

«Era proprio qui che volevo arrivare, Abner. Se insistete sulla parola, e allora sì, i vampiri sono esseri reali. Ma le storie su di noi hanno un po’ esagerato alcuni particolari. In pochi anni il vostro sonnambulo è diventato un cadavere, provate ad immaginare cosa diventerà tra un secolo o due.»

«Cosa siete dunque, se non vi definite un vampiro?»

«Non esiste una parola che serva a descrivermi in maniera semplice,» disse Joshua. «Nella vostra lingua mi si può definire con parole come vampiro, licantropo, stregone, mago, demone, ghoul. Altre lingue offrono nomi diversi: nosferatu, odoroten, upir, loup garou. Tutti nomi coniati dalla gente della vostra razza ed attribuiti alle povere creature simili a me. Detesto quei nomi. Io non sono niente di tutto ciò. Tuttavia non ho alcuna definizione da proporre in loro sostituzione. Non abbiamo un nome per noi stessi.»

«La vostra lingua…» esitò Marsh.

«Non abbiamo una lingua. Usiamo lingue umane, nomi umani. Così è sempre stato. Non siamo esseri umani, ma non siamo neppure vampiri. Siamo… un’altra razza. Quando ci diamo una definizione, lo facciamo di solito utilizzando parole che appartengono al vostro linguaggio, parole a cui noi abbiamo conferito un significato segreto. Noi siamo il Popolo della Notte, il Popolo del Sangue. O semplicemente il Popolo.»

«E noi?» domandò Marsh. «Se voi siete il popolo, cosa siamo noi?»

Joshua York esitò qualche istante, e fu Valerie a prendere la parola. «Il Popolo del giorno,» si affrettò a rispondere.

«No,» si oppose Joshua. «Questa è una mia definizione. Non è quella che la mia gente usa di solito. Valerie, il tempo delle menzogne è finito. Di’ ad Abner la verità.»

«Non gli piacerà. Joshua, il rischio…»

«Non importa. Diglielo, Valerie.»

Un silenzio plumbeo calò nella cabina. E poi, con voce sommessa, Valerie disse, «Il bestiame. È così che vi chiamiamo, Capitano. Il bestiame.»

Abner Marsh aggrottò le sopracciglia e serrò un grosso e ruvido pugno.

«Abner,» soggiunse Joshua, «volevate la verità. Ho pensato molto a voi negli ultimi tempi. Dopo Natchez, ho temuto di dover escogitare un qualche incidente per eliminarvi. Noi non rischiamo mai di esporci, e voi siete una minaccia. Simon e Katherine mi hanno chiesto con insistenza di uccidervi. I miei nuovi amici, Valerie e Jean Ardant, con i quali ho intrecciato rapporti più stretti, sono propensi a tale soluzione. Tuttavia, pur sapendo che io e la mia gente saremmo indubbiamente più tranquilli avendovi morto, mi sono opposto. Basta con la morte, con la paura, sono infinitamente stanco della diffidenza che separa le nostre razze. Mi sono sempre chiesto se non fosse possibile lavorare insieme, ma non ho mai avuto la certezza di potermi fidare di voi. Fino a quella notte a Donaldsonville, e cioè fino alla notte in cui Valerie cercò di convincervi a cambiare la rotta del Fevre Dream. In quella occasione vi dimostraste più forte di quanto avessi potuto sperare. Fu allora che presi la decisione. Dovevate vivere, e se foste venuto da me ancora una volta vi avrei detto la verità, tutta la verità, il bene ed il male. Volete saperla?»

«Ho altra scelta?»

«No,» ammise Joshua York.

Valerie sospirò. «Joshua, ti scongiuro di riflettere. Per quanto possa piacerti, è pur sempre uno di loro. Non capirà. Verranno qui con paletti appuntiti, sai che lo faranno.»

«Spero di no,» disse Joshua. Poi, rivolgendosi a Marsh, «Valerie ha paura, Abner. Ciò che sto per fare è una cosa del tutto nuova, e le novità sono sempre pericolose. State ad ascoltarmi fino alla fine e non giudicatemi, forse tra noi potrà sorgere un’autentica collaborazione. Prima d’ora non ho mai detto la verità a nessuno di voi…»

«A nessuno del bestiame,» continuò Marsh con un grugnito. «Beh, neppure io ho mai ascoltato un vampiro raccontarmi la sua storia prima d’ora, sicché siamo pari. Cominciate pure, il toro qui presente è tutt’orecchi.»

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