CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Di giorni oscuri e lontani

«Ascolta, dunque, Abner. Prima, però, è necessario farti presente alcune condizioni il cui rispetto è assolutamente indispensabile. Non voglio interruzioni. Né voglio scatti d’ira, domande, giudizi. Non fino a quando non avrò finito. Ho il dovere di avvertirti che molte delle cose che ti dirò ti risulteranno truci e terribili. Tuttavia, se lascerai che io proceda nel mio racconto dal principio alla fine, allora, forse, capirai. Mi hai chiamato assassino, vampiro, e in un certo senso è ciò che sono. Anche tu, intanto, hai ammesso d’aver ucciso. Le circostanze, però, giustificherebbero i tuoi atti: di questo nei sei più che convinto. Beh, ciò vale anche per me. E, se non del tutto giustificati, i miei delitti sono perlomeno attenuati dalle circostanze. Adesso ascolta tutto ciò che ho dirti prima di condannare me e la mia razza.

«Comincerò il mio racconto parlandoti della mia persona, della mia vita, e tutto il resto ti sarà rivelato così com’io stesso ebbi ad apprenderlo.

«Volevi sapere quanti anni ho. Sono giovane, Abner, nel primo rigoglio dell’età matura, stando ai parametri della mia stirpe. Vidi i natali nel 1785, in una cittadina della provincia francese. Non conobbi mai mia madre, per ragioni che svelerò più avanti. Mio padre apparteneva alla piccola nobiltà, vale a dire che si era assicurato un titolo nobiliare, una sorta di lasciapassare nella società francese. Si era stabilito in Francia da parecchie generazioni e godeva di una posizione solida e rispettabile, ciò nondimeno indicava nell’Europa orientale la sua terra d’origine. Possedeva un consistente patrimonio e qualche acro di terra. Per giustificare la sua innaturale longevità, intorno al 1760 era ricorso ad uno stratagemma grazie al quale si era fatto passare per suo figlio fino a sostituirsi definitivamente in questa nuova veste.

«Perciò, come vedi, ho quasi 72 anni e ho avuto effettivamente la grande fortuna di conoscere Lord Byron. Il che, naturalmente, accadde qualche tempo dopo.

«Mio padre era come me. E così pure due dei nostri servi, e costoro più che servi erano nostri compagni. Furono questi i tre adulti dai quali appresi le lingue, le buone maniere, gli usi e i costumi del mondo… e le precauzioni. Durante il giorno dormivo ed uscivo soltanto di notte, imparai a temere l’alba così come i bambini della tua razza, una volta bruciatisi, temono il fuoco. Io ero diverso dagli altri — così mi fu insegnato — diverso, superiore, un signore. Di queste differenze, però, non dovevo far menzione, altrimenti il bestiame umano avrebbe avuto paura di me e mi avrebbe ucciso. Dovevo fingere che i miei orari così peculiari fossero unicamente il frutto di preferenze particolari. Dovevo imparare ed osservare la dottrina cattolica, financo ricevere la Comunione durante spaciali messe notturne nella nostra cappella privata. Dovevo — beh, meglio fermarmi qui. Capisci, Abner, allora ero solo un bambino. Col passare del tempo, se le cose non fossero cambiate, avrei imparato molto di più, avrei cominciato a capire il perché di tutto questo, mi si sarebbe chiarita la natura di coloro che mi circondavano, le ragioni di quella anomala esistenza. Allora sarei diventato tutt’altra persona.

«Nel 1789, però, i fuochi della Rivoluzione deviarono irrevocabilmente il corso della mia vita. Imperava il Terrore quando fummo presi. Malgrado tutte le sue accorte precauzioni, le cappelle e gli specchi, mio padre aveva destato inquietanti sospetti con le sue abitudini notturne, la sua solitudine, la misteriosa ricchezza. Furono i nostri stessi servitori — quelli della razza umana — a denunciarlo come stregone, un satanico, discepolo del Marchese de Sade. E, peccato più infame di tutti, era un aristocratico. I suoi due compagni, reputati dei semplici servi, riuscirono a farla franca, noi due invece, mio padre ed io, fummo arrestati.

«Per quanto fossi giovanissimo a quell’epoca, serbo ancora vivide nella memoria le immagini della cella nella quale fummo imprigionati. Umida e fredda, di pietra nuda e scabra, era chiusa da una enorme porta di ferro, così massiccia e pesantemente sprangata che a nulla valse la pur titanica forza di mio padre. Un tanfo di urina ristagnava in quella cella, e vi dormimmo senza coperte, distesi sopra un giaciglio di sudicia paglia disseminata sul pavimento. Un’unica finestra, alta sopra di noi, si apriva obliqua nella solida parete di roccia il cui spessore era sicuramente non inferiore ai tre metri. Era piccolissima la nostra prigione, e il perimetro esterno era tutto solidamente sprangato. Credo che ci trovassimo al di sotto del livello del terreno, dentro una specie di cantina. Solamente un tenue lucore riusciva a penetrare laggiù, il che, ovviamente, costituiva per noi una circostanza provvidenziale.

«Quando ci ritrovammo soli, mio padre mi istruì su ciò che avrei dovuto fare. Egli non riusciva neppure a raggiungere la finestra, quell’angusta breccia nel muro, ma io sì. Potevo, ero ancora piccolo. E già possedevo la forza per neutralizzare le massicce sbarre. Mio padre mi ordinò di lasciarlo lì solo. E mi diede anche molti altri consigli. Mi disse di vestirmi di cenci e di comportarmi in modo da non attirare l’attenzione degli altri verso di me. Di nascondermi durante il giorno e rubacchiare cibo di notte. Non avrei mai dovuto far parola ad alcuno della mia diversità. Dovevo anche procurarmi una croce da portare sempre al collo. Non capii neppure la metà di tutto ciò che mi disse, e presto ne dimenticai la gran parte, ad ogni modo promisi obbedienza. Mi ordinò, tra l’altro, di lasciare la Francia e di mettermi sulle tracce dei due servitori scomparsi. Insistette con fermezza affinché io non tentassi di vendicarlo. Col tempo mi sarei saziato di vendetta — mi disse — perché tutta quella gente, i nostri persecutori, sarebbe morta, io, invece, avrei continuato a vivere. Poi aggiunse una cosa che non ho mai dimenticato. “Non possono farci nulla. La Sete Rossa tormenta la nazione, e solo il sangue può saziarla. Essa è la nostra rovina, la rovina di tutti noi.” Gli chiesi, allora, che cosa fosse la sete rossa. “Non passerà molto che tu stesso la conoscerai e capirai da te,” mi rispose. “Non. potrai sbagliarti, la riconoscerai.” Poi, ciò detto, mi pregò di andare. M’infilai nella stretta apertura della finestra. Le sbarre erano vecchie ed arrugginite; essendo praticamente impossibile a chiunque raggiungerle, esse non erano mai state sostituite. Mi si spezzarono tra le mani.

«Dopo quella volta non rividi mai più mio padre. In seguito, dopo la Restaurazione che seguì alle guerre di Napoleone, feci ricerche su di lui. La mia sparizione dalla cella era stato l’ultimo, definitivo sigillo del suo destino. Oltre ad essere un aristocratico, era certamente uno stregone. Fu processato e condannato. Una ghigliottina di provincia gli portò via la testa. Bruciarono il corpo, come voleva la prassi in caso di stregoneria.

«Tutto ciò avvenne a mia insaputa. Scappai dalla prigione e dalla provincia e vagabondando da un villaggio all’altro feci di Parigi la mia meta; in tempi come quelli, dove il caos dominava supremo, nella grande capitale era più facile garantirsi la sopravvivenza. Di giorno trovavo rifugio in qualche tenebrosa cantina, e quanto più essa era buia tanto meglio vi abitavo. La notte uscivo allo scoperto e rubavo cibo. La carne, principalmente. Non gradivo molto la frutta o le verdure. Man mano mi perfezionai fino a diventare un abile ladro. Ero lesto, silenzioso e incredibilmente forte. Mi sembrava che ad ogni nuovo giorno le unghie mi si facessero più affilate e robuste. Una porta di legno non costituiva una barriera per i miei artigli. Non destavo la curiosità di nessuno, e nessuno mi faceva domande. Parlavo un ottimo e colto francese, ed un corretto inglese, me la cavavo abbastanza col tedesco. A Parigi non tardai a far mio il gergo dei bassifondi. Mi misi alla ricerca dei nostri due servitori, gli unici appartenenti alla mia razza che avessi mai conosciuto, ma non avendo una minima traccia da seguire i miei sforzi risultarono vani.

«E così crebbi tra la tua gente. Il bestiame. Il popolo del giorno. Acuto e intelligente ne osservai con attenzione i modi e la condotta. E quanto più spiavo chi mi stava attorno, tanto più prendevo coscienza della mia radicale diversità da essi. Ero diverso, sì, esattamente come mi era stato insegnato, e superiore. Più forte, più veloce e — ebbi modo di convincermene — più longevo. La mia unica debolezza era la luce del giorno. Ma serbai gelosamente tale segreto.

«A Parigi, tuttavia, conducevo una vita misera, abietta, e tediosa. Volevo di più. Cominciai allora a rubare soldi oltre che cibo. Trovai chi mi insegnasse a leggere, dopodiché presi a rubare anche i libri ogni volta che mi fosse possibile. Una volta o due rischiai di esser scoperto, ma riuscii sempre a cavarmela. Sapevo confondermi tra le ombre, scalare muri in un battito di ciglia, muovermi con la felpata silenziosità di un gatto. Forse coloro che mi inseguivano credevano che riuscissi a dissolvermi in fumo. Tanta era la mia scattante rapidità che di certo, in talune occasioni, doveva sembrar così.

«Allo scoppio delle guerre napoleoniche fui ben accorto ad evitare l’esercito; sapevo che entrando nei suoi ranghi sarei stato costretto ad espormi alla luce diurna. Ma seguii egualmente le truppe nelle loro campagne; in tal modo viaggiai attraverso l’Europa arsa dal fuoco e dilaniata dal ferro, e dappertutto vidi morte. Là dove l’Imperatore andava, ivi c’era per me ghiotto bottino.

«Fu in Austria, nel 1805, che arrivò per me la grande occasione. Sulla strada a notte fonda mi imbattei in un ricco mercante viennese fuggito all’incipiente arrivo dell’esercito di Francia. Aveva con sé tutto quanto il suo danaro, convertito in oro ed argento — una somma favolosa. Lo seguii furtivamente fino alla locanda dove prese alloggio per la notte. Attesi fino a che mi convinsi che si fosse addormentato e m’introdussi nella stanza per far la mia fortuna. Ma il viennese non dormiva, sopraffatto com’era dalla paura della guerra. Mi stava aspettando, ed era armato. Estrasse una pistola da sotto la coperta e fece fuoco su di me.

«Crollai sotto il peso del dolore e della sorpresa. Il colpo mi scaraventò sul pavimento. Mi aveva colto in pieno stomaco e sanguinavo a profusione. Ma, tutto a un tratto, il flusso decrebbe e lo spasmo s’attuti. Mi alzai. Dovevo aver un aspetto terribile in quel momento, pallidissimo e coperto di sangue. Una strana sensazione m’invase in quell’istante, qualcosa di assolutamente nuovo, mai provato prima d’allora. La luna affacciatasi in cielo mandava i suoi raggi nella stanza attraverso la finestra, il mercante urlava e, prima ancora che mi rendessi conto di cosa stessi facendo, ero piombato su di lui. Volevo zittirlo, tappargli la bocca con la mano, ma… qualcosa s’impadronì di me. Le mie mani corsero su di lui, le mie unghie — lame forti, affilate. Gli squarciai la gola. Fu soffocato dal copioso sgorgare del suo stesso sangue.

«Io stetti lì, tremante, a guardare quel sangue nero fiottare da lui in pieni zampilli, mentre il suo corpo si dibatteva sul letto nel pallido lucore della luna. Stava morendo. Avevo visto molta gente morire prima di lui, a Parigi, in battaglia. Stavolta fu diverso. Io lo avevo ucciso. Un’onda impetuosa di intensa passione sembrò travolgermi, empirmi, e provai… desiderio. Sovente nei libri che avevo rubato avevo letto pagine sul desiderio, la brama e gli istinti carnali dei quali l’uomo è erede. Ma mai ne avevo provato alcuno. Più volte avevo spiato donne nude, uomini nudi, coppie avvinte nell’ardore di un amplesso sessuale, e nessuna di queste visioni mi aveva mai turbato. Non riuscivo a comprendere tutte quelle balordaggini che avevo letto sulla incontrollabilità delle passioni, sulle brame che bruciavano come fuoco il corpo dei mortali. Ma ora, conobbi anch’io il fuoco della passione. Il rosso fluire del sangue, quel corpo pingue che mi moriva tra le mani, gli strani suoni che emetteva, il concitato battere dei piedi sul letto. Tutto ciò eccitò qualcosa di bestiale celato nelle profondità della mia anima. Il sangue fiottava sulle mie mani. Era così scuro e caldo. Quasi fumava nel fuoruscire dalla gola del morente. E così mi chinai e lo assaggiai. Il sapore mi rese folle, accese in me una brama febbrile. Affondai il viso nel collo dell’uomo e strappando la carne con i denti presi a succhiare il sangue. E bevevo, strappavo lembi di pelle, inghiottivo avidamente. L’uomo cessò di dibattersi. Io seguitavo a cibarmi di lui. E poi all’improvviso la porta si aprì, ed apparvero uomini armati di coltelli e fucili. Alzai gli occhi, sussultando. Quanto dovetti terrorizzarli. Prima che avessero la forza di agire, avevo già scavalcato la finestra e volavo nella notte. Prima di volatilizzarmi, ebbi comunque la lucidità di accaparrarmi la cintura dell’uomo infarcita di danaro. Era solo una piccola parte del suo patrimonio, ma una somma egualmente considerevole.

«Corsi l’intera notte lasciandomi chilometri alle spalle, e trascorsi la giornata successiva nel chiuso di una cantina sotterranea nella cinta di una fattoria incendiata e abbandonata.

«Avevo vent’anni. Un bambino ancora tra la gente della notte, ma giunto sulla soglia della maturità. Quando quella notte mi risvegliai nella cantina, tutto imbrattato di sangue secco e con la cintura di danaro stretta a me, rammentai le parole di mio padre. Adesso, finalmente, sapevo cosa fosse la Sete Rossa. Solamente il sangue poteva saziarla — così m’aveva detto. Ed io ero sazio. Mai nella mia vita avevo sentito in me tanto vigore e tanto benessere. Mi sentivo fisicamente forte e sano, però, in cuor mio, ero disgustato e orripilato. Ero cresciuto tra la tua gente, capisci, e come la tua gente concepivo il mondo, la vita. Non ero un animale, non ero un mostro. Immediatamente, in quello stesso istante, decisi di cambiare il mio modo di vivere: mai più sarebbe accaduta una cosa così orribile. Mi lavai, rubai dei vestiti, i più belli ed eleganti che riuscii a trovare. Mi diressi ad occidente, lontano dalla guerra. Poi risalii verso nord. Alloggiavo in locande di giorno, noleggiavo carrozze per viaggiare da una città all’altra di notte. Infine, pur con le grandi difficoltà dovute alla guerra, riuscii a raggiungere l’Inghilterra. Assunsi un nuovo nome, determinato com’ero a fare di me stesso un gentiluomo. Avevo i soldi. Il resto potevo impararlo.

«Avevo impiegato circa un mese per giungere lì. La terza notte che trascorsi a Londra mi sentii strano, fiaccato da un malessere fisico che mai avevo provato prima d’allora. In tutta la mia vita non mi ero mai ammalato. La notte seguente mi sentii peggio. E infine, la terza notte, riconobbi quella sensazione per ciò che realmente era. La Sete Rossa era dentro di me. Urlai e diedi sfogo alla mia rabbia. Ordinai un gustoso pranzo, una rossa e ricca bistecca di carne che contavo potesse spegnere il desiderio. La mangiai, e mi disposi con le migliori intenzioni alla calma. Inutile. Non era trascorsa un’intera ora che già mi trovavo fuori a battere le strade della città. Trovai un vicolo appartato, attesi. Una giovane donna fu la prima a passarvi. Una parte di me ne ammirò la bellezza; un ardore di fiamma si accese alla vista di lei. Un’altra parte di me provò semplicemente fame. Quasi le strappai la testa dal collo, ma, se non altro, lo scempio non durò a lungo. Dopo piansi.

«Per mesi e mesi fui preda della disperazione. Grazie alle mie letture avevo capito quale fosse la mia natura. Avevo imparato quelle parole. Per vent’anni mi ero considerato un essere superiore. Adesso mi scoprivo una creatura innaturale, una belva, un mostro privo d’anima. Non sapevo decidere se fossi un vampiro o un licantropo, e ciò mi sconcertava. Né io né mio padre avevamo il potere di trasformarci in qualcosa, ma la Sete Rossa si ripresentava in me ogni mese, in una sorta di ciclo lunare — sebbene non sempre coincidesse con il plenilunio. E questa, a quanto avevo letto, era una peculiarità dei licantropi. Cercai di istruirmi il più possibile su questi argomenti attraverso numerosissime letture, al fine di comprendere me stesso. Come i licantropi delle leggende, anch’io spesso dilaniavo la gola delle mie vittime e mangiavo una piccola quantità di carne, specie quando la sete era molto violenta. E, quando la sete non era in me, apparivo come una persona del tutto normale, e anche questo particolare corrispondeva alle caratteristiche dei licantropi che popolavano le leggende. Per altri versi, tuttavia, vi erano delle differenze; l’argento non aveva alcun potere su di me, né tantomeno l’aconito. Inoltre non avevo il potere di mutare la mia forma, né il corpo mi si ricopriva di peli. Quanto alle affinità con i vampiri, come questi potevo andare in giro solamente di notte. E, oltre a ciò, mi sembrava che fosse il sangue, e non la carne, a suscitare la mia ferale brama. Per contro, dormivo normalmente nei letti e non nelle bare, e avevo superato senza la minima difficoltà centinaia di fiumi, torrenti ed acque in movimento. Ero sicuramente vivo e gli oggetti religiosi non mi disturbavano affatto. Una volta, per essere sicuro, portai via il cadavere di una vittima: volevo scoprire se per caso si sarebbe trasformato in un lupo o in un vampiro. Restò un cadavere. Dopo un po’ di tempo cominciò ad esalare un cattivo odore, così lo seppellii.

«Puoi immaginare il mio terrore. Non ero umano, ma non ero neppure una di quelle leggendarie creature. Ne conclusi che i libri non servivano a nulla. Avrei dovuto cavarmela da solo.

«Mese dopo mese la Sete Rossa si appropriava della mia vita. Un’ignobile esultanza riempiva quelle notti, Abner. Nel ghermire la vita altrui, io stesso vivevo come mai prima. Ma c’era sempre un dopo, ed allora sprofondavo nella palude dell’orrore e della ripugnanza per me stesso, per ciò che ero diventato. La gioventù, l’innocenza, la bellezza: era tra queste che preferivo mietere le mie vittime. Sembravano possedere una luce interiore che infiammava la mia sete, uno splendore che individui vecchi e malati non irradiavano. Eppure, in altri momenti, amavo quelle stesse qualità che ero inevitabilmente chiamato a distruggere.

«Cercai di cambiare, di dominare i miei istinti. Disperatamente. Ma la mia volontà, così forte in condizioni normali, nulla poteva allorché la Sete Rossa s’impadroniva di me. Una volta, non appena percepii il primo tocco dei tentacoli che mi attanagliavano accendendo in me la febbre, cercai una chiesa, e confessai ogni cosa al sacerdote che mi aprì la porta. Non volle credermi, ma accettò di sedersi a pregare insieme a me. Portavo al collo un crocifisso, mi inginocchiai davanti all’altare, pregai con fervore, attorniato dalle sante statue e dal luccichio delle candele, al sicuro nella casa di Dio, con uno dei suoi ministri lì al mio fianco. Non erano ancora passate tre ore quando mi avventai su di lui e lo uccisi lì stesso, nella chiesa. Vi fu un certo clamore quando il giorno dopo fu rinvenuto il corpo.

«Allora provai con l’intelletto. Se la religione non aveva saputo darmi una risposta, allora ciò che mi dominava non doveva appartenere al regno del sovrannaturale. Presi ad uccidere animali al posto degli uomini. Rubai sangue umano dal laboratorio di un medico. Mi introdussi nell’ufficio di un impresario di pompe funebri dove sapevo trovarsi un cadavere fresco. Tutto ciò valse ad alleviare la sete, a placarla un poco, ma non a spegnerla del tutto. La migliore di queste soluzioni alternative si rivelò l’uccisione di un animale vivo, e l’immediato trangugiare del suo sangue ancora caldo. Era la vita, capisci, la vita a saziarmi oltre che il sangue stesso.

«Durante l’intero corso di queste vicende, non mancai di prendere le dovute precauzioni. Mi spostai all’interno dell’Inghilterra più volte, di modo che le morti e le sparizioni delle mie vittime non si concentrassero in un’unica regione. Sotterrai il maggior numero possibile dei corpi. E infine cominciai a sfruttare la mia intelligenza al fine di rendere la mia caccia quanto più sicura possibile. Mi occorreva danaro, e così preferii vittime facoltose. Divenni ricco, sempre più ricco. Il danaro genera altro danaro, e una volta posseduto un buon capitale, lo feci fruttare in maniera pulita e onesta. Ormai mi esprimevo fluentemente in lingua inglese, Cambiai di nuovo nome, feci di me, nell’aspetto e nella condotta, un vero gentiluomo, acquistai una casa isolata nella brughiera scozzese, dove il mio comportamento non avrebbe attirato grande attenzione, e presi al mio servizio domestici dal carattere riservato. Ogni mese lasciavo la proprietà per attendere ai miei affari, partivo sempre di notte. Nessuna delle mie prede abitava nei paraggi. I miei servitori non sospettavano nulla.

«Finalmente approdai a quella che mi sembrava potesse essere una risposta. Una delle mie domestiche, una giovinetta molto graziosa, si era dimostrata particolarmente cordiale e affettuosa nei miei confronti. Sembrava che le piacessi, e non solamente in qualità di datore di lavoro. Quanto a me, ricambiavo questo affetto. Era onesta, allegra, e molto intelligente, seppur non istruita. Cominciai a vedere in lei un’amica e una possibile via d’uscita. Avevo spesso preso in considerazione la possibilità di incatenarmi, o altrimenti di rinchiudermi in qualche posto fino a quando la Sete Rossa non fosse passata, ma non avevo mai trovato un sistema efficace per attuare questo mio proposito. Se avessi messo la chiave alla mia portata l’avrei certamente usata non appena fossi caduto in balia della sete. Se, al contrario, l’avessi gettata via, come avrei fatto poi a liberarmi? No, per tentare una simile soluzione era necessario l’aiuto di un’altra persona, un’eventualità questa che avevo sempre scartato, memore del consiglio di mio padre il quale mi aveva seriamente ammonito a non fidarmi di nessuno. Non dovevo rivelare ad alcuno il mio segreto.

«Ma stavolta decisi di rischiare. Licenziai gli altri domestici e non assunsi nessun altro al loro posto. Mi feci costruire una stanza all’interno della casa; una piccola stanza senza finestre con spesse pareti di pietra ed una porta di ferro anch’essa spessa e massiccia, uguale a quella che ricordavo nella cella che avevo diviso con mio padre. Tre grossi catenacci di metallo ne avrebbero assicurato la chiusura dall’esterno. Non avrei avuto via d’uscita. Quando l’opera fu completata chiamai la mia graziosa domestica e le diedi le opportune istruzioni. Non mi fidavo di lei tanto da rivelarle tutta la verità. Sai, Abner, temevo che se lei avesse saputo chi ero in realtà, mi avrebbe denunciato, o sarebbe fuggita all’istante, e la soluzione che ormai mi sembrava così vicina e attuabile mi sarebbe sfuggita di mano, sarebbe svanita, e con essa la mia casa, il mio patrimonio, la vita che mi ero creato. E così le dissi soltanto che una volta al mese venivo colto da un raptus di follia, un accesso simile a quelli prodotti dall’epilessia. Durante queste crisi, le dissi, sarei entrato nella mia stanza speciale e lei avrebbe dovuto chiudermici dentro serrando i tre catenacci e fare in modo che vi rimanessi per tre giorni. Avrei portato con me cibo ed acqua, oltre a qualche pollastro vivo, per calmare un po’ la sete, capisci.

«La ragazza ne fu sconvolta, preoccupata e sconcertata, ma alla fine acconsentì ad eseguire quanto le avevo chiesto. Credo che a suo modo mi amasse e desiderasse fare qualcosa per me, per il mio bene. Entrai quindi nella stanza e lei serrò la porta dietro di me.

«E venne la sete. Fu qualcosa di terrificante. L’assenza di finestre non mi impediva di percepire l’inizio e la fine di ogni giornata, l’avvicendarsi della luce e del buio. Di giorno dormivo, come di consueto — ma la notte era un delirio d’orrore. Uccisi tutti i polli la prima notte, e mi ingozzai del loro sangue e della loro carne. Chiesi allora di esser liberato e la mia fedele fanciulla rifiutò. Le urlai le ingiurie più empie. Poi urlai solamente — suoni sconnessi, grugniti animaleschi. Mi gettavo contro le pareti, battevo pugni sulla porta fino a sanguinare per poi accosciarmi in un angolo a succhiare avidamente il mio stesso sangue. Cercai di scavarmi ad unghiate un varco nella pietra là dove questa era più soffice — inutile.

«Il terzo giorno divenni più ragionevole. Era come se la malia di quel delirio si fosse infranta. Adesso discendevo la china, ritornavo ad essere me stesso. Sentivo che la sete andava scemando. Chiamai la servetta alla porta e le dissi che la crisi era passata, che poteva lasciarmi uscire. Essa rifiutò, e mi rammentò che le avevo raccomandato di tenermi prigioniero nella stanza per tre intere notti — e ciò, di fatto, corrispondeva al vero. Risi e riconobbi che aveva ragione, ma le dissi che la crisi era superata e sapevo con certezza che sarebbe ritornata non prima di un mese. Cionondimeno non voleva saperne di liberarmi anzitempo. Non inveii contro di lei per questo. Le manifestai la mia comprensione, la lodai, anzi, per aver eseguito gli ordini con tale precisione. Le dissi di rimanere lì dov’era a parlare con me — in quella prigione sentivo il peso della solitudine. Lei acconsentì e conversammo per quasi un’ora. Ero calmo, coerente nel parlare, accattivante persino, rassegnato ormai alla prospettiva di un’altra notte in quella cella. Fu così pacata e razionale la nostra conversazione che la ragazza non tardò a riconoscere che ormai ero tornato in me. Apprezzai il suo senno e la sua comprensione e magnificai i suoi meriti e l’affetto che provavo per lei. Infine le chiesi di sposarmi quando sarei stato nuovamente libero.

«Aprì la porta. Sembrava così felice, Abner. Così felice, e viva. Era piena di vita. Mi venne vicino e mi baciò, ed io la presi tra braccia e l’attrassi a me. Ci baciammo a lungo. Poi le mie labbra scivolarono lascivamente lungo il suo collo, e trovai l’arteria, e l’aprii. Bevvi… bevvi a lungo. Ero così terribilmente assetato e la vita che suggevo da lei era cor sì dolce. Ma quando la lasciai andare ed essa si allontanò da me vacillando penosamente, un ultimo alito di vita era ancora in lei, esangue e morente ma ancor lucida e padrona della sua coscienza. Quello sguardo, Abner. L’espressione di quegli occhi.

«Di tutte le turpi azioni che avevo compiuto fino a quel momento, quella fu la più orribile. Quella fanciulla sarà sempre con me, Abner. Quello sguardo non mi abbandonerà mai.

«Una disperazione senza confine mi sopraffece di lì a poco. Tentai il suicidio. Comprai un pugnale d’argento con l’impugnatura foggiata a croce — mi lasciavo ancora suggestionare dalle superstizioni, capisci. E mi tagliai le vene dei polsi, adagiandomi in una vasca piena d’acqua calda per facilitare l’emorragia. Volevo morire dissanguato. Guarii. Mi gettai di peso sulla lama di una spada alla maniera degli antichi Romani. Guarii. Ogni volta scoprivo qualcosa di più sulle stupefacenti possibilità della mia natura. Guarivo con una rapidità eccezionale, soffrendo soltanto di un breve dolore. Il mio sangue si coagulava praticamente all’istante, indipendentemente dalla grandezza e dalla profondità della ferita che infliggevo a me stesso. Qualunque cosa fossi, un dato era certo, ero qualcosa di portentoso.

«Poi finalmente, dopo tanti vani tentativi, trovai la soluzione. Fissai due massicce catene di ferro sul muro esterno della casa. Infilai i polsi nelle forti manette, feci scattare la chiusura e gettai la chiave il più lontano possibile. Così, impastoiato, attesi l’alba. Il sole aveva su di me un effetto peggiore di quello che rammentavo. Bruciava e mi accecava. Ogni cosa intorno a me si sfocò in una visione confusa ed amorfa. Fiamme ardevano la mia pelle. Forse gridai. Di certo chiusi gli occhi. Rimasi esposto al flagello per ore, approssimandomi di momento in momento alla soglia della morte. Nulla era in me oltre alla colpa.

«Ed allora, chissà come fu, all’apice di quel delirio mortale, scelsi di vivere. Come ciò avvenne, o perché, non so dirlo. Ma in quell’attimo ebbi come la consapevolezza di aver sempre amato la vita, la vita ch’era in me e negli altri. Capii in quell’istante perché la gioventù, la bellezza, il vigore avessero sempre esercitato su di me una irresistibile attrazione. Aborrivo me stesso perché cagionavo la morte altrui, perché seminavo morte, ed ecco che ora ricadevo nel medesimo fallo, uccidevo ancora, distruggevo, seppur stavolta la vittima ero io stesso. Capii allora che non era quello il modo per espiare la mia colpa, non avrei lavato dal peccato la mia coscienza con altro sangue, altra morte. Per riparare alle mie colpe dovevo vivere, restituire al mondo la vita, la bellezza e la speranza che avevo ferocemente rubato. Ricordai improvvisamente i servitori di mio padre spariti senza lasciar tracce. Altri membri della mia razza abitavano questo mondo. Vampiri, licantropi, stregoni, qualunque cosa fossero, popolavano il mondo della notte. E come saziavano costoro la Sete Rossa? Esplose in me questo quesito. Se solo fossi riuscito a trovarli. Dei miei consimili potevo fidarmi, almeno di loro. Avremmo potuto aiutarci reciprocamente a sconfiggere il male che ci consumava. Avrei imparato da loro.

«Decisi che non sarei morto.

«Le catene erano terribilmente robuste. Me ne ero assicurato di proposito, temendo che avrei ceduto alla tentazione di sfuggire al dolore e alla morte. Ma ora avevo scoperto dentro di me una forza più potente di qualsiasi altra cosa avessi mai conosciuto, più forte ancora del parossismo nel quale ineluttabilmente la sete mi scaraventava. Dovevo spezzare quelle catene, le avrei divelte dalla pietra nella quale io stesso le avevo infitte. Tirai, strappai, in uno sforzo immane. Non volevano cedere. Erano possenti, ostinate, quelle catene. Ed io, dopo essere stato esposto al sole per tante ore, ero allo stremo delle forze. Ancora mi stupisco che la mia coscienza fosse desta. La pelle era nera per le ustioni. Il dolore era giunto ad un grado di intensità tale che ormai non lo avvertivo quasi più. Tutto ciò non mi impediva, tuttavia, di continuare a sfidare la potenza delle solide pastoie.

«Finalmente una di esse si spezzò. La sinistra. L’anello infisso nel muro venne fuori in uno sgretolio di mattoni. Ero libero a metà. Ma sempre più vicino alla morte. Strane visioni mi ottenebravano la mente, di lì a poco avrei perso i sensi, e una volta crollato non vi sarebbe più stato alcun modo di risollevarmi, non mi sarei alzato da lì, mai più. E la catena destra sembrava altrettanto forte e salda di quando avevo iniziato la mia strenua lotta, un tempo che pareva essersi dilatato in ere infinite.

«Quella catena non cedeva mai, Abner. Eppur cedette. La vinsi, e conquistai la mia libertà. Poi la salvezza, la guarigione, nella frescura delle mie tenebrose cantine, dove giacqui per più di una settimana, preda di incubi e visioni, la carne lacerata dalle ustioni, il corpo scosso da spasmi convulsi. E intanto guarivo. Rosicchiai un polso fino a lasciare in terra la mano destra e far scivolare il moncherino dalla manetta.

«Quando ripresi conoscenza, dopo un’intera settimana, avevo di nuovo la mano. Era piccola e tenera, ancora semiabbozzata nella forma, e mi doleva. Terribilmente. Ma col tempo la pelle si indurì. Poi la mano prese a gonfiarsi, la pelle si crepò e si spaccò secernendo un denso fluido bianchiccio. Quando le ferite si seccarono e la pelle morta si staccò, la carne sottostante apparve più sana. Tutto ciò si ripeté tre volte. Il processo di guarigione richiese più di tre settimane, ma quando giunse a compimento nessuno avrebbe mai sospettato che quella mano avesse subito la minima offesa. Ero esterrefatto.

«Questi eventi ebbero luogo nel 1812: un anno che segnò la svolta della mia vita.

«Quando fui nuovamente padrone delle mie forze, capii di essere uscito da quella prova suprema con una ferma decisione: dovevo cambiare il mio modo di vivere e quello della mia razza intera, dovevo liberare il mio popolo da ciò che mio padre aveva definito la nostra rovina, la nostra maledizione — la Sete Rossa. Avevo una missione da compiere: trovare la via di restituire al mondo la vita e la bellezza che ad esso avevamo sottratto. Per far ciò era necessario, prima di ogni altra cosa, scovare gli altri membri della mia razza, e gli unici della cui esistenza avevo la certezza erano i servi di mio padre. In quel periodo, però, non era possibile dare inizio alla ricerca. L’Inghilterra era in guerra con l’Impero di Francia e non c’erano scambi commerciali tra le due nazioni. Comunque, l’esser costretto a rimandare le indagini non mi suscitava disappunto. Sapevo di avere a disposizione tutto il tempo necessario.

«E nell’attesa mi dedicai allo studio della medicina. Nulla, naturalmente, era noto alla scienza per quel che riguardava la mia razza. La nostra stessa esistenza era considerata mera leggenda. Ma c’era molto da imparare sulla tua razza, così simile eppur tanto diversa dalla mia. Entrai in rapporto d’amicizia con molti medici, un chirurgo di gran fama, parecchi esponenti di una ben nota scuola di medicina. Lessi testi medici, vecchi e nuovi. Approfondii lo studio della farmacia, biologia, anatomia, persino dell’alchimia, sperando di trovarvi una risposta, un chiarimento. Costruii ed attrezzai un laboratorio personale per condurre esperimenti nella stessa stanza che avevo utilizzato quale infausta prigione. Ed ora, quando prendevo una vittima — il che accadeva ogni mese — portavo il corpo via con me ogniqualvolta mi fosse possibile e lo studiavo, lo sezionavo. Non puoi immaginare, Abner, quanto desiderassi disporre di un cadavere della mia specie così da poter scorgere le differenze!

«Nel mio secondo anno di studio mi tagliai un dito dalla mano sinistra. Sapevo che si sarebbe rigenerato. Volevo sottoporre ad analisi e dissezione la carne della mia carne.

«Un dito resetto non bastava a rispondere a cento domande, ma il dolore fu comunque giustificato per quel che appresi. La struttura ossea, gli strati tissulari e la composizione del sangue mostravano tutti significative differenze da quelli umani. Il sangue era più chiaro, e mancava di alcuni elementi presenti invece in quello umano. Le ossa, per contro, contenevano elementi in numero maggiore. Erano, al tempo stesso, più forti e più flessibili di quelle umane. L’ossigeno, quel gas miracoloso di Priestley e Lavoisier, era presente nel sangue e nel tessuto in quantità di gran lunga maggiore rispetto ai campioni prelevati da individui della razza umana.

«Non sapevo quali conclusioni trarre da questi dati, da nessuno di essi, ma ipotesi, congetture, teorie, si accumulavano nella mente in una smania febbrile. Forse, credevo, la carenza di sostanze nel mio sangue aveva una qualche connessione con la mia sfrenata necessità di bere sangue altrui. Quel mese, quando la sete era puntualmente arrivata ed io avevo preso la mia vittima, prelevai immediatamente un campione del mio sangue e lo analizzai. La composizione del mio sangue era cambiata! In qualche modo avevo convertito il sangue della mia vittima arricchendo e rendendo più denso il mio, quanto meno per un limitato periodo di tempo. Allora effettuai un prelievo ogni giorno per studiare i mutamenti che sarebbero avvenuti nel mio sangue, e difatti scoprii che esso diventava gradualmente più debole e inconsistente. Probabilmente quando l’equilibrio raggiungeva un certo punto critico scoppiava la sete rossa.

«La mia supposizione lasciava molte domande senza una risposta. Perché il sangue degli animali non bastava a placare la sete? E perché non vi riusciva neppure il sangue prelevato da un cadavere? Forse la morte cagionava la perdita di alcune proprietà? Perché la sete mi aveva colto soltanto all’età di vent’anni? Perché non prima? Non conoscevo nessuna di queste risposte, né sapevo come trovarle, ma ora, se non altro, avevo una speranza, un punto di partenza. Cominciai a preparare pozioni.

«Cosa dirti, Abner? Occorsero anni, anni di infiniti esperimenti, anni di accanito studio. Usai sangue umano, sangue di animali, metalli e sostanze chimiche di ogni sorta. Lo cossi, lo seccai, lo bevvi crudo, lo mescolai con l’assenzio, brandy, fetidi conservanti medicinali, erbe, sali, metalli. Trangugiai un migliaio di pozioni, senza alcun risultata Due volte stetti malissimo, e lo stomaco impazzito mi si rivoltò e mi si arrorcigliò talmente che vomitai l’intruglio che avevo mandato giù. Tentai e ritentai, ma sempre inutilmente. Pozioni e boccali di sangue e droghe ne consumai a centinaia, ma sempre, inevitabilmente, la sete rossa s’impadroniva di me e mi spingeva ad uscire di notte a caccia di una preda, di una nuova vittima. Ora, però, uccidevo senza sentire il fardello della colpa, perché sapevo che stavo lottando per ottenere una risposta, una soluzione, e sapevo che infine sarei riuscito a sconfiggere e conquistare la mia stessa bestiale natura. Non disperavo, Abner.

«E finalmente, nell’anno 1815, trovai la risposta.

«Alcune delle mie misture si erano dimostrate più efficaci di altre e su queste continuai a lavorare, migliorandole sempre di più, ora cambiando questo elemento, ora aggiungendo taluna sostanza, insomma, pazientemente, provai ora in un modo ora nell’altro ed ogni volta sperimentando la nuova formula su me stesso. Il composto che produssi alla fine aveva come base una buona dose di sangue di pecora, mescolato ad una forte porzione di alcol che agiva, credo, come conservante delle proprietà della pozione. Tuttavia, questa sommaria descrizione semplifica immensamente la complessa natura del preparato. V’è in esso anche una buona parte di laudano, per il suo potere calmante, sali di potassio, ferro ed assenzio, e varie erbe e preparazioni alchemiche da lungo tempo in disuso. Per tre anni avevo studiato quella formula, ed un notte nell’estate del 1815 la bevvi, come avevo fatto con tante altre pozioni prima d’allora. Quella notte la sete rossa non fu in me.

«La notte seguente avvertii i primi sintomi di quella bruciante irrequietezza che caratterizza l’innescarsi della crisi, e mi versai un bicchiere della mia bevanda. Lo sorseggiai senza convinzione, temendo che il mio trionfo fosse solo un sogno, un’illusione. Ma la smania svanì. Neppure quella notte ebbi sete, neppure quella notte uscii in cerca di una preda da uccidere e dissanguare.

«Non persi tempi, iniziai subito a preparare il fluido in grande quantità. Non è sempre facile prepararlo nella maniera esatta, e la correttezza della preparazione ne determina l’efficacia; basta un piccolo errore perché la bevanda non abbia più il suo effetto. Per questo il mio lavoro fu ed è sempre stato scrupoloso. Hai veduto tu stesso il risultato di esso, Abner. La mia bevanda speciale. Non me ne separo mai. Abner, io sono riuscito a realizzare qualcosa che mai nessuno della mia razza aveva neppure sognato di fare. Di ciò, comunque, nell’estasi del trionfo, non me ne resi conto allora. Una nuova epoca era iniziata per il mio popolo, e per il tuo, ed ero stato io a segnare questa svolta. Vivere nell’oscurità senza il boia della paura; non più cacciatori e prede, non più nascondigli e disperazione. Non più notti di sangue e barbarie. Abner, io ho sconfitto la Sete Rossa!

«Adesso so quanto fui fortunato, straordinariamente fortunato. La mia comprensione era allora superficiale e limitata. Credevo che le differenze tra la mia e la tua razza fossero circoscritte alla composizine del sangue. In seguito capii quanto ciò fosse sbagliato. Pensavo che l’eccesso di ossigeno fosse in qualche modo responsabile della sete febbrile che periodicamente mi incendiava le vene. Oggi ritengo più probabile che l’ossigeno dia alla mia razza la forza che possiede, e che esso favorisca l’eccezionale capacità di guarigione che ci contraddistingue. Buona parte di ciò che credevo d’aver scoperto nel 1815, alla luce di ciò che so oggi, mi appare come un mucchio di sciocchezze.

«Ho ucciso ancora da allora, Abner, non lo nego. Nel modo in cui uccidono gli esseri umani, e per ragioni umane. Ma da quella notte che trascorsi in Scozia nel 1815 non ho mai più assaggiato una goccia di sangue, né ho più provato il delirio predace della Sete Rossa.

«Non cessai di studiare, né allora né mai. La conoscenza ha per me il fascino della bellezza, ed io gioisco nella bellezza, in ogni forma di bellezza, ed avevo ancora tanto da conoscere di me stesso e della mia razza. Dapprincipio impiegai lettere ed agenti. Successivamente, quando la pace tornò a regnare in Europa, mi misi in viaggio e raggiunsi il continente. Scoprii allora qual era stata la fine di mio padre. E, cosa più importante ancora, antichi documenti di provincia mi rivelarono donde provenisse — o almeno da quali terre egli aveva dichiarato di esser figlio. Ripercorsi il sentiero delle sue origini e attraversai la Renania, la Prussia e la Polonia. Per i polacchi era un bizzarro personaggio vagamente ricordato, una sorta di recluso temuto dal vicinato, un personaggio del quale avevano mormorato qualcosa i bis-bisnonni. C’era chi diceva che fossi un Cavaliere Teutonico. Altri mi indicarono la via dell’est, la via degli Urali. Non faceva grande differenza, i Cavalieri Teutonici erano morti da secoli, e gli Urali erano sconfinati per chi come me avrebbe dovuto intraprendere una ricerca cieca, senza la guida di una traccia valida.

«Giunto ad un punto morto, decisi di rischiare. Con un grosso anello d’argento ed un crocifisso, che speravo fossero sufficienti a dissipare ogni chiacchiera o superstizione, cominciai ad indagare apertamente sui vampiri, licantropi ed altre simili leggende. Qualcuno rise alle mie domande o si fece beffe di me, altri, pochi in verità, fecero il segno della croce e si allontanarono alla svelta, ed infine un numero soddisfacente di sempliciotti e ingenui inglesi mi snocciolarono ben volentieri tutte le storie popolari che volevo udire in cambio di un bicchiere o di un pasto. Da quelle storie trassi utili indicazioni. Non fu cosa facile. La ricerca durò anni. Imparai a parlare il polacco, il bulgaro ed anche a masticare un po’ di russo. Lessi parecchi giornali in dozzine di lingue, cercando articoli che riguardassero morti strane, attribuibili in qualche modo alla sete rossa. Fui costretto a ritornare in Inghilterra due volte per preparare nuove scorte della mia bevanda e badare ai miei affari.

«Ed infine furono loro a trovare me.

«Ero sui Carpazi, in una rozza locanda di campagna. Ero andato in giro a far domande e la notizia delle mie curiose indagini era passata di bocca in bocca. Stanco e sconfortato, e prossimo a sentire i primi spasimi della sete, ero ritornato nella mia stanza più presto del solito, molto prima dello spuntar dell’alba. Ero seduto davanti al fuoco crepitante a sorseggiare la mia bevanda, quando sentii dei colpi che sulle prime interpretai come lo sferzare del vento sulle finestre ammantate di brina. Mi volsi a guardare — la stanza era immersa nell’oscurità che solo il bagliore della fiamma nel focolare rendeva meno fitta — e la finestra era aperta dall’esterno. Lì, stagliato contro il buio della notte ed il nitore della neve ed il baluginio delle stelle, c’era un uomo, in piedi sul davanzale. Entrò nella stanza con l’agilità di un gatto, atterrando sul pavimento senza il minimo rumore. Una folata di vento gelido entrò con lui sferzando l’aria intorno e recando nella stanza un alito di quel feroce inverno che ululava fuori. L’uomo era avvolto dalla penombra ma i suoi occhi ardevano, Abner, ardevano. “Sei curioso dei vampiri, inglese,” sussurrò in un passabile inglese mentre chiudeva piano la finestra dietro di lui.

«Fu un momento di profondo terrore, Abner. Fu forse il gelo penetrato nella stanza a farmi tremare, ma ne dubito. Quell’uomo mi apparve così com’io ero apparso a tanti uomini della tua razza prima che li facessi miei e mi cibassi del loro sangue, della loro vita; una sagoma oscura, gli occhi di fuoco, terribili, un’ombra dai denti aguzzi e mobili che si muovevano con sicura grazia e parlavano in un sinistro bisbiglio. Quando feci per alzarmi dalla sedia, egli avanzò verso la luce della fiamma. Scorsi le sue unghie. Erano veri e propri artigli, lunghi più di dieci centimetri, le estremità nere ed acuminate. Poi alzai gli occhi e scorsi il suo volto.

Ed era un volto che avevo conosciuto nella mia infanzia. Lo guardai ancora ed anche il nome affiorò dai ricordi. «Simon,» dissi.

«Egli s’arrestò. I nostri occhi si incontrarono.

«Tu hai guardato nei miei occhi, Abner. Hai visto la potenza che c’è in essi, credo, e forse vi hai scorto altre cose ancora, cose oscure. È così con tutti coloro che appartengono alla mia razza. Mesmer scrisse del magnetismo animale, di una strana forza che risiede in tutte le creature viventi, in alcune più fortemente che in altre. Io ho visto questa forza negli umani. Durante la guerra due ufficiali possono ordinare ai loro uomini la medesima avventata manovra. Uno sarà ucciso dalle sue stesse truppe per l’assurdità della sua condotta. Il secondo, usando le stesse parole nella stessa situazione, obbligherà i suoi uomini a seguirlo volentieri verso la morte. Credo che Bonaparte possedesse questa capacità in grande misura. Ma quelli della nostra razza, la maggioranza di essi, la possiedono. È nella nostra voce, e specialmente negli occhi. Siamo cacciatori, e con gli occhi sappiamo incantare e calmare la nostra preda naturale, piegarla alla nostra volontà, talvolta persino obbligarla a collaborare alla sua stessa uccisione.

«Allora non sapevo nulla di tutto ciò. La sola cosa di cui ero consapevole in quel momento furono gli occhi di Simon, il tocco rovente di quello sguardo, la furia e il sospetto che ne promanavano. Sentii l’ardore della sete che lo dilaniava e la mia brama di sangue, da lungo tempo sopita, sembrò lambirmi i sensi. Sentii il richiamo di quel nostro comune istinto, finché non ne ebbi paura. Fui incapace, però, di distogliere lo sguardo da quegli occhi. Né poté farlo lui. Ci fronteggiammo silenziosamente, muovendoci quasi impercettibilmente in un circospetto moto circolare, gli occhi dell’uno indivisibilmente serrati su quelli dell’altro. Il bicchiere mi cadde di mano e si frantumò sul pavimento.

«Non saprei dire quanto tempo fossimo rimasti prigionieri del nostro reciproco magnetismo, poi, finalmente fu Simon ad abbassare lo sguardo, e l’incantesimo si spezzò. A quel punto accadde una cosa strana e sconcertante. Egli si inginocchiò davanti a me ed apertasi una vena del polso così che il sangue potesse defluirne copiosamente, mi porse il braccio in segno di sottomissione. “Signore del Sangue,” disse in francese.

«Quel sangue che sgorgava così vicino a me, così facile da prendere, generò nella mia gola un’improvvisa arsura. Tremando, afferrai quel braccio e cominciai a chinarmi su di esso. Ma in quel preciso istante ricordai. Lo allontani da me con uno schiaffo e mi volsi di scatto. La bottiglia era sul tavolo vicino al caminetto. Riempii due bicchieri, ne vuotai subito uno e misi l’altro tra le mani di Simon che frattanto era rimasto a guardarmi con aria confusa. “Bevi,” comandai, e quello non esitò un solo istante. Ero un Signore del Sangue e la mia parola era legge.

«Fu l’inizio, lassù, sui Carpazi nel 1826.

«Simon, come sapevo, era stato uno dei due servitori e discepoli di mio padre, il quale era egli stesso un Signore del Sangue. Con la sua morte era stato Simon a prendere in mano le redini del comando essendo più forte dell’altro. La notte seguente mi condusse sul luogo in cui viveva, una comoda stanza sepolta tra le rovine di una vecchia forteza montana. Lì conobbi gli altri; una donna, nella quale riconobbi l’altra domestica della mia infanzia, ed altri due membri della mia razza, coloro che tu chiami Smith e Brown. Simon era stato il loro Signore. Adesso quel ruolo era mio. Per di più io portavo con me la libertà dalla Sete Rossa.

«E così bevemmo, e trascorremmo insieme molte notti, ed in esse, dalle loro labbra, cominciai a conoscere la storia e i costumi del popolo della notte. Siamo un vecchio popolo, Abner. Molto prima che la tua razza erigesse città nel caldo sud, i miei antenati popolavano gli oscuri inverni dell’Europa del nord, predando. Dai racconti che ci tramandiamo sappiamo che probabilmente giungemmo dagli Urali, o forse dalla steppa, e nel corso dei secoli migrammo verso ovest e verso sud. Abitammo le lande di Polonia prima degli stessi polacchi, ci aggirammo nelle foreste della Germania prim’ancora dei barbari germanici, dominammo la Russia prim’ancora dei Tartari, prim’ancora che Novgorod-la-Grande rifulgesse del suo abbagliante splendore. Quando dico vecchio, non parlo di centinaia d’anni, ma di migliaia. Millenni trascorsi nel freddo e nell’oscurità. Eravamo creature selvagge, così dicono le storie, strani animali ignudi, figli della notte, lesti, liberi, letali. Immensamente più longevi di ogni altra bestia — era impossibile uccidere noi, padroni e signori della creazione. È così che narrano le nostre storie. Ogni essere che camminasse su due o su quattro zampe rifuggiva da noi, terrorizzato. Tutto ciò che era vita era per noi cibo. Di giorno dormivamo in caverne, intere famiglie, folti gruppi. Di notte, eravamo i signori della terra.

«Poi dal sud giunse la tua razza ed invase il nostro mondo. Il popolo del giorno, così simile a noi eppur così diverso. Deboli, eravate immensamente deboli. Non faticavamo ad uccidervi, e ne provavamo gioia, perché in voi scoprivamo la bellezza, e da sempre il mio popolo è stato attratto verso la bellezza. Forse era proprio l’affinità delle nostre due razze a risultare per noi così irresistibilmente accattivante. Per secoli non foste altro che le nostre prede.

«Ma col passare del tempo le cose mutarono. La mia razza era longeva ma esigua nel numero. L’istinto all’accoppiamento è stranamente assente in noi, mentre tra voi umani esso è altrettanto possente quanto in noi lo è la Sete Rossa. Simon mi disse — allorché gli domandai di mia madre — che i maschi della mia razza provano desiderio di accoppiarsi solo quando la femmina entra in calore, e ciò accade raramente — per lo più quando maschio e femmina hanno ucciso insieme. Anche in tal caso, tuttavia, le donne sono raramente fertili, della qual cosa sono grate visto che di solito il concepimento significa la morte per le femmine della nostra razza. Io uccisi mia madre, fu Simon a dirmelo. Per uscire dal suo grembo, le dilaniai l’utero, provocando danni tali che neppure i nostri poteri rigenerativi valsero a salvarla. E ciò accade quasi sempre quando individui della mia razza vengono alla luce. Sangue e morte segnano l’inizio della nostra vita.

«In fondo vi è un certo equilibrio in ciò. Dio, se credi in lui, o la Natura, se non sei credente, dà e prende. Noi possiamo vivere mille anni e più. Se possedessimo la vostra stessa fertilità, allora avremmo già riempito questo mondo. La vostra razza si riproduce incessantemente, mette al mondo figli su figli, greggi infiniti, sciami di mosche, ma come le mosche facilmente nascete e facilmente morite. Una piccola ferita, una banale malattia vi è fatale, mentre a noi non torce un capello.

«Non c’è da stupirsi che dapprincipio vi ritenessimo creature inferiori. Ma poi vi espandeste, costruiste città e nutriste la vostra mente di nuove conoscenze. Anche voi, come noi, avevate intelligenza, ma noi non avevamo mai avuto necessità di usare la nostra, forti com’eravamo. La vostra razza portò nel mondo il fuoco, gli eserciti, gli archi e le lance, gli abiti, l’arte, la scrittura e la lingua. La civiltà, Abner. E, civilizzati, cessaste d’esser prede. Cominciaste a darci la caccia, ad ucciderci col fuoco e col paletto, a sorprenderci di giorno nelle nostre spelonche. Già pochi di numero, diminuimmo sempre più. Vi combattevamo e morivamo, o fuggivamo, ma là dove noi andavamo voi pronti ci seguivate. Infine facemmo ciò che fummo costretti a fare. Imparammo da voi.

«I vestiti, il fuoco, le armi, la lingua, tutto. Non avevamo mai avuto niente di ciò, e così mutuammo ogni cosa da voi. Ci demmo un’organizzazione sociale uguale alla vostra, cominciammo a ragionare e a programmare, ed infine ci mescolammo completamente a voi, vivendo all’ombra di quel mondo che la vostra razza aveva costruito, fingendoci uguali a voi. Ma di notte uscivamo furtivamente dai nostri appartati rifugi e col vostro sangue saziavamo la nostra sete, mentre di giorno ci nascondevamo per paura di voi e della vostra vendetta. E tale è stata in massima parte la storia della mia razza, la storia del Popolo della Notte.

«Tutto ciò udii dalle labbra di Simon, così com’egli, anni avanti, aveva udito dalle labbra di altri ormai morti e distrutti. Del gruppo che rintracciai, Simon, con i suoi quasi seicento anni, era il più anziano.

«Altre cose ancora seppi da lui, leggende che andavano oltre la nostra storia orale spingendosi fino alle nostre primitive origini, affondando radici nell’oscura alba del tempo stesso. Anche lì scorsi la mano della tua gente, giacché i nostri miti si intrecciavano con storie tratte dalla vostra Bibbia Cristiana. Brown mi lesse brani dal libro della Genesi, a proposito di Adamo ed Eva e dei loro figli, Caino e Abele, i primi uomini, gli unici uomini. Ma quando Caino uccise Abele, andò lontano in esilio e prese moglie nella terra di Nod. Donde ella provenisse, se non v’erano altri uomini al mondo, la Genesi non lo spiegava. Brown, però, diede una spiegazione a ciò: Nod era la terra della notte e della tenebra, disse, e quella donna era la Madre della nostra razza. Da essa e da Caino noi discendemmo, e quindi siamo noi la progenie di Caino, non gli uomini dalla pelle nera come credono alcuni della vostra specie. Caino uccise suo fratello e si nascose, e così noi dobbiamo uccidere i nostri lontani cugini e nasconderci quando sorge il sole, perché il sole è il volto di Dio. Noi viviamo lungamente come tutti coloro che vissero all’alba del mondo — è la vostra Bibbia che descrive la loro longevità — ma la nostra vita è maledetta, e condannata ad esser vissuta nella paura e nell’oscurità.

«Molti membri della mia razza davano credito a questa leggenda, altri si affidavano a miti diversi e taluni addirittura accettavano le leggende sui vampiri, credendosi immortale incarnazione del male.

«Ascoltai storie di avi da lungo tempo scomparsi, storie di lotte, persecuzioni, migrazioni. Smith mi narrò di una grandiosa battaglia combattuta più di mille anni fa sulle coste desolate del Baltico. Erano poche centinaia quelli della mia razza che discesero di notte su di un’orda di migliaia. Al mattino il sole si levò su di un campo rutilante di sangue e cadaveri. Quella descrizione mi riportò alla mente Sennacherib di Byron. Simon mi parlò dell’antica e splendida Bisanzio, dove molti della nostra razza avevano vissuto secoli di prosperità, invisibili in quella pullulante e grandiosa città finché i crociati non erano giunti da occidente a saccheggiare e distruggere, mandando al rogo tanti dei nostri. Recavano la croce quale loro stendardo, quegli invasori, ed io mi domandai se non fosse questa la vera fonte della leggenda per la quale quelli della mia razza temono ed aborriscono il simbolo cristiano. Dalle labbra di tutti udii la leggenda di una città da noi costruita, una favolosa Città della Notte, una città di ferro e marmo nero edificata negli spazi immensi di oscure caverne nel cuore dell’Asia, presso le sponde di un fiume sotterraneo e d’un mare mai toccato dal raggio del sole. Secoli prima di Roma o persino di Ur, la nostra città aveva raggiunto vertici di gloria e di splendore. Ciò, naturalmente, contrastava grossolanamente con la storia che mi avevano raccontato in precedenza, la storia di rozzi esseri ignudi scorrazzanti tra gelide foreste al chiaro di luna. Secondo il mito, noi saremmo stati espulsi dalla città favolosa perché colpevoli di un grave delitto, dopodiché avremmo errato per il mondo, alla deriva, perduti ed immemori, per migliaia d’anni. Ma la città era ancora lì, ed un giorno un Re sarebbe nato per il nostro popolo, un Signore del Sangue più grande e potente di ogni altro che lo aveva preceduto. Egli avrebbe riunito la nostra razza dispersa e ci avrebbe ricondotti alla Città della Notte sulle sponde del suo mare senza sole.

«Sai, Abner, di tutto ciò che avevo udito ed appreso questo racconto fu quello che mi impressionò più di ogni altro. Dubito che esista una tale città sotterranea, dubito che essa sia mai esistita, ma il solo racconto della sua possibile esistenza mi dimostrò che il mio popolo non era affatto l’incarnazione del male. Non eravamo — non siamo — i vuoti vampiri della leggenda. Non avevamo arte, letteratura, neppure una lingua che ci fosse propria, ma quella storia dimostrava che possedevamo la capacità di sognare, di immaginare. Noi non avevamo mai costruito, mai creato, avevamo solamente rubato i vostri vestiti e vissuto nelle vostre città e ci eravamo cibati della vostra vita, della vostra energia, del vostro stesso sangue — ma potevamo creare, se ce ne fosse stata data la possibilità, perché avevamo dentro di noi la capacità di raccontare storie di città nostre. La Sete Rossa è stata la nostra maledizione, ha reso nemiche la mia e la tua razza, ha derubato il mio popolo di ogni nobile aspirazione. Il marchio di Caino, ecco cos’è.

«Anche noi abbiamo avuto i nostri grandi eroi, Abner, i nostri gloriosi condottieri, Signori del Sangue reali ed immaginari. Abbiamo avuto i nostri Cesari, i nostri Salomoni, i nostri Prester John. Ma stiamo ancora aspettando il nostro Salvatore, il nostro Cristo.

«Accalcati tra le rovine di quel tetro castello, tra gli ululi del vento che feroce sferzava fuori dalle mura, Simon e gli altri bevvero il mio liquore e mi narrarono storie, scrutandomi col potente scandaglio dei loro occhi fiammeggianti, ed io compresi il pensiero che cominciava a prender forma nella loro mente. Ciascuno di loro aveva centinaia d’anni più di me, ciò nondimeno io ero più forte di loro, il più forte, ero il Signore del Sangue. E portavo a loro un elisir che annientava la Sete Rossa. Inoltre sembravo semiumano. Abner, essi videro in me il salvatore della leggenda, il promesso Re dei Vampiri. Ed io non potei negarlo. Era il mio destino, lo capii allora, dovevo condurre la mia razza fuori dalle tenebre.

«Sono tante e tante le cose che voglio fare, Abner, tu non immagini quante. La gente della tua razza è timorosa, superstiziosa e accecata dall’odio, e in tal modo costringe la mia razza a rimanere nascosta, almeno per il momento. Ho visto il modo in cui vi fate guerra tra voi stessi, ho letto di Vlad Tepes — che non era uno di noi, comunque — di lui e di Caligola e di altri re, ho visto uomini della tua razza bruciar vive vecchie donne perché sospettate di appartenere alla nostra stirpe, e qui, a New Orlenas, ho visto il modo in cui riducete alla schiavitù i vostri stessi simili, vi ho visto frustarli e venderli come bestie soltanto a causa del colore scuro della loro pelle. I negri sono più vicini a voi, assai più affini, di quanto mai possa esserlo la mia razza. Potete concepire figli con le loro donne, un incrocio impossibile, invece, tra la Notte e il Giorno. No, dobbiamo rimanere celati al vostro popolo, per nostra sicurezza. Ma una volta liberi dalla Sete Rossa, spero che col tempo potremo rivelarci a coloro che tra voi sono i più saggi, uomini di scienza e cultura, i vostri capi. Potremmo aiutarci reciprocamente, Abner! Potremmo insegnarvi la vostra stessa storia, e da noi potreste imparare a guarire da tante malattie, potreste imparare a vivere molto più a lungo. Da parte nostra, questo è solo l’inizio. Ho sconfitto la Sete Rossa, e con un po’ d’aiuto sogno un giorno di conquistare anche il Sole — un giorno anche noi cammineremo sulle strade del mondo inondate dalla luce. I vostri chirurghi e medici potrebbero aiutare le nostre donne a partorire ed evitare che la procreazione significhi morte.

«Non v’è limite a ciò che la mia razza può creare. Lo capii allora, mentre ascoltavo Simon, capii che potevo fare della nostra razza uno dei popoli più gloriosi della terra. Ma prima dovevo trovare la mia razza, prima di poter dare inizio alla mia opera.

«Il compito non era semplice. Simon mi disse che quand’era giovane ve n’erano quasi mille dei nostri disseminati in Europa, dagli Urali alla Gran Bretagna. La leggenda diceva che alcuni si erano spostati verso sud, in Africa, o ad est, verso la Mongolia e il Gatai, ma nessuno possedeva prove di tali migrazioni. Dei mille che avevano dimorato in Europa, la maggioranza erano morti durante le guerre o in seguito a processi per stregoneria, oppure erano stati catturati quando ancora crescevano spensierati. Forse un centinaio erano rimasti in Europa, forse meno. Ben poche erano state le nascite. E quelli che erano sopravvissuti erano dispersi e nascosti.

«E così iniziammo una ricerca che ci portò via un intero decennio. Non ti annoierò con tutti i particolari. In una chiesa, in Russia, trovammo quei libri che hai visto nella mia cabina, gli unici documenti scritti dalla mano di uno dei nostri. Col tempo riuscii a decifrarli e lessi la triste vicenda di una comunità di cinquanta figli del popolo del sangue, le loro traversie, le loro migrazioni, battaglie, morti. Erano stati tutti distrutti, gli ultimi tre crocifissi e bruciati secoli prima della mia nascita. Sui monti della Transilvania trovammo i resti di un rifugio fortificato di montagna, e nelle grotte sottostanti, gli scheletri di due individui della mia razza: ciascuno con un paletto di legno marcio piantato nel costato, e i teschi posti in cima a due pali. Dallo studio di quelle ossa appresi molte cose, ma non trovammo superstiti. A Trieste venimmo a sapere di una famiglia che non usciva mai di giorno. Si diceva che i suoi componenti fossero stranamente pallidi. E di fatto lo erano. Erano albini. A Budapest trovammo una donna, ricca e spaventosamente malata, che frustava le sue cameriere e le salassava con coltelli e sanguisughe, per poi strofinarsi sulla pelle il loro sangue credendo di preservare la sua bellezza. Comunque apparteneva alla vostra razza. Lo confesso, la uccisi con le mie mani, fu tale il disgusto che provai. Non era la morsa della sete che la costringeva a compiere atti così turpi; soltanto la sua natura maligna la induceva ad agire in quel modo — la furia mi ottenebrò la mente e mi guidò la mano. Infine, non avendo trovato nulla, ritornammo alla mia casa in Scozia.

«Passarono alcuni anni. La donna del nostro gruppo, compagna di Simon e governante negli anni della mia infanzia, morì nel 1840, per cause che non fui mai capace di individuare. Aveva meno di cinquecento anni. Sezionai il corpo e scoprii quanto fossimo diversi da voi, quanto poco di umano ci fosse in noi. La donna aveva almeno tre organi che non avevo mai veduto in cadaveri umani. Ho solamente una vaga idea di quale sia la loro funzione. Il cuore era una volta e mezza più grande di un cuore umano, ma l’intestino era molto ridotto, e c’era un secondo stomaco — credo destinato esclusivamente alla digestione del sangue. Ed ancora altre differenze scorsi, ma non ha importanza parlarne.

«Lessi molto, imparai altre lingue, scrissi poesie, mi occupai di politica. Frequentammo i salotti mondani più in vista, io e Simon almeno. Smith e Brown, come tu li chiami, non mostrarono mai grande interesse per l’inglese e si tennero in disparte. Due volte io e Simon ritornammo sul continente per nuove ricerche. Una volta lo mandai in India dove rimase tre anni.

«E finalmente, appena due anni fa, trovammo Katherine. Viveva a Londra, praticamente sotto il nostro naso. Era una dei nostri, ma più importante ancora di ciò fu la storia che ci raccontò.

«Ci disse che intorno al 1750, un cospicuo gruppo di appartenenti alla nostra razza s’insediò nell’Europa occidentale, dividendosi tra la Francia, la Bavaria, l’Austria ed anche l’Italia. Menzionò alcuni nomi; Simon li riconobbe. Avevamo cercato queste persone per anni senza alcun risultato. Katherine ci disse che uno di essi era stato rintracciato e ucciso dai gendarmi a Monaco nel 1753 o giù di lì, e questo episodio aveva gettato gli altri nel terrore. Il loro Signore del Sangue decise allora che l’Europa fosse divenuta troppo popolata, troppo organizzata perché potessero vivervi senza pericolo. Per noi che vivevamo occultati tra le ombre, nel buio dei recessi più remoti, sembrava non esserci più molto spazio. E così aveva noleggiato una nave e tutti insieme erano partiti da Lisbona, salpati da quel porto alla volta del Nuovo Mondo, dove la vita selvaggia e primitiva delle foreste sconfinate e la ferocia del colonialismo promettevano facili prede e sicura protezione. Katherine non seppe spiegarci come mai mio padre ed il suo gruppo non avessero preso parte all’esodo. Anche lei sarebbe dovuta partire con gli altri, ma piogge e temporali e la ruota squassata di una carrozza ostacolarono il suo viaggio a Lisbona, e quando infine vi giunse, i compagni eran già partiti.

«Naturalmente non persi tempo. Mi recai subito a Lisbona e scartabellai tra tutte le vecchie carte e gli antichi documenti di viaggi ancora reperibili. Ci volle tempo, ma alla fine trovai quel che cercavo. La nave, come avevo immediatamente sospettato, non aveva mai fatto ritorno dalla traversata. Con una navigazione così lunga non poteva esserci altra scelta: l’equipaggio costituiva l’unica fonte di sostentamento, ed i suoi componenti, uno dopo l’altro, furono cibo per i viaggiatori. Il problema si poneva in questi termini: la nave era giunta al Nuovo Mondo? Non trovai nessun documento che rispondesse affermativamente a tale quesito. La destinazione fissata, questa però, la individuai — il porto di New Orleans. Da lì, risalendo il Mississippi, avrebbero trovato una porta aperta sull’intero continente.

«A questo punto, il resto del racconto è più che ovvio. Siamo venuti. Sentivo in me la certezza che li avrei trovati. Possedere un battello mi sembrò una soluzione tale da garantirmi il lusso e la comodità cui sono abituato, nonché la libertà e la mobilità necessarie alla mia ricerca. Il fiume pullula di individui eccentrici. Qualcuno in più sarebbe passato tranquillamente inosservato. E se a monte e a valle del fiume si fosse diffusa la voce di un battello favoloso e di uno strano capitano che usciva solo di notte, beh, tanto meglio. La notizia avrebbe potuto raggiungere le orecchie giuste e loro sarebbero venuti da me come Simon aveva fatto tanti anni prima. Cosicché feci le opportune indagini e quella notte, io e te, Abner, ci incontrammo a St. Louis.

«Il resto lo conosci, immagino, o comunque puoi intuirlo facilmente. Lascia, però, che ti dica un’altra cosa ancora. A New Albany, quando mi mostrasti il nostro battello per la prima volta, non finsi la mia soddisfazione. Il Fevre Dream è bello, Abner, ed era così che volevo che fosse. Per la prima volta, grazie a noi, il mondo ha conosciuto un oggetto che è pura espressione di bellezza. Ciò rappresenta un nuovo inizio. Il nome che proponesti di dargli mi spaventò un poco — per la mia gente la parola febbre è stata spesso sinonimo di sete. Ma Simon mi fece notare che probabilmente un nome simile sarebbe risultato particolarmente accattivante per uno della nostra razza qualora fosse giunto al suo orecchio.

«Ecco, questa è la mia storia. Ti ho detto quasi tutto. La verità che insistevi tanto per conoscere. Sei stato un uomo onesto con me, a modo tuo, e ti credo quando mi dici che non sei superstizioso. Se i miei sogni sono destinati ad avverarsi, allora ci sarà un tempo in cui notte e giorno stringeranno le loro mani sul crepuscolo della paura che risiede dentro di noi. Dovrà giungere, però, il momento di rischiare. Che sia ora questo difficile momento, è ora che rischio, ed è con te. I miei sogni ed i tuoi, il nostro battello, il futuro del mio e del tuo popolo, il futuro dei vampiri e del bestiame — affido tutto quanto al tuo giudizio, Abner. Quale sarà la tua sentenza? Fiducia o paura? Sangue o buon vino? Amici o nemici?»

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