I giorni s’inseguivano con tediosa monotonia mentre il Fevre Dream discendeva il Mississippi.
Un battello veloce poteva coprire la distanza tra St. Louis e New Orleans e viceversa in ventotto giorni o giù di lì, calcolando anche una settimana o poco più per le possibili soste e gli scali effettuati per caricare o scaricare merci alle calate, e considerando una dose ragionevole di cattivo tempo. Ma procedendo all’andatura che il Fevre Dream stava tenendo, sarebbe occorso un mese intero solo per giungere a New Orleans. Ad Abner Marsh sembrava che il tempo, il fiume e Joshua York avessero ordito una congiura mirata a rallentare la navigazione del suo battello. La nebbia stagnò sul fiume per due giorni, grigia e fitta come un sipario di cotone bisunto; Dan Albright vi s’inoltrò per sei ore, spingendo cautamente il battello in quei muri di nebbia solidi ed erratici, muri che si dissolvevano aprendo varchi davanti al Fevre Dream e facevano del Capitano Marsh una massa di nervi tesi allo stremo. Fosse stato per lui, si sarebbero fermati al primo apparire della nebbia piuttosto che mettere a repentaglio il Fevre Dream, ma sul fiume era il pilota che prendeva simili decisioni, non il comandante, e Albright volle andare avanti. Alla fine, però, la nebbia si fece troppo fitta anche per lui, e persero un giorno e mezzo presso un approdo dalle parti di Memphis, e trascorsero il tempo ad osservare le acque brune che scorrevano tumultuose, strattonandoli, e ad ascoltare lontani sciabordii nella nebbia. Ad un certo momento, capitò che una zattera passò di là, un incendio vi era divampato, e udirono gli zatterieri che li chiamavano, vaghe, fievoli grida echeggianti sullo specchio del fiume prima che l’opaco grigiore inghiottisse la zattera e le grida insieme.
Quando finalmente la nebbia si fu dissipata quel tanto da consentire a Karl Framm di riprendere la navigazione, procedettero per meno di un’ora per poi subire un nuovo arresto. Stavolta si arenarono in una secca, allorché Framm tentò un braccio diretto che tagliava in diagonale l’ansa del fiume, una scorciatoia incerta che però avrebbe permesso loro di guadagnare un po’ di tempo. Manovali, scaricatori e pompieri si riversarono fuori bordo sotto la direzione di Mike il Peloso, e disincagliarono il battello, ma ci vollero più di tre ore, dopodiché proseguirono molto lentamente, con Albright che li precedeva nella iole a far scandagli. Alla fine uscirono dal braccio insidioso e tornarono a navigare in acque sicure, ma purtroppo i guai non erano ancora finiti. Tre giorni dopo li sorprese una tempesta, e più volte il Fevre Dream dovette allungare il percorso prendendo alla larga una curva del fiume a causa di qualche tronco o del livello dell’acqua troppo basso sulle rapide o nei bracci diagonali; sovente dovettero procedere ad un’irritante lentezza, con le pale che a stento giravano, mentre la iole li precedeva per scandagliare il fondo, ed allora si aspettava che il pilota non di turno, un ufficiale e un membro dell’equipaggio calassero il piombo, e riferissero ad ogni calata: «Un quarto e due,» oppure «Un quarto meno tre,» o ancora «Marca tre.» Se non erano nebbiose, le notti erano buie e coperte; così, quando il battello navigava, se navigava, procedeva con estrema prudenza, ad un quarto della sua potenziale velocità, col divieto di fumare nella cabina di pilotaggio e tutte le finestre accuratamente chiuse e schermate dalle tende affinché il battello non proiettasse luci nell’oscurità ed il timoniere potesse vedere il fiume con fatica almeno un po’ alleviata. In quelle notti le rive erano tenebrose e desolate, e sembravano agitarsi come cadaveri irrequieti, spostandosi da una parte all’altra e rendendo così più difficile distinguere il flusso mediano del fiume dove l’acqua correva profonda, é talora impedivano finanche di scorgere dove l’acqua terminava e la terraferma iniziava. Il fiume era un cupo abisso, dove né luna né stelle spandevano il pur minimo barlume. In certe notti diventava difficoltoso scorgere persino la spia luminosa posta a metà del pennone e grazie alla quale i piloti calcolavano i loro segnali di riferimento. Ma Framm e Albright erano piloti consumati e, sempre che fosse possibile navigare, seppur lentamente, il Fevre Dream andava avanti nonostante tutto. Quelle volte che il battello rimaneva immoto erano volte in cui niente si muoveva sul fiume, a parte zattere e tronchi e una manciata di chiatte e di battellucci da due soldi che a stento avanzavano.
Joshua York non negava la sua collaborazione; ogni sera saliva alla cabina di pilotaggio per fare il proprio turno come un apprendista diligente. «Gli avevo detto che in un notte così non era possibile farlo stare al timone,» disse una volta Framm rivolgendosi al Capitano Marsh mentre pranzavano. «Come facevo ad insegnargli delle marche che neppure io riuscivo a vedere? Ebbene, non ho mai conosciuto in vita mia un uomo che abbia occhi come i suoi. E diabolico come vedono al buio. Delle volte giurerei che quello riesce a vedere dentro l’acqua, non importa quanto sia nera. Lo faccio venire vicino a me e gli dico dove sono i segnali, e quello nove volte su dieci li vede prima di me. Stanotte, a metà del turno lungo, se non fosse stato per Joshua avrei fermato il battello.»
Ma York riusciva altrettanto bene a rallentare la navigazione. Sei soste fuori programma furono effettuate su suo comando; a Greenville e in due città più piccole, ad un molo privato nel Tennessee e due volte ai depositi di legname. In due di quelle occasioni, York fu assente per tutta la notte. A Memphis non fu impegnato da alcuna incombenza, ma altrove fece protrarre le soste in maniera intollerabile. Quando giunsero a Helena passò la notte a terra, e a Napoleon li tenne bloccati per tre giorni, lui e Simon, per fare Dio sa che cosa. A Vicksburg fu anche peggio; vi restarono quattro notti prima che Joshua York si decidesse a far ritorno al Fevre Dream.
Il giorno in cui partirono da Memphis il tramonto ebbe un incanto del tutto speciale. I pochi fiocchi di nebbia che ancora indugiavano nel cielo assunsero un dorato lucore arancione, e le nuvole ad occidente si tinsero via via d’un vivido rosso di ferina intensità, finché il cielo stesso fu tutto un divampare di fiamme. Ma Abner Marsh, da solo in piedi sul ponte del texas, dove si trovava la sua cabina, aveva occhi solo per il fiume. Non c’erano altri battelli in vista. L’acqua davanti a loro era calma; piccole onde s’increspavano là dove il vento la carezzava, e la corrente sciabordava lievemente intorno ai rami neri e sinistri di qualche albero che caduto sporgeva dalla riva, ma per lo più il vecchio diavolo scorreva placido. E mentre il sole calava, l’acqua melmosa prendeva una tinta rossiccia, una tinta che s’intensificava, si espandeva e si oscurava fino a dar l’impressione che il Fevre Dream si stesse muovendo sopra un fiume di sangue. Poi il sole scomparve dietro gli alberi e le nuvole, e lentamente il flusso di sangue s’incupì, e divenne rugginoso come quando il sangue si secca, per farsi infine nero, nero come la morte, nero come una tomba. Marsh contemplò gli ultimi gorghi cremisi svanire. Le stelle non si accesero quella notte. Scese nel salone per la cena, e l’immagine del sangue gli riempiva la mente.
Erano trascorsi alcuni giorni dallo strano episodio di New Madrid, e Abner Marsh non aveva fatto niente, non aveva detto niente. Aveva, tuttavia, meditato a lungo su ciò che aveva visto, o non aveva visto, nella cabina di Joshua. Naturalmente non poteva essere sicuro di aver visto quel che pensava. Oltretutto, seppure non si fosse sbagliato, che significato poteva mai trarne? Forse Joshua si era tagliato nei boschi… anche se, per la verità, la notte seguente Marsh aveva scrutato attentamente le mani di York e non vi aveva scorto segni di tagli o croste. Forse aveva ucciso un animale o aveva dovuto difendersi dall’assalto di qualche ladro; una dozzina di buone ragioni ai affacciavano alla sua logica, ma tutte crollavano, invariabilmente confutate dal silenzio di Joshua. Se York non aveva nulla da nascondere, perché allora si ostinava in quella maledetta segretezza? E quanto più Abner Marsh rifletteva su queste cose, tanto meno esse gli piacevano.
Marsh aveva già visto il sangue prima d’allora, fiumi di sangue: combattimenti corpo a corpo, sfide a colpi di bastone, duelli e sparatorie. Il Mississippi scorreva nella terra degli schiavi, ed il sangue sgorgava facilmente per coloro la cui pelle era nera. Negli stati liberi non si poteva dire che la situazione fosse di gran lunga migliore. Marsh aveva vissuto per un po’ nel sanguinoso Kansas, aveva visto uomini bruciati, fucilati. Da giovane aveva prestato servizio nella milizia dell’Illinois e aveva combattuto nella guerra contro Falco Nero. A volte gli capitava ancora di sognare la battaglia dell’Ascia Nera, quando avevano massacrato il popolo di Falco Nero, compresi donne e bambini, mentre tentavano di attraversare il Mississippi per trovare la salvezza sulla sponda occidentale. Era stato un giorno cruento, ma era stato necessario; d’altra parte lo stesso Falco Nero non esitava a far ferro e fuoco nel territorio dell’Illinois.
Tuttavia, in un certo qual modo, il sangue che imbrattava, forse, le mani di Joshua York era qualcosa di diverso. Esso aveva lasciato in Marsh un turbamento, un’inquietudine.
Marsh continuava a ripetere a se stesso che esisteva un patto tra loro due. E per Abner Marsh un patto era un patto, un vincolo che legava un uomo indissolubilmente, nel bene e nel male, poco importava con chi il patto fosse stato stretto, fosse un prete, un imbroglione o il diavolo stesso, esso andava rispettato. Joshua York, ricordava Marsh, aveva fatto menzione di certi nemici, ed i rapporti di un uomo con i propri nemici erano una faccenda privata e personale. York era stato abbastanza onesto con Marsh.
Così il Capitano andava ragionando, e si sforzava di scacciare dalla sua mente l’intera faccenda.
Ma il Mississippi si tinse del colore del sangue, ed allo stesso modo, il sangue intrise anche i sogni del Capitano. A bordo del Fevre Dream noia e tetraggine appesantirono l’umore generale. Un fuochista commise un’imprudenza e si ustionò col vapore, e si fu costretti a farlo sbarcare a Napoleon. Uno scaricatore abbandonò il battello a Vicksburg, il che fu una vera follia trovandosi in territorio schiavista ed essendo lui un uomo di colore libero. Risse scoppiarono tra i passeggeri del ponte di coperta. Era colpa della noia e dell’afa umida e soffocante di quell’agosto — così disse Jeffers al Capitano. «La marmaglia impazzisce,» gli aveva fatto eco Mike il Peloso. Ma Abner Marsh non ne era tanto sicuro. A lui pareva piuttosto che stessero subendo una sorta di punizione.
Missouri e Tennessee svanirono dietro di loro e l’inquietudine in Marsh si faceva via via più corrosiva. Si lasciavano alle spalle cittadine, grandi centri, depositi di legname, i giorni si accumulavano tortuosamente dilatandosi in lente settimane, ed il battello perdeva carico e passeggeri a causa delle soste di York. Marsh scendeva a terra, s’inoltrava nei saloon e negli alberghi affollati di battellieri e tendeva l’orecchio, e le chiacchiere che si facevano a proposito del suo battello non gli andavano proprio a genio. Si diceva che per via delle troppe caldaie il Fevre Dream fosse stato costruito troppo grosso e pesante, e che perciò non era affatto veloce. Un’altra voce insinuava che avesse problemi con i motori e che un guasto alle saldature aveva quasi provocato uno scoppio. Quelle calunnie danneggiavano enormemente il battello; le esplosioni di caldaie erano un pericolo per il quale la gente nutriva un gran timore. A Vicksburg un comandante in seconda in servizio su un battello di New Orleans disse a Marsh che il Fevre Dream sembrava un buon battello, ma che a comandarlo c’era un capitano dell’alto fiume che non valeva un bel niente e che non aveva il coraggio di sfruttarne a dovere il suo potenziale. Per poco Marsh non gli spaccò la testa. Delle voci correvano anche sul conto di York, su di lui e sulla sua strana combriccola, sul loro curioso contegno. Il Fevre Dream stava cominciando a costruirsi una reputazione, effettivamente, ma non era esattamente il genere di reputazione cui Abner Marsh tributava la sua preferenza.
Fu quando giunsero a Natchez che il Capitano Marsh non ne poté più.
Mancava un’ora al tramonto quando avvistarono Natchez per la prima volta, poche luci lontane che brillavano nel pomeriggio già rosseggiante, ombre che si allungavano da ovest. A parte la calura, era stata una bella giornata; avevano fatto il tempo migliore da quando avevano lasciato Cairo. Il fiume possedeva una lucentezza aurea ed il sole vi splendeva al di sopra come un ornamento di ottone brunito, sgargiante, increspandosi e danzando allorché il vento alitava sullo specchio dell’acqua. Quel pomeriggio Marsh lo aveva passato a letto per una leggera indisposizione, ma si alzò di botto quando sentì l’urlo della sirena, in risposta al richiamo di un altro battello che avanzava sul fiume, calmo e sicuro. Si stavano parlando. Marsh ne capiva il linguaggio; un battello in salita e uno in discesa che s’incrociavano dovevano decidere chi sarebbe passato a destra e chi a sinistra quando si sarebbero affiancati. Una simile occorrenza si verificava almeno una dozzina di volte ogni giorno. Ma questa volta c’era qualcosa nella voce dell’altro battello che lo attirò, che lo tirò via dalle lenzuola sudate, ed egli scese dalla sua cabina appena in tempo per vederlo passare; l’Eclipse, rapido ed altero, l’orpello dorato tra i fumaioli che luccicava nel sole, una folla di passeggeri radunata sui ponte, volute di fumo che si dipanavano e rotolavano dietro di esso. Gli occhi di Marsh lo seguirono mentre risaliva la corrente fino a che solo il fumo restò visibile, e durante quella rapita contemplazione una strana tensione gli serrò le budella.
Quando l’Eclipse fu svanito come un sogno si perde al mattino, Marsh si voltò, e c’era Natchez davanti a loro. Sentì lo scampanio che annunciava l’approdo, e la sirena del Fevre Dream ululò ancora.
Un groviglio di battelli assembrava il molo, e di là da essi due città attendevano il Fevre Dream. Lassù, abbarbicata sulle sue rupi a strapiombo c’era Natchez-sulla-collina, la città vera e propria, con le sue larghe vie, gli alberi e i fiori, e le sue magnifiche costruzioni. Ciascuna di esse recava un nome. Monmouth. Linden. Auburn. Ravenna. Concord, Belfast, Windy Hill. The Burn. Nei giorni della sua giovinezza Marsh era stato a Natchez almeno sei volte, prima che divenisse egli stesso armatore, e da allora si era ripromesso di salire sulla città superiore ed errare tra quelle strade per vedere quelle mitiche costruzioni. Palazzi maledettamente imponenti, tutti quanti, e Marsh non si sentiva a proprio agio in quel posto. Le vecchie famiglie che vi dimoravano tenevano una condotta da re; superbi e arroganti, gli abitatori di quei palazzi bevevano giulebbe di menta, sherry cobbler e vino ghiacciato, si divertivano a far gareggiare i loro cavalli purosangue e a dar caccia agli orsi, a sfidarsi a duello con rivoltelle e coltelli da caccia per riparare ogni affronto scaturito dalle inezie più insulse. I nababbi, era così che Marsh aveva sentito chiamarli. Gente sofisticata, altroché, ed ognuno di loro sembrava fosse un colonnello. A volte si facevano vivi al molo ed allora era doveroso invitarli a bordo ed offrir loro sigari e liquori, indipendentemente da quale fosse il loro comportamento.
Quell’accolita di signorotti era però stranamente cieca. Dalle loro magnifiche abitazioni sul costone roccioso, i nababbi si affacciavano sulla scintillante maestosità del fiume, ma in un certo qual modo non riuscivano a vedere le cose che avevano proprio sotto il loro naso.
Perché sottostante alle sontuose residenze, annidata tra le rocce ed il fiume, pulsava la vita di un’altra città: Natchez-sotto-la-collina. Laggiù non sorgevano colonne di marmo, ed i fiori preziosi erano pochissimi. Le strade erano polvere e fango. Intorno al molo si concentravano i bordelli che si allineavano lungo Silver Street, o ciò che di essa sopravviveva. Buona parte di quella via era franata nel fiume venti anni prima, ed i marciapiedi praticabili erano mezzi sprofondati sotto il piano della strada ed erano piantonati da donne sguaiate e da giovanotti pericolosi, fatui e spietati. Main Street era tutta una sequela di saloon, di sale da gioco e sale da biliardo, ed ogni notte la città bassa fumava e gorgogliava. Risse, smargiassate e sangue, losche partite a poker, prostitute pronte a qualsiasi prestazione e uomini che ti sorridevano e intanto ti rubavano la borsa e ti sgozzavano, tutto questo era Natchez-sotto-la-collina. Whiskey, carne e carte, luci rosse, canzoni roche e gin annacquato, così si viveva lungo il fiume. I battellieri amavano e odiavano Natchez-sotto-la-collina e la sua vorticosa popolazione fatta di donne a buon mercato, tagliagole, giocatori, neri liberi e mulatti. I vecchi, invece, giuravano che la città sotto la scogliera non raggiungeva neppure lontanamente i livelli di depravazione che la infestava quarant’anni prima, o già prima del 1840 quando Dio le scagliò contro il tornado per ripulirla del suo lerciume morale. Marsh di questo non sapeva nulla; per lui era abbastanza sfrenata così com’era e vi aveva trascorso notti memorabili, anni prima. Ma stavolta la città selvaggia suscitò in lui sentimenti inquietanti.
Marsh accarezzò brevemente l’idea di superarla senza sostarvi, di salire alla cabina di pilotaggio e dire ad Albright di proseguire. Ma avevano dei passeggeri da far sbarcare, merci da caricare a bordo, e l’equipaggio non vedeva l’ora di trascorrere una notte nella leggendaria Natchez, e così Marsh non fece nulla per dissipare le sue apprensioni. Il Fevre Dream entrò nel porto ed ogni cosa fu accomodata alla svelta per la notte. Fu ridotto al silenzio, il vapore abbattuto, i fuochi spenti nei forni, e subito la ciurma si riversò a terra come sangue da una ferita aperta. Pochi si fermarono sul molo per comprare sorbetti ghiacciati alla panna o alla frutta dagli ambulanti negri coi loro carretti, ma i più sciamarono dritti in direzione di Silver Street, verso il caldo splendore delle sue luci.
Abner Marsh si attardò sulla veranda antistante il gruppo di cabine degli ufficiali finché le stelle non cominciarono a far capolino dalla volta del cielo. Un canto aleggiò nell’aria, errando sull’acqua dalle finestre di una delle case di piacere, ma non valse ad alleggerire il suo malumore. Finalmente Joshua York aprì la porta della sua cabina ed uscì nella notte. «Scendete a terra, Joshua?» gli chiese Marsh.
York sorrise con indifferenza. «Sì, Abner.»
«Quanto tempo starete via stavolta?»
Joshua York si strinse nelle spalle in un gesto elegante. «Non posso saperlo. Ritornerò appena possibile. Aspettatemi.»
«Permettete che vi accompagni, Joshua,» si offrì Marsh. «Quella laggiù è Natchez. Natchez-sotto-la-collina. È una città violenta. Potremmo star qui un mese ad aspettarvi mentre voi giacete in qualche vicolo con la gola tagliata. Lasciate che venga con voi, che vi faccia da guida. Io appartengo alla gente del fiume, voi no.»
«No,» rispose York. «Ho un affare da concludere a terra, Abner.»
«Noi due siamo soci, no? I vostri affari sono i miei affari, fintantoché coinvolgano il Fevre Dream.»
«Io ho degli interessi che vanno oltre il nostro battello, amico mio. Cose per le quali voi non potete aiutarmi. Cose che devo fare da solo.»
«Simon però viene con voi, non è forse vero?»
«A volte. Ma con lui è diverso. Io e Simon condividiamo… certi interessi che io e voi non abbiamo in comune.»
«Una volta avete accennato a dei nemici, Joshua. Se si tratta di questo, se andate a regolare i conti con chi vi ha oltraggiato, ditemelo dunque. Vi aiuterò.»
Joshua York scosse il capo. «No, Abner. I miei nemici potrebbero non esserlo per voi.»
«Lasciate che sia io a decidere, Joshua. Voi siete stato onesto con me finora. Abbiate fiducia nella mia lealtà nei vostri confronti.»
«Non posso,» replicò York, con aria dolente. «Abner, tra noi c’è un patto. Non fatemi domande, ve ne prego. Ed ora, se volete lasciarmi passare.»
Abner Marsh assentì con un cenno del capo e si fece da parte. Joshua York gli passò accanto e cominciò a discendere la scaletta. «Joshua,» lo chiamò Marsh quand’era giunto quasi in fondo. L’altro si girò. «State attento, Joshua,» disse Marsh. «Natchez può essere… sanguinosa.»
York restò a lungo a fissarlo, gli occhi grigi ed impenetrabili come fumo. «Sì,» disse infine. «Starò attento.» Poi si volse e se ne andò.
Abner Marsh lo vide scendere a terra e sparire tra le viuzze di Natchez-sotto-la-collina, la snella figura proiettante lunghe ombre sotto i lampioni fumosi. Quando lo perse completamente di vista, Marsh si girò e si diresse avanti, verso la cabina del Capitano York. La porta era chiusa a chiave, come già sapeva che l’avrebbe trovata. Marsh infilò una mano nella tasca capiente e ne tirò fuori la chiave.
Titubò prima di inserirla nella serratura. Disporre di doppioni delle chiavi, custoditi nella cassaforte del battello, non era da considerarsi un tradimento, ma soltanto una ragionevole precauzione. Dopotutto si poteva anche morire in una cabina chiusa, ed era meglio possedere un duplicato della chiave piuttosto che sfondare la porta. Ma usare la chiave, beh, quella era un’altra cosa. D’altronde Marsh e York avevano stretto un patto, e due soci dovevano fidarsi l’uno dell’altro. Ora, se Joshua York non voleva fidarsi di lui, come poteva pretendere la fiducia da parte sua? Determinato, Marsh aprì la porta, e varcò la soglia della cabina di York.
Entrato, accese un lume ad olio e chiuse a chiave la porta dietro di lui. Rimase lì impalato, paralizzato dall’incertezza, per pochi istanti, a guardarsi intorno, domandando a se stesso cosa sperasse di trovare. La cabina di York era tale e quale come l’aveva veduta durante le altre sue visite — una cabina molto grande. Ciò nondimeno, doveva esserci qualcosa che gli avrebbe parlato di York, un indizio che avrebbe fatto un po’ di luce sulla natura delle stranezze che rendevano la condotta del suo socio così peculiare.
Marsh si avvicinò alla scrivania, che gli parve il posto migliore da cui iniziare, si sedette adagio sulla poltrona di York e prese a scartabellare tra i giornali. Li toccò con molta cautela, badando bene alla posizione di ciascuno mentre li faceva scivolare fuori dalla pila per esaminarli, in modo da rimetterli esattamente al loro posto quando avrebbe terminato la sua perquisizione. I giornali erano… beh, giornali, nulla di più. Almeno una cinquantina ne erano affastellati sulla scrivania, numeri vecchi e nuovi, l’Herald ed il Tribune di New York, parecchie testate di Chicago, tutte le riviste pubblicate a St. Louis e a New Orleans, giornali di Napoleon, Baton Rouge, Memphis, Greenville, Vicksburg, Bayou Sara, settimanali di una dozzina di piccole cittadine fluviali. La maggioranza di essi erano intatti. Da qualcheduno era stato ritagliato un articolo.
Sotto l’ingombrante ammasso dei giornali, Marsh trovò due registri con la rilegatura in cuoio. Li tirò da sotto la pila di carta con prudente lentezza, sforzandosi di ignorare la morsa nervosa che gli serrava lo stomaco. Forse York vi teneva un diario, un giornale di viaggio, pensò, qualcosa che gli avrebbe rivelato da dove York proveniva e quale fosse la sua meta. Aprì il primo libro e la delusione gli fece aggrottare le sopracciglia. Nessun diario. Solo articoli accuratamente ritagliati da giornali ed incollati sulle pagine bianche, ciascuno recante l’indicazione della data e del luogo scritte nella fluida calligrafia di York.
Marsh lesse il primo articolo che gli capitò davanti agli occhi, tratto da un giornale di Vicksburg, e riguardante il ritrovamento di un cadavere trascinato dalla corrente sulla riva del fiume. Il rinvenimento risaliva a sei mesi addietro. Altri due articoli relativi a Vicksburg riempivano la facciata opposta; un’intera famiglia trovata morta in una capanna ad una trentina di chilometri dalla città, una ragazza negra — probabilmente fuggita ai suoi padroni — trovata cadavere nel bosco, morta per cause sconosciute.
Marsh girò le pagine, lesse, sfogliò ancora. Dopo un po’ chiuse l’album e ne aprì un altro. Stessa storia. Pagine e pagine di corpi, morti misteriose, cadaveri scoperti qui e là, tutti catalogati per città. Marsh richiuse i due registri e li rimise a posto, cercò quindi di giudicarne il significato. I giornali abbondavano di articoli riguardanti morti ed assassinii che York aveva lasciato lì dov’erano. Perché? Esaminò alcuni giornali, li sfogliò e ne scorse attentamente il contenuto finché non fu certo delle sue conclusioni. Allora si accigliò. Appariva evidente che York non avesse alcun interesse per le morti cagionate da armi da fuoco o da taglio, per annegamenti o letali esplosiosi di caldaie, per le impiccagioni comminate dalle autorità a truffatori e ladri. Gli articoli che egli collezionava erano diversi. Morti la cui responsabilità non era imputabile ad alcuno. Gente sgozzata. Corpi mutilati e dilaniati, o altrimenti troppo scempiati perché si potesse riconoscere la causa della morte. O anche corpi intatti, la cui morte rimaneva inspiegabile, sui quali v’erano ferite troppo piccole perché le si potesse notare ad un primo sguardo, integri eppur dissanguati. La raccolta poteva comprendere una sessantina di storie, nove mesi di morte sul basso Mississippi.
Per un attimo Abner Marsh fu sopraffatto dalla paura. Provò una fitta al cuore al pensiero che Joshua conservasse i resoconti di turpi crimini da lui stesso perpetrati. Ma bastarono pochi secondi di logica riflessione per dissipare quell’atroce dubbio. Ciò non poteva essere. Qualcuno, forse, ma nella maggioranza dei casi le date lo assolvevano. Joshua si trovava con lui a St. Louis, a New Albany o a bordo del Fevre Dream quando quegli sventurati avevano conosciuto la loro orrida fine. Joshua York non poteva portare il peso di quella colpa.
Tuttavia, Marsh intuì che le soste ordinate da York , le sue misteriose escursioni a terra, rispondevano ad un disegno coerente. York stava visitando i luoghi di quei delitti, uno per uno. Cosa stava cercando? Cosa… o chi? Un nemico? Un nemico responsabile di tanta turpitudine, colui che spostandosi lungo il fiume aveva commesso tutti quei delitti? In tal caso, Joshua stava dalla parte del bene. Ma perché il silenzio, se i suoi scopi erano moralmente giusti?
Allora Marsh capì che doveva esserci più di un nemico. Una sola persona non poteva aver commesso tutti gli omicidi che riempivano le pagine degli album, e d’altra parte Joshua stesso aveva parlato di ‘nemici’. Inoltre, pur essendo tornato da New Madrid con le mani sporche di sangue, la sua caccia non aveva avuto fine.
Il Capitano non riusciva a venirne a capo.
Cominciò ad aprire cassetti e scomparti della scrivania di York. Documenti, carta da lettera con l’immagine stampata del Fevre Dream e intestata col nome della Società, buste, inchiostro, mezza dozzina di penne, carta assorbente, una carta del sistema fluviale con l’indicazione delle marche di riferimento, lucido per gli stivali, ceralacca per sigilli: in poche parole, niente di utile. In un cassetto vi trovò delle lettere e si aggrappò a quelle pieno di speranza. Ma esse non gli dissero nulla. Due erano certificati di credito, il resto semplice corrispondenza d’affari con agenti di Londra, New York, St. Louis ed altre città. Marsh si trovò tra le mani la lettera di un banchiere di St. Louis che poneva la Fevre River Packets all’attenzione di York. «Ritengo che essa sia perfettamente adatta ai vostri scopi, così come voi li descrivete,» aveva scritto l’uomo. «Il suo proprietario è un esperto battelliere, noto per la sua onestà, a quanto si dice estremamente brutto ma altrettanto leale, e di recente ha subito disastrosi rovesci che dovrebbero renderlo ricettivo alla vostra offerta.» La lettera proseguiva, ma non diceva a Marsh nulla che già non sapesse.
Il Capitano rimise a posto le lettere come le aveva trovate, si alzò e si mosse da una parte all’altra della cabina, cercando qualche altra cosa, qualcosa che gli illuminasse la mente. Non trovò nulla; indumenti nei cassetti, la disgustosa bevanda nella rastrelliera, abiti nell’armadio, libri ovunque. Marsh scorse i titoli dei volumi più vicini al letto; uno era un libro di poesie di Shelley, un altro una specie di libro di medicina del quale non capiva una riga. L’alta libreria offriva altri esemplari della stessa sorta; molta narrativa e poesia, una discreta quantità di storia, libri di medicina, di filosofia e scienze naturali, un tomo di alchimia vecchio e impolverato, un intero scaffale di libri in lingue straniere. Pochi libri privi di titolo, rilegati a mano in un cuoio finemente lavorato con pagine in foglia d’oro, colpirono l’attenzione di Marsh; il Capitano ne prese uno sperando di trovare in esso il diario personale che avrebbe risposto ai suoi quesiti. Ma seppure lo fosse stato, Marsh non poté lèggerlo; le parole erano scritte in una grafia grottesca, dai caratteri lunghi e sottili, chiaramente non il segno arioso di York, ma la scrittura striminzita di qualchedun altro.
Marsh compì un ultimo giro d’ispezione nella cabina di York per accertarsi di non aver tralasciato alcunché, ed infine si risolse ad uscire, non significativamente più edotto di quando vi era entrato. Inserì la chiave nella serratura, la girò attentamente, soffiò sulla lampada, uscì e richiuse la porta dietro di lui. Fuori l’aria s’era rinfrescata un poco. Marsh si accorse di esser praticamente fradicio di sudore. Infilò di nuovo la chiave nella tasca della giacca e si accinse ad allontanarsi.
Ma si fermò.
Pochi metri più in là, la vecchia e spettrale Katherine stava ritta a fissarlo con gli occhi carichi di malevolenza. Marsh decise di comportarsi con sfrontata disinvoltura. Sollevò il cappello. «Buona sera, signora,» le disse.
Katherine sorrise lentamente, un viscido rictus che le contorse il muso volpino mutandolo in una maschera di terribile allegrezza. «Buona sera, Capitano,» disse. E Marsh notò che i suoi denti erano gialli, e molto lunghi.