La luce del sole filtrò dagli scuri traforati, strisciò sul letto, svegliò Mat. Per un momento lui si limitò a stare disteso, perplesso. Prima di lasciarsi vincere dal sonno non aveva elaborato alcun piano per fuggire da Tar Valon, ma neppure vi aveva rinunciato. Ancora troppi ricordi erano annebbiati, ma non avrebbe ceduto.
Entrarono due indaffarate cameriere, portando acqua calda e un vassoio carico di cibi; gli sorrisero e gli dissero che aveva già un aspetto migliore e che presto sarebbe stato di nuovo in piedi, se avesse seguito le prescrizioni delle Aes Sedai. Mat rispose brevemente, cercando di non mostrarsi aspro. Pensassero pure che intendeva continuare la cura. Al profumo proveniente dal vassoio, si sentì brontolare lo stomaco.
Uscite le cameriere, gettò da parte la coperta e scese dal letto, fermandosi solo a ficcarsi in bocca mezza fetta di prosciutto, prima di versare l’acqua per lavarsi e radersi. Fissò l’immagine nello specchio posto sopra il lavabo e smise per un momento d’insaponarsi il viso: aveva davvero un aspetto migliore.
Le guance erano ancora incavate, ma non come il giorno prima. Le occhiaie scure erano scomparse, gli occhi erano meno infossati. Pareva che ogni boccone trangugiato la sera precedente gli avesse messo carne sulle ossa. Si sentiva perfino più in forze.
«Di questo passo» borbottò «me ne sarò andato prima che loro se ne rendano conto.» Ma era ancora sorpreso quando, dopo la rasatura, si sedette e divorò, fino all’ultimo pezzetto, prosciutto, rape e pere.
Di sicuro si aspettavano che, terminato il pasto, tornasse subito a letto; invece si vestì. Batté i piedi per calzare gli stivali, guardò gli abiti di ricambio e decise di lasciarli, per il momento. Prima doveva sapere cosa intendeva fare. Se doveva lasciarli... Infilò nella borsa i bussolotti dei dadi. Con quelli si sarebbe procurato tutti gli abiti che gli servivano.
Aprì la porta e scrutò fuori. Altre porte di legno chiaro, dorato, si aprivano sul corridoio, alternate ad arazzi variopinti; una passatoia azzurra correva sul pavimento a piastrelle bianche. Ma non c’era nessuno. Niente guardie. Mat si mise in spalla il mantello e uscì rapidamente. Ora doveva trovare la via per l’esterno.
Fu costretto a girare un poco, giù per scale e lungo corridoi e in corti a cielo aperto, prima di trovare una porta sull’esterno; e intanto vide delle persone: cameriere e novizie vestite di bianco, che procedevano in fretta per eseguire commissioni... e le novizie correvano anche più delle cameriere; cinque o sei servitori che trasportavano grossi bauli e altri carichi pesanti; alcune Ammesse con la veste ornata di bande dei sette colori. Persino un paio di Aes Sedai.
Nel passare, le Aes Sedai non parvero neppure accorgersi di lui, oppure gli diedero solo un’occhiata di sfuggita. Mat indossava abiti di campagna, ma ben fatti: non aveva l’aspetto di un vagabondo; inoltre, la presenza dei servitori dimostrava che in quella parte della Torre era consentito l’ingresso ai maschi. Mat sospettò che lo scambiassero per un servitore: per lui andava bene, purché nessuno gli dicesse di sollevare oggetti pesanti.
Rimase un po’ deluso che nessuna delle donne viste fosse Egwene o Nynaeve o anche Elayne. Quest’ultima era carina, malgrado l’aria altezzosa. E avrebbe potuto dirgli come trovare Egwene e la Sapiente. Non poteva andarsene senza salutarle. Si domandò se una di loro avrebbe fatto la spia, visto che stava per diventare Aes Sedai, ma si diede dello stupido: loro non l’avrebbero mai fatto! Comunque, avrebbe corso il rischio.
Una volta all’esterno, sotto il luminoso cielo del primo mattino, macchiato soltanto da qualche nuvola vagabonda, per un poco non pensò più alle donne. Aveva di fronte un’ampia corte lastricata, con al centro una comune fontana e sul lato opposto un casermone di pietra grigia. Quest’ultimo pareva un enorme macigno fra i pochi alberi che spuntavano da spiazzi bordati fra le pietre del lastrico. Davanti al lungo e basso edificio, guardie in maniche di camicia facevano manutenzione alle armi, alle corazze e ai finimenti. Le guardie erano proprio quel che lui cercava al momento.
Attraversò la corte e osservò i soldati, come se non avesse niente di meglio da fare. Mentre lavoravano, i soldati chiacchieravano e ridevano, come contadini al termine del raccolto. Di tanto in tanto uno di loro guardava curiosamente Mat, ma nessuno mise in discussione il suo diritto di trovarsi lì. E Mat di tanto in tanto faceva con noncuranza qualche domanda. Alla fine ottenne le risposte che cercava.
«La guardia al ponte?» disse un uomo robusto, nero di capelli, più anziano di lui di cinque anni al massimo, con una forte cadenza illiana. Per quanto giovane, aveva sulla guancia sinistra una sottile cicatrice biancastra e oliava la spada, con competenza e cognizione di causa. Guardò Mat a occhi socchiusi, prima di riprendere il lavoro. «Devo fare la guardia al ponte e smonterò stasera. Perché lo domandi?»
«Mi chiedevo soltanto quali condizioni ci fossero dall’altra parte del fiume. Buon tempo per viaggiare? Non dovrebbe esserci fango, a meno che non ci siano state più piogge di quanto non mi risulti.»
«Quale lato del fiume?» domandò placidamente il soldato. Non alzò gli occhi dallo straccio unto che strofinava sulla lama.
«Ah... orientale. Il lato orientale.»
«Fango, no. Manti Bianchi.» Si spostò di lato a sputare, ma non cambiò tono di voce. «Nel raggio di dieci miglia i Manti Bianchi cacciano il naso in ogni villaggio. Ancora non hanno infastidito nessuno, ma la loro presenza basta a innervosire la gente. Porca Fortuna, penso proprio che vogliano provocarci: hanno l’aria di chi ci attaccherebbe, se potesse. Brutta storia, per chi vuole mettersi in viaggio.»
«E a ponente?»
«Stessa cosa.» Il soldato guardò in viso Mat. «Ma tu non passerai i ponti, ragazzo, né a levante né a ponente. Sei Matrim Cauthon. Ieri sera una Sorella è venuta di persona al ponte dov’ero di guardia. Ci ha ripetuto la tua descrizione, finché non la sapevamo a memoria. Sei un ospite, ha detto, da non toccare. Ma non devi lasciare la città, a costo di legarti mani e piedi per impedirtelo.» Socchiuse gli occhi. «Non avrai rubato qualcosa?» domandò, dubbioso. «Non hai l’aria dei soliti ospiti.»
«Non ho rubato niente!» protestò Mat, indignato. Non aveva la minima possibilità di filarsela alla chetichella. Tutte le guardie lo conoscevano! «Non sono un ladro!»
«No, non è ciò che ti leggo in faccia. Niente furti. Ma hai l’aria del tizio che tre giorni fa voleva vendermi il Corno di Valere. Diceva che era quello, per quanto ammaccato e graffiato. Hai anche tu un Corno di Valere da vendere? O forse è la spada del Drago?»
Nel sentir nominare il Corno, Mat trasalì, ma riuscì a mantenere ferma la voce. «Ero ammalato» disse. Ora anche altri soldati lo guardavano. Senza volerlo, aveva fatto in modo che tutti sapessero che non poteva andarsene. Si costrinse a ridacchiare. «Le Sorelle mi hanno Guarito» soggiunse. Alcuni soldati corrugarono la fronte. Forse pensavano che gli altri dovevano mostrare maggior rispetto e non chiamare Sorelle le Aes Sedai. «Immagino che le Aes Sedai non vogliano che me ne vada prima d’avere ricuperato le forze» concluse. Avrebbe voluto convincerli ad accettare questa versione. Un uomo che era stato Guarito, ecco tutto. Non c’era motivo di preoccuparsi ancora di lui.
L’illiano annuì. «Hai l’aspetto di chi è stato ammalato» disse. «Forse la ragione è questa. Ma non ho mai sentito dire che le Aes Sedai si dessero tanta pena per tenere in città un ammalato.»
«La ragione è questa, infatti» dichiarò Mat, deciso. Tutti ancora lo guardavano. «Be’, devo andare. Mi hanno detto di fare passeggiate. Tante lunghe passeggiate. Per rimettermi in forze, capisci.»
Mentre si allontanava, si sentì seguito dai loro sguardi e si accigliò. Aveva solo voluto scoprire fino a che punto le Aes Sedai avevano fatto circolare la sua descrizione. Se fossero stati informati soltanto gli ufficiali delle guardie ai ponti, forse sarebbe riuscito a filarsela. Era sempre stato bravo a passare inosservato: un’abilità che si sviluppa da sola, quando tua madre sospetta sempre che combini qualche marachella e hai quattro sorelle che le riferiscono ogni tua mossa. Ma aveva ottenuto solo di farsi vedere da mezza caserma di guardie, maledizione!
I terreni della Torre erano in gran parte giardini alberati, con ericacee, betulle e olmi; ben presto Mat si trovò a camminare lungo un ampio e tortuoso sentiero di ghiaia. Pareva un viottolo di campagna, a parte le torri visibili al di sopra degli alberi. E la massa bianca della Torre stessa, dietro di lui, che pareva opprimerlo come se gli pesasse sulle spalle. Se c’erano uscite non sorvegliate, quello pareva il posto giusto dove cercarle.
Sul sentiero comparve una ragazza con la veste bianca delle novizie e procedette con decisione verso di lui. Immerso nei propri pensieri, sulle prime Mat non la vide. Ma quando fu tanto vicino da distinguerne gli occhi grandi e neri e la treccia, sorrise. La conosceva, però non si sarebbe mai aspettato d’incontrarla lì. Anzi, neppure di rivederla. Ridacchiò tra sé. Fortuna per compensare la malasorte. Ricordò pure che non le dispiacevano i ragazzi.
«Else» la chiamò. «Else Grinwell. Ti ricordi di me, vero? Mat Cauthon. Con un mio amico sono stato ospite nella fattoria di tuo padre. Ricordi? Hai deciso di diventare Aes Sedai, allora?»
Lei si fermò di colpo e lo fissò. «Cosa fai, in piedi e in giro?» replicò, gelida.
«Ah, lo sai anche tu» disse Mat. Si avvicinò, ma Else arretrò e mantenne la distanza. Mat si fermò. «Non c’è pericolo di contagio. Sono stato Guarito, Else.» Gli occhioni neri parevano più perspicaci di quanto non ricordasse e molto meno calorosi, ma forse era una conseguenza degli studi per diventare Aes Sedai. «Cosa ti prende, Else? Non mi conosci più?»
«Ti conosco» disse lei. Anche il comportamento era diverso da come lui lo ricordava: ora avrebbe potuto dare lezioni d’arroganza a Elayne. «Ho... da fare. Lasciami passare.»
Il sentiero, pensò Mat con una smorfia, era sufficiente per sei persone a fianco a fianco. «T’ho detto che non c’è pericolo di contagio.»
«Lasciami passare!»
Brontolando, Mat si spostò sul bordo del sentiero. Else gli passò accanto, dall’altro lato, tenendolo d’occhio per assicurarsi che non s’avvicinasse. Poi allungò il passo e continuò a guardarlo da sopra la spalla, finché non scomparve al di là della curva.
Voleva essere sicura che non la seguissi, pensò Mat, acido. Prima le guardie e ora Else. Non aveva molta fortuna, quel giorno.
Riprese la passeggiata e ben presto udì una serie di colpi rumorosi, come di decine di bastoni battuti insieme. Incuriosito, si diresse da quella parte, fra gli alberi.
Quasi subito si trovò in un vasto spiazzo di terra battuta, largo almeno cinquanta passi e lungo il doppio. Tutt’intorno, a intervalli sotto gli alberi, c’erano cavalletti di legno con bastoni ferrati e spade d’allenamento fatte con listelli lascamente legati, oltre a qualche spada vera, qualche ascia e qualche lancia.
Sul terreno aperto, coppie di uomini quasi tutti a torso nudo si affrontavano con spade d’allenamento. Alcuni si muovevano con scioltezza e parevano danzare, passando di posizione in posizione, dal colpo di parata al colpo di risposta, in fluido e costante movimento. Non si segnalavano per qualcosa di particolare, a parte l’abilità, però Mat fu sicuro che fossero Custodi.
Coloro che non mostravano altrettanta scioltezza erano tutti assai giovani; ciascuna coppia si addestrava sotto l’occhio attento d’un uomo più anziano che pareva irradiare grazia micidiale anche da fermo. Custodi e allievi, si disse Mat.
Non era l’unico a guardare. Neanche a dieci passi da lui, cinque o sei donne con il viso senza età delle Aes Sedai e altrettante Ammesse guardavano una coppia di allievi a torso nudo, lucidi di sudore, sotto la guida di un Custode con il fisico d’un blocco di pietra. Il Custode usava una corta pipa per dare insegnamenti agli allievi e lasciava una scia di fumo.
Mat si sedette a gambe incrociate sotto un albero, raccolse tre sassi e cominciò a lanciarli in aria e a riprenderli al volo come i giocolieri. Non che si sentisse debole, ma gli faceva piacere starsene seduto. La via d’uscita, se c’era, non sarebbe svanita solo perché lui si riposava un momento.
Prima che passassero cinque minuti, capì qual era la persona che Aes Sedai e Ammesse guardavano: uno degli allievi del Custode ben piantato, un giovanotto alto e snello, dai movimenti felini. Bello quasi come una ragazza, pensò Mat, sarcastico. Ogni donna, perfino le Aes Sedai, fissava con occhi scintillanti quel giovanotto.
Il giovane adoperava la spada quasi con l’abilità dei Custodi e di tanto in tanto si guadagnava un borbottio d’approvazione da parte del maestro. Ma non perché l’avversario, più vicino all’età di Mat e dai capelli rossodorati, fosse poco abile. Anzi, era bravo anche lui, per quanto ne capiva Mat, che di spade sapeva poco. Il giovane dai capelli rossodorati parava ogni fulmineo attacco, schivava i colpi e di tanto in tanto contrattaccava. Ma l’altro respingeva in un batter d’occhio questi attacchi e riprendeva gli assalti.
Mat passò i ciottoli in una mano sola, ma continuò a lanciarli in aria e a prenderli al volo. Non gli sarebbe piaciuto affrontare nessuno dei due, si disse; di certo, non con la spada.
«Intervallo!» disse il Custode, con voce che pareva il rumore d’un secchio di pietre rovesciato. Col fiato grosso, i due abbassarono la spada. Avevano i capelli incollati di sudore. «Potete riposare, finché non avrò finito la pipa. Ma riposate in fretta: sono quasi al fondo.»
Mat ne approfittò per dare una buona occhiata al giovane dai capelli rossodorati e lasciò cadere i tre ciottoli. “La Luce m’incenerisca!" pensò. “Mi giocherei fino all’ultima moneta che quello è il fratello di Elayne. E se l’altro non è Galad, mi mangio gli stivali." Mentre tornavano da Capo Toman, metà dei discorsi di Elayne riguardava le virtù di Gawyn e i difetti di Galad. Be’, anche Gawyn, secondo Elayne, aveva qualche difetto, ma di scarsa importanza... e a Mat parevano quella sorta di debolezze che solo una sorella riterrebbe difetti. D’altra parte, se Elayne era messa alle strette, Galad pareva il figlio che ogni madre vorrebbe avere. Mat non pensava che gli sarebbe piaciuto passare tanto tempo in compagnia di Galad. Egwene arrossiva ogni volta che lo si nominava, ma pareva convinta che nessuno se ne accorgesse.
Quando Gawyn e Galad si fermarono, un’increspatura parve percorrere le spettatrici: si sarebbe detto che sarebbero avanzate tutte insieme. Ma Gawyn scorse Mat e disse sottovoce qualche parola a Galad; tutt’e due passarono davanti alle donne. Aes Sedai e Ammesse girarono la testa per seguire il loro sguardo. Mentre i due si avvicinavano, Mat si alzò.
«Sei Mat Cauthon, vero?» disse Gawyn, con un sorriso. «Ero sicuro d’averti riconosciuto, dalla descrizione di Egwene. E di Elayne. Ho saputo che sei stato ammalato. Ora stai meglio?»
«Sto benissimo» rispose Mat. Si domandò se doveva chiamare Gawyn “milord” o qualcosa del genere. Si era rifiutato di chiamare “milady” Elayne... be’, lei non l’aveva mai preteso... e avrebbe fatto lo stesso col fratello.
«Sei venuto nel campo d’allenamento per imparare la scherma?» domandò Galad.
Mat scosse la testa. «Sono solo uscito a fare due passi. Di spade ne so poco. Ho più fiducia in un buon arco o in un bastone ferrato. So usarli.»
«Se passi tanto tempo intorno a Nynaeve» disse Galad «per proteggerti avrai bisogno di arco, di bastone e anche di spada. E forse non basterebbero.»
Gawyn lo guardò, incuriosito. «Galad, hai appena detto una battuta spiritosa!»
«Ho anch’io il senso dell’umorismo, Gawyn» replicò Galad, con una ruga. «Tu credi che ne sia privo solo perché non mi piace beffare le persone.»
Gawyn scosse la testa e si rivolse di nuovo a Mat. «Dovresti imparare, i fondamenti della scherma» disse. «Torna utile a tutti, di questi tempi. Il tuo amico, Rand al’Thor, portava una spada assai insolita. Hai notizie di lui?»
«Non lo vedo da molto tempo» rispose subito Mat. Notò che per un istante, parlando di Rand, lo sguardo di Gawyn si era fatto più intenso. Possibile che sapesse? Ma no, non poteva sapere niente. Altrimenti avrebbe denunciato Mat come Amico delle Tenebre, solo per l’amicizia con Rand. Eppure qualcosa sapeva. «La spada non è l’arma migliore del mondo, sai» soggiunse. «Penso che me la caverei bene contro tutt’e due, spada contro un buon bastone ferrato.»
Il colpo di tosse di Gawyn era chiaramente inteso a mascherare una risata. Con cortesia persino eccessiva, il giovane rispose: «Sarai di sicuro molto abile, col bastone.» Galad era francamente incredulo.
Forse perché tutt’e due la ritenevano una sbruffonata; forse perché aveva sbagliato a interrogare la guardia; forse perché Else, a cui piacevano i ragazzi, non aveva voluto avere niente a che fare con lui; forse perché tutte quelle donne guardavano Galad come i gatti tengono d’occhio un bricco di panna (in fin dei conti, Aes Sedai e Ammesse erano donne)... forse per una di queste ragioni (che però scacciò con rabbia, in particolare l’ultima) Mat decise di sfidarli. Per divertirsi, si disse. E per guadagnare qualche moneta. Non poteva avere sempre la sfortuna dalla sua parte.
«Scommetto due marchi d’argento contro due per ciascuno di voi che posso battervi contemporaneamente. Mi sembra una scommessa equa. Siete due contro uno, quindi è giusto scommettere due marchi contro quattro.» Nel vedere la loro espressione costernata, a momenti si mise a ridere.
«Mat» disse Gawyn «non c’è bisogno di scommettere. Sei stato ammalato. Meglio rimandare la sfida a quando sarai più in forze.»
«Sarebbe una scommessa tutt’altro che equa» disse Galad. «Non l’accetterò, né ora né in seguito. Sei dello stesso villaggio di Egwene, vero? Non... non voglio che si arrabbi con me.»
«E lei cosa c’entra? Colpitemi una volta sola, con la spada, e vi darò un marco d’argento ciascuno. Se vi colpirò fino a farvi abbandonare, mi darete due marchi ciascuno. Non credete di riuscirci?»
«Ridicolo» disse Galad. «Non avresti alcuna possibilità contro uno spadaccino ben addestrato, figuriamoci contro due. Non accetto simili vantaggi.»
«Ne sei convinto?» intervenne una voce stridula. Il Custode grande e grosso si era avvicinato e li guardava con sopracciglia aggrottate. «Siete convinti di saper usare la spada tanto bene da battere un ragazzo col bastone?»
«Non sarebbe equo, Hammar Gaidin» disse Galad.
«È ancora debole per la malattia» aggiunse Gawyn. «Non ha senso, questa sfida.»
«In campo» ordinò Hammar, con un brusco cenno in direzione dello spiazzo. Galad e Gawyn diedero a Mat un’occhiata di rincrescimento e ubbidirono. Il Custode squadrò Mat in lungo e in largo. «Sei sicuro di potercela fare, ragazzo? Ora che ti guardo da vicino, hai proprio l’aria di chi dovrebbe stare a letto.»
«Mi sono appena alzato» rispose Mat «e sono sicuro di farcela. Non voglio perdere due marchi.»
Sorpreso, Hammar inarcò il sopracciglio. «Intendi mantenere la scommessa, ragazzo?»
«Ho bisogno di soldi» rise Mat.
Smise di colpo di ridere, quando si girò verso la più vicina rastrelliera di bastoni ferrati e si sentì mancare le ginocchia. Le irrigidì con tale rapidità che pensò d’avere dato, a chiunque guardasse, l’impressione d’inciampare. Prese tempo per scegliere un bastone, del diametro di quasi due pollici e di un piede più lungo della propria altezza. Doveva vincere la sfida. Aveva fatto la sua solita sciocchezza, aprendo bocca, e ora doveva vincere. Non poteva permettersi di perdere i due marchi. Senza quei fondi, avrebbe impiegato una vita per vincere al gioco i soldi che gli occorrevano.
Tornò a girarsi, reggendo a due mani il bastone. Gawyn e Galad aspettavano nello spiazzo. «Fortuna» mormorò Mat. «Tempo di lanciare i dadi.»
Hammar gli diede un’occhiata bizzarra. «Parli la Lingua Antica, ragazzo?»
Mat lo fissò per un momento, in silenzio. Si sentiva gelato fino alle ossa. Con uno sforzo si costrinse ad avanzare nello spiazzo. «Non dimenticate la scommessa» disse a voce alta. «Due marchi d’argento a testa, contro due dei miei.»
Fra le Ammesse si levò un brusio, quando fu chiaro che cosa stava per accadere. Le Aes Sedai guardavano in silenzio. Un silenzio carico di disapprovazione.
Gawyn e Galad si distanziarono, ma non si avvicinarono, né alzarono la spada.
«Niente scommessa» disse Gawyn.
«Non ti prenderò i soldi in questo modo» rincarò Galad.
«Io ho intenzione di prendere i tuoi» replicò Mat.
«Basta!» ruggì Hammar. «Se non hanno il coraggio di scommettere, ragazzo, coprirò io la posta.»
«Benissimo» disse Gawyn. «Se proprio insisti... la scommessa è andata.»
Galad esitò ancora un istante. «Allora è andata» brontolò poi. «Mettiamo fine a questa farsa.»
Mat aveva bisogno solo di quell’istante di preavviso. Mentre Galad si avventava, fece scivolare le mani lungo il bastone e girò su se stesso. La punta del bastone urtò con forza il torace di Galad e gli strappò un borbottio, facendolo incespicare. Mat lasciò che il bastone rimbalzasse e si girò proprio mentre Gawyn veniva a portata. Abbassò il bastone, lo fece saettare al di sotto della spada e colpì alla caviglia. Mentre Gawyn ruzzolava, Mat completò il giro, in tempo per colpire Galad al polso e fargli volare via la spada. Come se non sentisse il dolore al polso, Galad ruzzolò con scioltezza e si rialzò stringendo a due mani la spada.
Ignorandolo per il momento, Mat si girò a mezzo. Gawyn, che si rimetteva in piedi, fu colpito alla tempia, con un tonfo solo in parte attutito dai capelli, e crollò come sacco vuoto.
Mat notò appena l’Aes Sedai che si precipitava a soccorrere il fratello di Elayne e si augurò che Gawyn non si fosse fatto niente. Lui stesso aveva preso colpi peggiori, cadendo da qualche staccionata. Doveva ancora vedersela con Galad: da come aspettava, sulla punta dei piedi, spada pronta, era chiaro che ora lo prendeva sul serio.
Le gambe di Mat scelsero quel momento per mettersi a tremare. Il ragazzo sentì la debolezza strisciarli addosso, l’intontimento, la fame di chi è digiuno da giorni. Se avesse aspettato l’attacco di Galad, sarebbe caduto lungo e disteso. Allora avanzò, tenendo con difficoltà le ginocchia dritte. Si augurò che la fortuna gli stesse al fianco.
Dal primo colpo capì che la fortuna, o l’abilità, o qualsiasi cosa l’avesse fatto arrivare fino a quel punto, lo sosteneva ancora. Galad riuscì a deviare quel colpo, con uno schiocco secco, e il successivo, e altri due, ma irrigidì il viso per la tensione. L’elegante spadaccino, abile quasi quanto i Custodi, usava fino in fondo tutte le proprie capacità per tenere lontano il bastone. Non attaccava: poteva solo difendersi. Si muoveva in continuazione da una parte e dall’altra, cercava di non farsi sospingere indietro; e Mat lo incalzava, muovendo rapidamente il bastone. Galad arretrò d’un passo, arretrò ancora: la spada di legno era uno scudo ben piccolo, contro il bastone.
Mat era divorato dai morsi della fame, come se avesse inghiottito delle donnole. Aveva il sudore negli occhi e cominciava a sentirsi sfinito, come se la forza gli colasse via insieme col sudore. Non poteva crollare, non ancora: doveva vincere. Subito. Con un ruggito gettò in un ultimo assalto tutte le residue energie.
Il bastone guizzò dentro la guardia di Galad e in rapida successione colpì ginocchio, polso, costole; infine si piantò come lancia nello stomaco dell’avversario. Con un gemito Galad si piegò in due e si sforzò di non cadere. Nelle mani di Mat il bastone tremò, sul punto di vibrare il micidiale colpo conclusivo alla gola. Galad cadde a terra.
Mat si rese conto di che cosa era stato sul punto di fare e lasciò quasi cadere il bastone. Doveva vincere, non uccidere! Che cosa aveva pensato? D’istinto piantò a terra il bastone e subito fu costretto ad aggrapparvisi per tenersi in piedi. La fame lo scavava come coltello che togliesse dall’osso il midollo. A un tratto si rese conto che non solo Aes Sedai e Ammesse lo osservavano: Custodi e allievi avevano interrotto addestramento e lezioni, fissavano solo lui.
Hammar si accostò a Galad, che ancora gemeva e cercava di tirarsi in piedi. Il Custode alzò la voce. «Chi fu il più grande spadaccino di tutti i tempi?» gridò.
Dalla gola di decine d’allievi uscì la risposta: «Jearom Gaidin!»
«Giusto» disse Hammar, girandosi per assicurarsi che tutti udissero. «In vita sua, Jearom sostenne più di diecimila scontri, in battaglia e in duello. Fu sconfitto solo una volta. Da un contadino armato di bastone! Non dimenticatelo. E non dimenticate quel che avete appena visto.» Guardò Galad e abbassò la voce. «Se ancora non riesci ad alzarti, ragazzo, è finita.» Sollevò la mano: Aes Sedai e Ammesse si precipitarono intorno a Galad.
Mat scivolò ginocchioni. Nessuna Aes Sedai lo degnò d’uno sguardo; solo un’Ammessa gli diede un’occhiata... una ragazza grassoccia che forse Mat avrebbe invitato a un giro di danza, se non fosse stata destinata a diventare Aes Sedai. L’Ammessa corrugò la fronte, sbuffò, e si girò a guardare che cosa facevano le Aes Sedai intorno a Galad.
Gawyn era in piedi, notò Mat con sollievo. Si alzò anche lui, mentre Gawyn si avvicinava. Non doveva mostrasi debole, altrimenti non sarebbe mai andato via da Tar Valon, se le Aes Sedai avessero deciso di curarlo dall’alba all’alba. Gawyn aveva i capelli sporchi di sangue, ma non si vedeva alcun taglio.
Il giovane mise in mano a Mat due marchi d’argento. «La prossima volta ti darò retta» disse. Notò l’occhiata di Mat, si toccò la testa. «Hanno Guarito la ferita, ma era solo un graffio. Elayne m’ha fatto di peggio, più d’una volta. Sei bravo, col bastone.»
«Meno di mio padre» rispose Mat. «Da quando mi ricordo, ogni anno alla festa di Bel Tine ha vinto la gara di bastone, a parte un paio d’occasioni in cui vinse il padre di Rand.» Negli occhi di Gawyn tornò quel lampo d’interesse e Mat rimpianse d’avere menzionato Tam al’Thor. Aes Sedai e Ammesse erano ancora raggruppate intorno a Galad. «Devo... devo averlo ferito gravemente. Ma non ne avevo l’intenzione.»
Gawyn diede un’occhiata da quella parte (non c’era niente da vedere, a parte due cerchi di schiene femminili, il più esterno composto di vesti bianche delle Ammesse che scrutavano da sopra la spalla delle Aes Sedai accovacciate) e si mise a ridere. «Non l’hai ucciso. Ho udito i suoi gemiti, quindi ormai dovrebbe essersi rimesso in piedi; ma quelle non si lasceranno sfuggire l’occasione, ora che gli hanno messo le mani addosso. Luce santa, quattro sono dell’Ajah Verde!» Mat gli diede un’occhiata, perplesso, e Gawyn scosse la testa. «Non importa. Ma sta’ sicuro che la cosa peggiore di cui debba preoccuparsi Galad è un’altra: trovarsi legato come Custode a un’Aes Sedai Verde prima che la testa gli si schiarisca.» Rise. «No, non faranno una cosa del genere. Ma scommetterei quei miei due marchi che alcune di loro rimpiangono di non poterlo fare.»
«Non tuoi» disse Mat, mettendo nella tasca della giubba le due monete. «Miei.» Non aveva capito molto, della spiegazione, a parte che Galad stava bene. Del legame fra Custode e Aes Sedai conosceva quel poco che gli dicevano i frammentari ricordi su Lan e Moiraine: e li non c’era niente di ciò che Gawyn pareva insinuare. «Se la prenderanno, se vado a riscuotere l’altra metà della scommessa?»
«Oh, eccome» intervenne ironicamente Hammar, unendosi a loro. «Al momento non sei molto ben visto, da queste particolari Aes Sedai.» Sbuffò. «Si penserebbe che perfino le Verdi siano meglio di ragazzine appena staccate dalle sottane materne. Galad non è poi bello fino a questo punto.»
«No, infatti» convenne Mat.
Gawyn ridacchiò, finché Hammar non lo guardò di storto. «Prendi» disse il Custode, mettendo in mano a Mat altre due monete d’argento. «Più tardi mi farò rimborsare da Galad. Da dove provieni, ragazzo?»
«Dal Manetheren» rispose Mat. Restò di sasso, nell’udire quel nome uscirgli dalle labbra. «Voglio dire, dai Fiumi Gemelli» si corresse subito. «Ho ascoltato troppe storie dei tempi antichi.» I due si limitarono a guardarlo in silenzio. «Penso... penso che tornerò a cercare qualcosa da mettere sotto i denti.» Ancora non era suonata la campana di mezzo mattino, ma i due annuirono, come se avesse detto una cosa assennata.
Mat tenne il bastone (nessuno gli aveva detto di rimetterlo a posto) e si allontanò lentamente, finché gli alberi non lo nascosero alla vista. Allora vi si appoggiò, come se fosse l’unica cosa che lo tenesse in piedi. E forse era proprio così, si disse.
Se avesse aperto la giubba, pensò, avrebbe visto un buco al posto dello stomaco, un buco sempre più largo, man mano che divorava il resto del corpo. Ma quasi non pensava alla fame. Continuava a sentire voci nella testa. Parli la Lingua Antica, ragazzo? Dal Manetheren. Rabbrividì. Luce santa, continuava a inguaiarsi sempre più. Doveva andarsene di lì. Ma come? Tornò a passo malfermo verso la Torre, come un uomo vecchio, vecchissimo. Ma come?