La stanza di Egwene era un po’ diversa da quella di Nynaeve, pur trovandosi nella stessa balconata: il letto era un po’ più largo, il tavolo un po’ più piccolo, il tappetino era a fiori, anziché a disegni astratti. Tutto qui. Dopo i quartieri delle novizie, pareva la sala d’un palazzo; ma quando le tre amiche vi si riunirono, a tarda sera, Egwene rimpianse di non essere ancora nei quartieri delle novizie, senza anello al dito e senza bande colorate all’orlo della veste.
Avevano lavorato nelle cucine per altri due pasti e nell’intervallo avevano cercato il senso delle scoperte nel magazzino sotterraneo. Si trattava di una trappola o di un tentativo di sviare le ricerche? L’Amyrlin ne era al corrente? In caso affermativo, perché non ne aveva parlato? I discorsi non fornirono risposte e l’Amyrlin non comparve a dare spiegazioni.
Dopo il pasto di mezzogiorno, Verin era venuta nelle cucine, battendo le palpebre come se non fosse sicura di dove si trovasse. Vide Egwene e le altre due in ginocchio fra pentole e calderoni, per un istante parve sorpresa, poi si avvicinò a loro. «Avete trovato niente?» domandò, a voce tanto alta da farsi udire da chiunque.
Elayne, dentro fino alle spalle in un’enorme pentola per il minestrone, si ritrasse di scatto e batté la testa contro il bordo. Fissò Verin a occhi sgranati.
«Solo unto e sudore, Aes Sedai» rispose Nynaeve. Si tirò la treccia, lasciando una macchia d’unto sui capelli e fece una smorfia.
Verin annuì, come se quella fosse la risposta che cercava. «Bene, continuate a cercare» disse. Guardò di nuovo le cucine, corrugando la fronte, come perplessa per il fatto di trovarsi lì, e se ne andò.
Anche Alanna venne nelle cucine, dopo mezzodì, a prendere una ciotola di uvaspina dai grossi chicchi verdi e una caraffa di vino; e vennero anche Elaida, poi Sheriam, dopo cena, e Anaiya.
Alanna aveva domandato a Egwene se voleva maggiori informazioni sull’Ajah Verde e quando avrebbe continuato gli studi. Le Ammesse sceglievano le materie di studio e la frequenza, ma questo non significava che non dovessero studiare affatto. Le prime settimane sarebbero state dure, naturalmente, ma dovevano fare la scelta, altrimenti avrebbero imposto loro le materie.
Elaida si limitò a trattenersi per un poco, fissandole con aria severa, mani sui fianchi; Sheriam si comportò nello stesso modo e quasi con le stesse pose. Anaiya si mostrò più interessata, finché non notò le loro occhiate; allora assunse la stessa espressione di Elaida e di Sheriam.
Nessuna di queste visite aveva un significato che Egwene riuscisse a scorgere. La Maestra delle Novizie aveva certo motivi per controllare sia loro, sia altre novizie al lavoro nelle cucine; Elaida aveva motivo di tenere d’occhio l’Erede dell’Andor, ma non, secondo Egwene, di mostrare interesse per Rand; in quanto ad Alanna, non era l’unica Aes Sedai che venisse a prendere un vassoio di cibo da mangiare in camera anziché in compagnia delle altre. Metà delle Sorelle della Torre erano troppo impegnate per partecipare ai pasti comuni o per chiamare una cameriera che portasse loro un vassoio. E Anaiya... Anaiya forse era davvero preoccupata per la sua Sognatrice. Certo, non avrebbe fatto niente per mitigare una punizione stabilita dall’Amyrlin Seat in persona. Comunque questo poteva essere il motivo della sua venuta nelle cucine.
Mentre appendeva nell’armadio la veste, Egwene si disse ancora una volta che la svista di Verin poteva essere perfettamente normale: le Sorelle dell’Ajah Marrone erano spesso sbadate di natura... ammesso che quella di Verin fosse stata una svista. Seduta sul bordo del letto, indossò la camicia da notte e cominciò ad arrotolare le calze per togliersele. Cominciava a odiare il bianco, quasi quanto odiava il grigio.
Nynaeve, ferma davanti al camino, teneva in mano la borsa di Egwene e si tirava la treccia. Elayne sedeva al tavolo e conversava con nervosismo.
«L’Ajah Verde» disse, per quella che a Egwene parve la ventesima volta da mezzodì. «Potrei scegliere l’Ajah Verde, Egwene. Così potrei avere tre o quattro Custodi e forse maritarne uno. Chi, meglio di un Custode, sarebbe adatto a essere Principe Consorte dell’Andor? A meno che...» Lasciò morire la frase e divenne rossa.
Egwene sentì una fitta di gelosia (cosa di cui pensava d’essersi liberata da molto tempo) mista a comprensione. Come poteva essere gelosa di Rand, se non riusciva a guardare Galad senza provare un brivido e sentirsi sciogliere? Rand era stato suo, ma non lo era più. L’avrebbe lasciato volentieri a Elayne, ma lui non era per una di loro. Sarebbe stato meglio che l’Erede maritasse un uomo normale, purché dell’Andor, anziché il Drago Rinato. Lasciò cadere per terra le calze, dicendosi che quella notte aveva ben altro a cui pensare, non al disordine. «Sono pronta, Nynaeve» annunciò.
Nynaeve le tese la borsa e una lunga e sottile striscia di cuoio. «Forse funzionerà per più persone nello stesso tempo» disse. «Potrei... venire con te.»
Tenendo sul palmo l’anello di pietra, Egwene vi passò la correggia e se la legò al collo. Le striature e le pagliuzze azzurre, marrone e rosse parvero più vivide contro il bianco della camicia da notte. «E lasciare da sola Elayne a guardarci? Quando l’Ajah Nera forse sa tutto di noi?»
«Posso cavarmela» disse Elayne, decisa. «Oppure fammi venire con te e lasciamo di guardia Nynaeve. È la più forte di noi, quando s’infuria; se occorre che una stia di guardia, lei sarebbe l’ideale.»
Egwene scosse la testa. «E se con due non funziona? Lo sapremmo solo dopo esserci svegliate e avremmo sprecato la notte. Non possiamo sprecare tempo, se vogliamo raggiungerle. Siamo già troppo in ritardo.» Erano ragioni valide e lei ci credeva, ma c’era un’altra ragione, più personale. «E poi, mi sentirò meglio, sapendo che tutt’e due mi sorvegliate, in caso che...»
Non voleva dirlo. In caso che venisse qualcuno mentre lei dormiva. I Grigi. L’Ajah Nera. Una qualsiasi delle cose che avevano mutato la Torre Bianca da luogo sicuro a foresta tenebrosa piena di burroni e di trappole. Il viso delle altre due rivelò che avevano capito.
Mentre Egwene si distendeva e si aggiustava sotto la testa il guanciale imbottito di piume, Elayne spostò ai lati del letto le due poltrone. Nynaeve spense a una a una le candele; poi, nel buio, si accomodò in una poltrona. Elayne si sedette nell’altra.
Egwene chiuse gli occhi e cercò di pensare a cose che favorissero il sonno, ma era troppo consapevole dell’anello che le pendeva tra i seni, più che dei dolori dovuti alla visita nello studio di Sheriam. Ora le pareva che l’anello pesasse quanto un mattone e allontanasse pensieri di casa e di laghetti sereni. Tel’aran’rhiod. Il Mondo Invisibile. Il Mondo dei Sogni. In attesa sul limitare del sonno.
Nynaeve cominciò a canticchiare a bocca chiusa. Egwene riconobbe un motivetto senza titolo e senza parole, che la madre le cantava quando lei era bambina, quando si metteva a letto, nella sua camera, con un morbido guanciale e coperte di lana e i profumi d’olio di rosa e di pane sfornato e... Chissà se Rand stava bene... E Perrin... Si addormentò.
Si trovava in un terreno collinoso punteggiato di prati fioriti e di rigogliosi boschetti negli avvallamenti. Farfalle svolazzavano sui fiori, lampi d’ali gialle, azzurre e verdi; nelle vicinanze, due allodole cinguettavano. Qualche nuvola bianca e soffice si muoveva nel cielo azzurro chiaro e la brezza manteneva quel delicato equilibrio fra caldo e freddo che si manifesta solo in alcune particolari giornate di primavera. Una giornata troppo perfetta per essere reale.
Egwene si guardò il vestito e rise di piacere: proprio la sua sfumatura preferita di seta celeste, con bande bianche nella sottana (si mutarono in verdi, appena lei si accigliò un istante) e file di perline lungo le maniche e sul petto. Protese il piede per guardare la punta della pantofola di velluto. L’unica nota stonata era l’anello ritorto di pietra multicolore che le pendeva sul petto, appeso a una correggia di pelle.
Strinse in mano l’anello e ansimò: era leggero come una piuma. Se l’avesse tirato in aria, ne era sicura, sarebbe volato via come lanugine di cardo. Non sapeva spiegarsi il perché, ma non ne aveva più paura. Lo infilò nel collo della veste, perché non le penzolasse davanti.
«Così questo è il Tel’aran’rhiod di cui parlava Verin» disse. «Il Mondo dei Sogni descritto da Corianin Nedeal. Non mi pare pericoloso.» Ma Verin aveva detto che era pericoloso. Ajah Nera o no, lei non vedeva come un’Aes Sedai potesse dire una vera e propria bugia. Forse Verin si era sbagliata, si disse. Ma non lo riteneva probabile.
Solo per vedere se ne aveva la possibilità, si aprì all’Unico Potere. Saidar la riempì. Anche in quel mondo, era presente. Egwene incanalò il flusso, con delicatezza, lo diresse nel venticello, formò con le farfalle mulinelli di colore, cerchi intrecciati a cerchi.
Smise di colpo. Le farfalle ripresero a svolazzare, incuranti della breve avventura. Myrddraal e Progenie dell’Ombra percepivano chi incanalava. Egwene si guardò intorno e non riuscì a immaginare in quel luogo creature del genere; ma il fatto che lei non riuscisse a immaginarle non significava che non ci fossero. E l’Ajah Nera aveva tutti i ter’angreal studiati da Corianin Nedeal. Un nauseante ricordo del perché lei si trovava lì.
«Almeno so di poter incanalare» borbottò. «Non scopro niente, se me ne sto qui. Forse, se giro a dare un’occhiata...» Mosse un passo...
...e si ritrovò nell’umido, buio corridoio d’una locanda. Era figlia di locandiere, quindi era sicura che si trattasse d’una locanda. Non udiva rumori e vide che tutte le porte lungo il corridoio erano ben chiuse. Proprio mentre si domandava chi ci fosse dall’altra parte, si accorse che la porta di semplice legno davanti a lei si apriva senza rumore.
La stanza era spoglia; il vento gelido gemeva entrando dalle finestre e agitava vecchia cenere nel camino. Un grosso cane se ne stava accucciato per terra, con la coda irsuta davanti al naso, fra la porta e un massiccio pilastro di pietra nera rozzamente tagliata, posto al centro della stanza. Un robusto giovanotto dai capelli ispidi sedeva con la schiena contro il pilastro: indossava solo la biancheria e teneva la testa ciondoloni come se dormisse. Una robusta catena nera circondava il pilastro e il petto del giovanotto, che ne reggeva a pugni serrati le estremità e gonfiava i muscoli per tenere tesa la catena, per imprigionare se stesso.
«Perrin?» disse Egwene, meravigliata. Entrò nella stanza. «Perrin, cosa t’è preso? Perrin!» Il cane si alzò.
Non era un cane, ma un lupo, nero e grigio, con labbra arricciate a snudare zanne bianche e luccicanti, con occhi gialli che la guardavano come avrebbero guardato un topo. Un topo da mangiare.
Suo malgrado, Egwene arretrò in fretta nel corridoio. «Perrin!» gridò. «Svegliati! C’è un lupo!» Verin le aveva detto che quanto accadeva in quel mondo era reale e le aveva mostrato la cicatrice per confermarlo. Le zanne del lupo le parevano grosse come coltelli. «Perrin, svegliati! Fagli capire che sono tua amica!» Abbracciò Saidar. Il lupo si avvicinò, deciso.
Perrin alzò la testa, aprì con aria assonnata gli occhi. Egwene si trovò a guardare ora due paia d’occhi gialli. Il lupo si raccolse per balzare.
«Hopper, no!» gridò Perrin. «Egwene!»
La porta le si chiuse in faccia: Egwene fu avvolta dalle tenebre.
Non vedeva niente, ma sentiva goccioline di sudore sulla fronte. Non per il caldo. Dove si trovava? Quel posto non le piaceva. Voleva svegliarsi!
Udì un suono stridulo e sobbalzò, prima di riconoscere il canto di un grillo. Nel buio una rana emise un basso gracidio, cui rispose un coro. A poco a poco Egwene riuscì a distinguere alberi tutt’intorno. Le nuvole nascondevano le stelle e la luna era una falce sottile.
Sulla destra, fra gli alberi, c’era un altro bagliore, tremulo. Un fuoco da campo.
Egwene rifletté un attimo, prima di muoversi. Il desiderio di svegliarsi non era bastato a farla uscire dal Tel’aran’rhiod. Lei non aveva ancora scoperto niente di utile. Ma non era stata ferita in alcun modo. Per il momento, pensò, con un brivido. Però non sapeva quale persona, o creatura, fosse accanto a quel fuoco: poteva trattarsi di un Myrddraal. E poi, non aveva l’abbigliamento adatto per andare in giro nei boschi. Fu quest’ultima considerazione a deciderla: si piccava di capire quando si comportava da stupida.
Inspirò a fondo, raccolse le sottane di seta e piano piano si avvicinò al fuoco. Forse nei boschi non era abile come Nynaeve, ma ne sapeva abbastanza per non calpestare rami secchi. Da dietro il tronco d’una quercia annosa scrutò con cautela il fuoco da campo.
C’era solo un giovanotto alto, seduto a fissare le fiamme. Rand. Le fiamme non provenivano da legna, ma da una fonte invisibile: danzavano sopra un tratto di terreno nudo e non lasciavano tracce di bruciato.
Prima che lei si muovesse, Rand alzò la testa. Egwene vide con sorpresa che fumava la pipa, dal cui fornello sì levava un sottile nastro di fumo. Rand pareva stanco, molto stanco.
«Chi c’è lì?» domandò a voce alta. «Hai fatto frusciare tante foglie da svegliare un morto, quindi puoi anche mostrarti.»
Egwene serrò le labbra e uscì allo scoperto. «Sono io, Rand» disse. «Non avere paura. È un sogno. Mi trovo in un tuo sogno.»
Rand scattò in piedi, con tale rapidità che Egwene si bloccò. Le parve più grosso di quanto non ricordasse. E un poco pericoloso. Forse più di un poco. I suoi occhi, grigioazzurri, parevano ardere come fuoco gelido.
«Credi che non sappia che è un sogno?» disse Rand, beffardo. «Ma non per questo è meno reale.» Fissò rabbiosamente le tenebre, come se cercasse qualcuno. «Per quanto tempo ancora continuerai a tentare?» gridò nella notte. «Quante facce diverse manderai? Mia madre, mio padre, ora lei! Le belle fanciulle non mi tenteranno con un bacio, neppure quelle che conosco! Ti rinnego, Padre delle Menzogne! Ti rinnego!»
«Rand» disse Egwene, incerta «sono Egwene. Egwene.»
In pugno a Rand comparve all’improvviso una spada uscita dal nulla. La lama consisteva in una singola fiamma, leggermente ricurva, con il simbolo dell’airone.
«Mia madre mi diede dolcini al miele che puzzavano di veleno» disse Rand, con voce tesa. «Mio padre aveva un pugnale da piantarmi nel petto. Lei... lei offrì baci e altro.» Aveva il viso lucido di sudore e uno sguardo fisso che pareva sufficiente a incendiare. «Tu cosa porti?»
«Ora ascolterai me, Rand al’Thor, dovessi buttarti a terra e sedermi su di te» sbottò Egwene. Si aprì a Saidar e ne incanalò il flusso per fare in modo che l’aria trattenesse Rand in una rete.
La spada roteò, ruggì come fornace spalancata.
Egwene barcollò, come se avesse perso l’equilibrio tirando una corda troppo tesa che si fosse rotta di colpo.
Rand si mise a ridere. «Imparo, come vedi» disse. «Quando funziona...» Con una smorfia, avanzò verso di lei. «Potrei sopportare ogni faccia, tranne quella. Non la sua, la Luce t’incenerisca!» La spada saettò.
Egwene fuggì.
Non seppe che cosa avesse fatto, né come, ma si ritrovò fra le colline sotto il cielo assolato, fra cinguettii d’allodole e svolazzare di farfalle. Riprese fiato, scossa dai brividi.
Aveva scoperto qualcosa, pensò. Che cosa? Che il Tenebroso dava sempre la caccia a Rand? Questo già lo sapeva. Che forse il Tenebroso voleva ucciderlo? Questo era diverso. A meno che Rand non fosse già impazzito e non sapesse che cosa diceva. Luce santa, perché non poteva aiutarlo?
Trasse un lungo respiro per calmarsi. «L’unico modo per aiutarlo è domarlo» borbottò. «Oppure ucciderlo.» Si sentì rivoltare lo stomaco. «Non lo farò mai. Mai!»
Un cardinale si era appollaiato in un vicino cespuglio di rovo camemoro e aveva alzato la cresta, inclinando il capo per osservarla con diffidenza. Egwene si rivolse a lui. «Be’, non aiuto nessuno, se me ne sto qui a parlare fra me, giusto? O a parlare con te.»
Il cardinale si alzò in volo, mentre lei si avvicinava al cespuglio. Era ancora un lampo cremisi, quando lei mosse il passo seguente; scomparve in un folto d’alberi, quando lei mosse il terzo passo.
Egwene si fermò e trasse dalla veste l’anello di pietra. Perché non cambiava? Fino a quel momento ogni cosa era cambiata con tale rapidità da toglierle il fiato. Perché ora no? A meno che non ci fosse proprio lì qualche risposta. Si guardò intorno, incerta. I fiori di campo la stuzzicavano e il canto delle allodole la derideva. Quel luogo pareva proprio inventato da lei.
Strinse con decisione le dita sul ter’angreal. «Portami dove devo essere» disse. Chiuse gli occhi e si concentrò sull’anello. «Avanti. Portami dove devo essere.» Abbracciò di nuovo Saidar, alimentò l’anello mediante un rivolo dell’Unico Potere. Sapeva che l’anello, per funzionare, non aveva bisogno del flusso di Potere: voleva soltanto mettergliene a disposizione una quantità maggiore. «Portami dove possa trovare una risposta. Devo sapere cosa vuole l’Ajah Nera. Portami alla risposta.»
«Bene, finalmente ti ho trovata, ragazza. Qui ci sono tutte le risposte che vuoi.»
Egwene aprì di scatto gli occhi. Si trovava in un’ampia sala dal soffitto a cupola sorretto da una foresta di colonne di granito. A mezz’aria c’era una spada di cristallo che luccicava e scintillava, in lenta rotazione. Egwene non ne era sicura, ma riteneva che fosse la stessa spada che in quel suo sogno Rand aveva cercato di prendere. L’altro suo sogno. Questo pareva fin troppo reale: doveva continuare a ripetersi che anch’esso era soltanto sogno.
Una donna anziana uscì dall’ombra di una colonna: si teneva china e si appoggiava a un bastone. Il termine “brutto” sarebbe stato ben misera descrizione: la vecchia aveva mento ossuto e appuntito, un naso anche più ossuto e sottile, il viso coperto di nei pelosi.
«Chi sei?» domandò Egwene. Le uniche persone viste fino a quel momento nel Tel’aran’rhiod erano gente che già conosceva e non credeva che avrebbe potuto dimenticare una faccia come quella.
«Sono solo la povera vecchia Silvie, milady» gracchiò la sconosciuta. Nello stesso tempo cercò di piegarsi in quella che forse era una riverenza, forse un atteggiamento di paura. «Tu conosci la povera vecchia Silvie, milady. Per tutti questi anni ha servito fedelmente la tua famiglia. La mia faccia ti spaventa ancora? Non avere paura, milady: mi è utile, se occorre, quanto una più bella.»
«Oh certo» disse Egwene. «È una faccia forte. Una faccia buona.» Si augurò che la vecchia le credesse. Chiunque fosse, questa Silvie pareva convinta di conoscere Egwene. Forse aveva anche delle risposte. «Silvie, hai accennato al fatto che qui si trovano le risposte» disse.
«Oh, milady, sei venuta nel posto giusto. Il Cuore della Pietra è pieno di risposte. E di segreti. I Sommi Signori non sarebbero contenti di vederci qui, milady. Oh, no. Solo i Sommi Signori entrano in questa sala. E i servi, naturalmente.» Emise una risatina timida e gracchiante. «I Sommi Signori non usano scope e stracci. Ma chi vede un servo?»
«Che genere di segreti?»
Ma Silvie zoppicava verso la spada di cristallo. «Trame» disse, quasi parlasse tra sé. «Tutti fingono di servire il Gran Signore e intanto tramano per riprendersi ciò che hanno perduto. Ciascuno crede d’essere l’unico, o l’unica, a tramare. Ishamael è stupido!»
«Cosa?» esclamò Egwene, brusca. «Cos’hai detto di Ishamael?»
La vecchia si girò e mostrò un sorriso storto e ingraziante. «Solo ciò che dice la povera gente, milady. Dire che i Reietti sono stupidi svia il loro potere. E dà una piacevole sensazione di sicurezza. Neppure l’Ombra lo sopporta. Prova, milady. Prova a dire: Ba’alzamon è stupido!»
Egwene increspò le labbra in un sorriso. «Ba’alzamon è stupido!» ripeté. «Hai ragione, Silvie.» Provava davvero una sensazione piacevole, a beffarsi del Tenebroso. La vecchia ridacchiò. La spada girava proprio sopra le sue spalle.
«Silvie» domandò Egwene «cos’è, quella?»
«Callandor, milady. Lo sai, no? La Spada Intoccabile.» Mosse il bastone, che a un piede dalla spada rimbalzò con un tonfo sordo. Silvie allargò il sorriso. «La Spada-che-non-è-una-spada, anche se pochissimi sanno cos’è. Ma nessuno può toccarla, tranne uno. A questo provvidero coloro che la misero qui. Un giorno il Drago Rinato impugnerà Callandor e con questo dimostrerà al mondo d’essere il Drago. Sarà la prima prova, comunque. La prova che Lews Therin è tornato perché tutto il mondo lo veda e si stenda bocconi davanti a lui. Ah, ai Sommi Signori non piace averla qui. Non piace niente che riguardi il Potere. La darebbero via, se potessero. Altri la prenderebbero, se potessero. Cosa non darebbe, un Reietto, per impugnare Callandor?»
Egwene fissò la spada scintillante. Se le Profezie del Drago erano vere... se Rand era il Drago, come sosteneva Moiraine, un giorno avrebbe impugnato quella spada; ma dal poco che sapeva delle Profezie riguardanti Callandor, non capiva come potesse accadere. Tuttavia, se esisteva un modo di prendere quella spada, forse l’Ajah Nera lo conosceva. E se le Nere lo conoscevano, lei avrebbe potuto scoprirlo.
Con prudenza adoperò il Potere per sondare che cosa sorreggeva e schermava la spada. La sonda toccò... qualcosa... e fu bloccata. Egwene percepì quali dei Cinque Poteri avessero usato. Aria e Fuoco e Spirito. Poteva seguire l’intricata tessitura di Saidar, realizzata con una forza che la stupì. C’erano brecce nella tessitura, spazi attraverso i quali la sonda avrebbe potuto scivolare. Quando provò a sfruttarli, ebbe l’impressione di combattere la parte più forte dell’intera tessitura. Allora questa colpì ciò che cercava d’aprirsi un varco e Egwene lasciò svanire la sonda. Metà schermo era stato intessuto con Saidar; l’altra metà, la parte che non poteva percepire né toccare, con Saidin. Non era proprio esatto... lo schermo era un tutto unico... ma la descrizione calzava. Una parete di pietra, pensò Egwene, ferma una donna cieca allo stesso modo di una che ci vede.
In lontananza si udì rumore di passi. Stivali.
Non sapeva quante persone fossero né da quale direzione giungessero; ma Silvie sobbalzò e subito fissò lo spazio fra le colonne. «Viene a guardarla di nuovo» borbottò. «Sveglio o addormentato, vuole...» Parve ricordarsi di Egwene e sorrise, preoccupata. «Ora devi andare, milady. Non deve trovarti qui, non deve neppure sapere che sei stata qui.»
Egwene arretrava già fra le colonne e Silvie la seguì, agitando le mani e facendo ondeggiare il bastone.
«Vado, Silvie» disse Egwene. «Devo solo ricordare la strada.» Tastò l’anello di pietra. «Riportami fra le colline» ordinò. Non ottenne risultato. Incanalò nell’anello un rivolo sottile. «Riportami fra le colline.» Era sempre circondata da colonne di granito. Il rumore di stivali si era avvicinato, ora non si confondeva più nella propria eco.
«Non conosci la via d’uscita» disse Silvie in tono piatto; poi soggiunse, con un preciso bisbiglio, ingraziante e beffardo nello stesso tempo, da vecchia cameriera convinta di potersi prendere qualche libertà: «Oh, milady, questo è un luogo pericoloso, se non si conosce la via d’uscita. Su, lascia che la povera vecchia Silvie ti conduca fuori. La povera vecchia Silvie ti metterà al sicuro nel tuo letto, milady.» Circondò con le braccia Egwene e la spinse più lontano dalla spada. Non che Egwene avesse bisogno d’incitamento: i passi si erano fermati; l’uomo, chiunque fosse, probabilmente fissava Callandor.
«Mostrami solo la via» disse Egwene, anche lei in un bisbiglio. «O dimmi come si fa. Non occorre spingere.» Chissà come, le dita della vecchia si erano impigliate nell’anello di pietra. «Lascia stare l’anello, Silvie.»
«Al sicuro nel tuo letto.»
Il dolore cancellò il mondo.
Con uno strillo da lacerare la gola, Egwene si alzò a sedere nel buio, tutta sudata. Per un momento non capì dove si trovasse. «Oh, Luce» gemette «che male! Che male!» Si passò le mani su tutto il corpo, sicura d’avere la pelle scorticata o piena di lividi che giustificassero il bruciore, ma non scoprì alcun segno.
«Siamo qui» disse Nynaeve dal buio. «Siamo qui, Egwene.»
Egwene si lanciò verso la voce; piena di sollievo, gettò le braccia al collo di Nynaeve. «Luce santa, sono tornata.»
«Elayne» disse Nynaeve.
Da una delle candele provenne un fioco bagliore. Elayne esitò, con la candela in mano e nell’altra la strisciolina di carta accesa con l’acciarino. Poi sorrise e ogni candela della stanza si accese di colpo. Elayne andò al lavabo e tornò con un panno bagnato per lavare il viso a Egwene.
«È stato brutto?» domandò, preoccupata. «Non ti sei mossa. Non hai nemmeno borbottato. Non sapevamo se svegliarti o lasciarti dormire.»
Con gesti frenetici Egwene si tolse dal collo la cordicella con l’anello e la gettò a terra. «La prossima volta» ansimò «stabiliamo un tempo: alla scadenza mi sveglierete, a costo d’infilarmi la testa in una bacinella d’acqua!» Non si era resa conto d’avere deciso che ci sarebbe stata un’altra volta. Voleva infilare la testa nelle fauci dell’orso solo per dimostrare di non avere paura? Voleva provarci una seconda volta solo perché la prima non era morta?
Non era semplicemente questione di dimostrare a se stessa di non avere paura. In realtà aveva paura e lo sapeva! Ma finché l’Ajah Nera aveva quei ter’angreal studiati da Corianin Nedeal, lei era obbligata a tornare nel Mondo dei Sogni. Nel Tel’aran’rhiod si trovava di sicuro la spiegazione del perché le Nere li avessero rubati.
«Ma non stanotte» soggiunse piano. «Non ancora.»
«Cos’è accaduto?» domandò Nynaeve. «Cos’hai... sognato?»
Egwene si distese sul letto e raccontò ogni particolare. Tenne per sé una sola cosa: Perrin che parlava al lupo. Provò un certo senso di colpa, a non confidarsi con Elayne e con Nynaeve; ma avrebbe dovuto rivelare il segreto di Perrin, non il proprio, e toccava a lui stabilire se e quando rivelarlo. Per il resto, riferì con la massima precisione ogni cosa. Al termine, si sentì svuotata.
«A parte la stanchezza» disse Elayne «pareva ferito? Egwene, non posso credere che volesse farti del male. Non l’avrebbe mai fatto.»
«Rand dovrà badare a se stesso ancora per un poco» disse Nynaeve, asciutta. Elayne arrossì. Diventava più graziosa, con le guance rosse, pensò Egwene; si rese conto che Elayne pareva graziosa in qualsiasi circostanza, anche se piangeva o se sfregava tegami. «Callandor» proseguì Nynaeve. «Il Cuore della Pietra. Era segnato sulla piantina. Sappiamo, credo, dove si trovi l’Ajah Nera.»
Elayne aveva ripreso la padronanza di sé. «Non cambia niente» disse. «Se non è una diversione, è una trappola.»
Nynaeve sorrise, cupa. «Il modo migliore per acchiappare chi l’ha messa è uno solo: farla scattare e aspettare che arrivi. Lui, o lei, nel caso nostro.»
«Proponi di andare a Tear?» disse Egwene.
Nynaeve annuì. «L’Amyrlin ci ha sguinzagliate, pare. Prendiamo le nostre decisioni, ricordi? Almeno sappiamo che l’Ajah Nera è a Tear e sappiamo chi cercare. Qui possiamo solo arrovellarci con sospetti su ognuno e domandarci se nei paraggi c’è un altro Grigio. Preferisco la parte del segugio, a quella del coniglio.»
«Devo scrivere a mia madre» disse Elayne. Notando le loro occhiate, si mise sulla difensiva. «Già una volta sono scomparsa senza che lei sapesse dov’ero andata. Se lo rifaccio... non conoscete il caratterino di mia madre. Manderebbe Gareth Bryne e l’intero esercito ad assalite Tar Valon. O al nostro inseguimento.»
«Potresti restare qui» disse Egwene.
«No. Non vi lascerò andare da sole. E non me ne starò qui a domandarmi se la Sorella che mi fa lezione è un Amico delle Tenebre o se il prossimo Grigio verrà a cercare me.» Se ne uscì in una risatina «E neppure intendo faticare nelle cucine, mentre voi due andate all’avventura Mi basterà dire a mia madre che sono via dalla Torre per ordine dell’Amyrlin, così non diventerà furiosa, se le arriveranno voci. Non devo dirle dove andiamo, né per quale motivo.»
«Di sicuro farai meglio a tenerlo per te» disse Nynaeve. «Verrebbe a cercarti, se sapesse dell’Ajah Nera. Inoltre, non sai per quante mani passerà la tua lettera, prima d’arrivare a lei, né quanti occhi potrebbero leggerla. Meglio non due niente che non vorresti si sapesse.»
«C’è un altro guaio» sospirò Elayne. «L’Amyrlin non sa che sono con voi Devo trovare un modo d’inviare la lettera senza che ci sia il liscino che lei la legga.»
«Devo riflettere su questo particolare» disse Nynaeve, corrugando la fronte. «Forse, dopo la partenza. Potresti lasciare la lettera al villaggio di Aringill, a valle del fiume, se avremo il tempo di cercale qualcuno che vada a Caemlyn. Un’occhiata al documento dell’Amyrlin lo convincerebbe. Dobbiamo augurarci che quei documenti abbiano valore anche per i capitani delle navi, a meno che una di voi abbia più denaro di me.»
Elayne scosse tristemente la testa. Egwene non si prese nemmeno la briga di negare. Tutto il loro denaro era stato usato nel viaggio a Capo Toman, a parte qualche moneta di rame. «Quando...» Fu costretta a interrompersi per schiarirsi la voce. «Quando partiamo? Stanotte? tutt’e tre portavano l’anello col Gran Serpente. Una novità. E una sorpresa non particolarmente piacevole. Be’, doveva accadere, un giorno o l’altro. Non erano affari suoi, ecco tutto.»
Egwene scosse la testa, ma parve rivolgersi anche alle altre, non solo a lui. «Ve l’avevo detto che bisognava chiederglielo senza tanti giri» sospirò. «Quando vuole, è cocciuto come un mulo e ingannevole come un gatto. È vero, Mat, lo sai benissimo; perciò smettila di guardarci di storto.»
Mat tornò subito a sorridere.
«Sta’ zitta, Egwene» disse Nynaeve. «Mat, solo perché vogliamo chiederti un favore, non significa che non c’interessa come stai. Ci preoccupiamo per te e lo sai, se non sei diventato più zuccone del solito. Stai bene? Hai un aspetto molto migliore dell’ultima volta. Pare davvero che sia passato un mese e non due giorni.»
«Sono pronto a correre per dieci miglia e a ballare una giga al termine della corsa» disse Mat. Lo stomaco gli brontolò, ricordandogli quanto mancava ancora a mezzodì, ma lui non vi badò e si augurò che loro non se ne fossero accorte. Si sentiva davvero come se avesse avuto cibo e riposo per un mese... quasi. Aveva fatto un pasto solo, il giorno prima. «Quale favore?» domandò, diffidente. Per quanto ricordava, Nynaeve non chiedeva favori: diceva alle persone che cosa fare e si aspettava di vederlo fatto.
«Vorrei che tu portassi per me una lettera» intervenne Elayne. «A mia madre, a Caemlyn.» Gli rivolse un sorriso tutto fossette. «Te ne sarei davvero grata, Mat.» La luce del mattino le metteva in risalto i capelli.
Chissà se le piaceva danzare, si domandò Mat. Scacciò il pensiero. «Non pare impresa difficile, ma c’è da fare un lungo viaggio» rispose. «Cosa ci guadagno?» Dall’espressione, si disse che le fossette l’avevano tradita assai di rado.
Elayne si raddrizzò, orgogliosa. Dava quasi l’impressione d’avere alle spalle il trono. «Sei un leale suddito dell’Andor? Non vuoi rendere un servigio al Trono del Leone e all’Erede?»
Mat represse una risatina.
«T’avevo detto che nemmeno questo avrebbe funzionato» commentò Egwene. «Non con lui.»
Elayne aveva una smorfia ironica. «Mi pareva valesse la pena di un tentativo. A Caemlyn, con le Guardie funziona sempre. Hai detto che se avessi sorriso...» S’interruppe e guardò di proposito da tutt’altra parte.
"Cosa avevi detto, Egwene?" pensò Mat, furibondo. “Che mi lascio infinocchiare da qualsiasi ragazza mi sorrida?" Esteriormente però mantenne la calma e riuscì a non perdere il sogghigno.
«Vorrei che bastasse chiedere» disse Egwene. «Ma tu non fai favori, vero, Mat? Hai mai fatto qualcosa, senza che ti abbiano allettato con le lusinghe o costretto con le cattive?»
Lui si limitò a sorriderle. «Danzerò con tutt’e due, Egwene, ma non farò commissioni» rispose. Per un istante pensò che lei stesse per mostrargli la lingua.
«Se possiamo tornare al progetto originale...» disse Nynaeve, con voce troppo calma. Le altre due annuirono e lei si rivolse a Mat. Per la prima volta, da quando era entrata, pareva di nuovo la Sapiente d’un tempo, con lo sguardo che poteva inchiodarti e la treccia pronta a scattare come sferza.
«Sei anche più sgarbato di quanto non ricordassi, Matrim Cauthon» attaccò Nynaeve. «Sei stato male così a lungo... mentre Egwene, Elayne e io ci prendevamo cura di te come d’un bimbo in fasce... che me n’ero quasi dimenticata. Comunque, avrei detto che in te ci fosse un minimo di gratitudine. Hai parlato di vedere il mondo, le grandi città. Bene, Caemlyn è l’ideale! Realizzi il tuo desiderio, dimostri gratitudine e aiuti qualcuno, tutto in una volta sola.» Dalla tasca interna del mantello tolse un foglio di pergamena piegato in quattro e lo posò sul tavolo. Nel sigillo di cera giallo oro era impresso un giglio. «Non puoi chiedere di più.»
Mat, spiacente, guardò il plico. Ricordava appena d’essere passato da Caemlyn, con Rand. Era un peccato fermarle adesso, ma la ritenne la cosa migliore. “Se vuoi il divertimento della giga” pensò “prima o poi devi pagare l’arpista." Vista la Nynaeve d’adesso, più lui tardava a pagare, peggio sarebbe stato. «Nynaeve, non posso» si decise a dire.
«Cosa significa, non puoi? Sei una mosca sulla parete o un uomo? La possibilità di fare un favore all’Erede dell’Andor, di vedere Caemlyn, d’incontrare quasi certamente la regina Morgase in persona... e tu non puoi? Non so proprio cos’altro potresti volere. Stavolta non te la squagli come grasso in padella, Matrim Cauthon! O sei cambiato al punto che ora ti piacciono quelle che vedi intorno?» Gli agitò davanti al viso la sinistra, praticamente sbattendogli sotto il naso l’anello.
«Per favore, Mat!» disse Elayne; Egwene lo fissò come se gli fossero cresciute corna da Trolloc.
Mat si agitò sulla sedia. «Non è che non voglio. Non posso! L’Amyrlin ha emanato ordini per cui non mi è possibile lasciare la malede... l’isola. Cambia la situazione e porterò fra i denti la tua lettera, Elayne.»
Le tre si scambiarono un’occhiata. Mat a volte si domandava se le donne fossero in grado di leggersi il pensiero: di sicuro parevano leggere il suo, quando lui meno lo voleva. Ma questa volta, qualsiasi cosa avessero deciso senza aprire bocca, non gli avevano letto il pensiero.
«Spiega» disse Nynaeve, concisa. «Perché l’Amyrlin ti vuole tenere qui?»
Mat si strinse nelle spalle, la guardò dritto negli occhi, le rivolse il suo miglior sorriso triste. «Perché sono stato ammalato» rispose. «Perché la malattia è durata tanto. Non mi lascerà andare, ha detto, finché non sarà sicura che non me ne andrò a morire da qualche parte. Non che ne abbia l’intenzione, naturalmente. Di andare a morire, cioè.»
Nynaeve corrugò la fronte e si tirò la treccia; all’improvviso gli prese tra le mani la testa. Mat si sentì percorrere da un brivido. Luce santa, il Potere! Prima che avesse finito di pensarlo, Nynaeve l’aveva lasciato.
«Cosa... Cosa mi hai fatto, Nynaeve?»
«Nemmeno la decima parte di ciò che probabilmente ti meriteresti» rispose lei. «Sei sano come un pesce. Più debole di quanto non sembri, ma sano.»
«Te l’avevo detto» replicò Mat, a disagio. Cercò di sorridere. «Nynaeve, pareva te. L’Amyrlin, voglio dire. Riesce a incombere su tutti anche se è d’un buon piede troppo bassa e a fare la prepotente...» Da come Nynaeve inarcò le sopracciglia, Mat decise che quella non era strada da percorrere oltre. Ma doveva tenerle lontano dal Corno. Si domandò se sapevano. «Bene» riprese. «Comunque, credo che vogliano tenermi qui a causa del pugnale. Cioè, finché non avranno scoperto esattamente come mi influenzava. Sapete come sono le Aes Sedai.» Se ne uscì in una risatina. Loro si limitarono a guardarlo. Forse aveva fatto male a dire quell’ultima battuta. Maledizione! Volevano diventare Aes Sedai. La tirava troppo per le lunghe. Se almeno Nynaeve avesse smesso di fissarlo in quel modo! Doveva tagliare corto. «L’Amyrlin ha dato disposizione che non mi lascino attraversare un ponte né salire a bordo di una nave, senza suo ordine. Capite? Vorrei aiutarvi. Ma non posso.»
«Ma ci aiuterai, se ti faremo uscire da Tar Valon?» domandò Nynaeve, con aria assorta.
«Fatemi uscire da Tar Valon e porterò sulla schiena Elayne fino da sua madre.»
Stavolta fu Elayne a inarcare le sopracciglia. Egwene scosse la testa e formò con le labbra il nome di Mat, rivolgendogli un’occhiata penetrante. A volte le donne non avevano proprio il senso dell’umorismo.
Nynaeve indicò alle altre due di seguirla alla finestra: girarono la schiena a Mat e discussero a voce così bassa che lui colse solo un mormorio. Gli parve che Egwene dicesse che ne bastava uno solo, se stavano insieme. Guardandole, si domandò se pensassero davvero di poter aggirare l’ordine dell’Amyrlin. Se ci fossero riuscite, avrebbe portato la maledetta lettera. L’avrebbe portata davvero tenendola fra i denti.
Senza pensarci, raccolse un torsolo di mela e lo addentò, ma si affrettò a sputare nel piatto il boccone di semi amari.
Quando le tre tornarono al tavolo, Egwene tese a Mat un foglio spesso, piegato in quattro. Mat lo guardò con diffidenza e lo aprì. Nel leggerlo, cominciò senza accorgersene a canticchiare a bocca chiusa.
Ciò che il latore della presente fa, è fatto per mio ordine. Ubbidite e mantenete il segreto, nel rispetto della mia autorità.
Era sigillato con la Fiamma di Tar Valon in un cerchio di cera bianca dura come pietra.
Mat si accorse di canticchiare “Una tasca piena d’oro” e smise di colpo. «È autentico?» domandò. «Non l’avrete... Come ve lo siete procurato?»
«Non l’ha falsificato, se questo intendevi» rispose Elayne.
«Lascia perdere come l’abbiamo avuto» rincarò Nynaeve. «È autentico. Ti basti questo. Fossi in te, non lo mostrerei in giro, altrimenti l’Amyrlin se lo riprenderà; ma ti farà superare le guardie e salire a bordo d’una nave. Hai detto che avresti portato la lettera, in questo caso.»
«Puoi considerarla già nelle mani di Morgase» rispose Mat. Voleva continuare a leggere il documento, invece lo ripiegò e lo pose sopra la lettera di Elayne. «Per caso non avete in aggiunta un po’ di soldi? Qualche moneta d’argento? Un paio di marchi d’oro? Ho forse denaro sufficiente a pagare il viaggio, ma pare che ogni cosa sia rincarata, a valle del fiume.»
Nynaeve scosse la testa. «Non hai denaro? Hai giocato con Hurin quasi ogni notte, finché non sei stato troppo male per reggere i dadi. E perché ogni cosa dovrebbe essere rincarata, a valle del fiume?»
«Ci giocavamo monetine di rame, Nynaeve, e dopo un poco Hurin non ha più voluto giocare. Non importa. Mi arrangerò. Non vi arrivano le voci? Nel Cairhien c’è la guerra civile; anche a Tear la situazione è brutta, a quanto dicono. Pare che per una stanza di locanda ad Aringill si paghi il prezzo di un buon cavallo al nostro villaggio.»
«Abbiamo avuto da fare» replicò Nynaeve, brusca; scambiò con le altre uno sguardo preoccupato che indusse Mat a porsi altre domande.
«Non importa» ripeté Mat. «Posso cavarmela.» C’erano di sicuro giocatori, nelle locande intorno ai moli. Una notte con i dadi... e al mattino sarebbe stato a bordo di una nave, con la borsa piena.
«Pensa solo a consegnare la lettera alla regina Morgase, Mat» disse Nynaeve. «E non far sapere a nessuno d’averla.»
«Gliela porterò. L’ho detto, no? Credete che non mantenga le promesse?» Le occhiate di Nynaeve e di Egwene gli ricordarono che qualcuna non l’aveva mantenuta. «La consegnerò, certo. Sangue e ceneri, non preoccupatevi!»
Si trattennero ancora un poco, chiacchierando soprattutto del villaggio natio, Egwene e Elayne sedute sul letto, Nynaeve nella poltrona a braccioli, Mat sullo sgabello. Parlare di Emond’s Field risvegliava in Mat la nostalgia di casa e pareva rattristare Egwene e Nynaeve, come se parlassero di un luogo che non avrebbero più rivisto. Mat fu sicuro che avessero gli occhi lucidi; però, quando cercò di cambiare argomento, loro insistettero per parlare di persone che conoscevano, delle feste di Bel Tine e del Giorno del Sole, delle danze per il raccolto e delle scampagnate per la tosatura.
Elayne gli parlò di Caemlyn, gli disse che cosa doveva aspettarsi al palazzo reale, gli consigliò a chi rivolgersi, gli spiegò qualcosa della città. A volte assumeva la posa di chi ha già in testa la corona, si disse Mat. Bisognava essere sciocchi, per lasciarsi coinvolgere da una come lei. Quando si alzarono, fu dispiaciuto che se ne andassero.
Si alzò anche lui e a un tratto si sentì impacciato. «Sentite, con quella carta mi avete fatto un favore» disse, toccando il documento dell’Amyrlin. «Un grosso favore. So che diventerete tutte Aes Sedai...» qui incespicò un poco «e che tu un giorno sarai regina, Elayne; ma se mai avrete bisogno d’aiuto e se mi sarà possibile, accorrerò Potete contarci. Che c’è? Ho detto qualcosa di divertente?»
Elayne si era coperta la bocca e Egwene si sforzava apertamente di non ridere.
«No, Mat» disse Nynaeve, gentilmente, ma soffocando un sorriso «Solo qualcosa che ho osservato negli uomini in generale.»
«Dovresti essere una donna, per capire» disse Elayne.
«Fai buon viaggio, Mat» disse Egwene. «E non dimenticare che se a una donna occorre un eroe, le occorre oggi, non domani.» Non riuscì più a trattenere la risata.
Mat fissò la porta che si chiudeva alle loro spalle. Le donne, si disse almeno per la centesima volta, sono creature bizzarre.
Poi posò gli occhi sulla lettera di Elayne e sul foglio piegato. Il benedetto documento dell’Amyrlin, inspiegabile ma benvenuto come fuoco in pieno inverno. Si esibì in una piccola danza di gioia sul tappeto a fiori Caemlyn da vedere e una regina da incontrare. Le parole stesse dell’Amyrlin l’avrebbero liberato di lei, si disse. E l’avrebbero anche portato lontano da Selene.
«Non mi acchiapperai mai» rise. E si riferiva a tutt’e due. «Non acchiapperai mai Mat Cauthon.»