30 Il primo lancio di dadi

Dopo l’uscita di Nynaeve e delle altre due, Mat trascorse in camera sua gran parte della giornata, tranne una sola, breve escursione. Faceva piani. E mangiava. Divorò quasi tutto ciò che le cameriere gli portarono e chiese dell’altro. Le cameriere furono felici d’accontentarlo. Mat chiese pane, formaggio, frutta; ammucchiò nell’armadio alcune mele e pere raggrinzite per l’inverno, punte di formaggio e pagnotte, lasciando vassoi vuoti da portare via.

A mezzodì dovette sopportare la visita di un’Aes Sedai... Anaiya, gli pareva di ricordare che si chiamasse. L’Aes Sedai gli impose le mani e gli mandò lungo il corpo brividi di gelo. Era l’Unico Potere, decise Mat, non il semplice tocco di un’Aes Sedai. Anaiya era bruttina, malgrado la guance lisce e la serenità tipica delle Aes Sedai.

«Sembri molto migliorato» disse Anaiya, con un sorriso che a Mat ricordò la propria madre. «Anche più affamato del previsto, a quanto dicono, ma è meglio così. A quanto pare, hai intenzione di svuotare le dispense. Credimi, ti faremo avere tutto il cibo che ti occorre. Non ti lasceremo saltare nemmeno un pasto, finché non ti sarai pienamente rimesso.»

Mat le rivolse il sorriso che soleva fare alla madre quando voleva in modo particolare che lei gli credesse. «Ne sono sicuro» disse. «Mi sento davvero meglio. Pensavo di dare un’occhiata alla città, nel pomeriggio. Se non hai obiezioni, naturalmente. E forse stasera farò un salto in una locanda. Non c’è niente come una serata di chiacchiere, per sollevare lo spirito.»

«Nessuno cercherà di fermarti. Ma non lasciare la città. Metteresti in allarme le guardie e otterresti soltanto un viaggio di ritorno sotto scorta.»

«Non lo farò, Aes Sedai. L’Amyrlin Seat ha detto che morirei di fame nel giro di qualche giorno, se me ne andassi.»

Anaiya annuì, come se non credesse nemmeno una parola. «Certo» disse. Mentre si girava, notò il bastone ferrato che Mat aveva preso sul campo d’allenamento e che aveva appoggiato nell’angolo. «Non hai bisogno di proteggerti da noi, Mat. Qui sei al sicuro.»

«Oh, lo so, Aes Sedai» rispose Mat. La guardò uscire e corrugò la fronte, domandandosi se era riuscito a convincerla.

Era più sera che pomeriggio, quando lasciò la stanza per quella che si augurava fosse la volta definitiva. Il cielo diventava violaceo e il sole al tramonto dipingeva di sfumature rossastre le nuvole. Indossò il mantello e si mise in spalla la grossa sacca di cuoio trovata in una precedente ricerca, piena zeppa di pane, formaggio e frutta messi da parte; poi si diede un’occhiata allo specchio e si disse che non aveva modo di nascondere le proprie intenzioni. Arrotolò il resto degli abiti nella coperta presa dal letto e si mise in spalla anche questo fagotto. Si servì del bastone per sorreggersi meglio. Non lasciò niente nella stanza. Teneva nella tasca della giubba le cose più piccole e nella borsa appesa alla cintura quelle più importanti. Il documento firmato dall’Amyrlin Seat. La lettera di Elayne. I bussolotti con i dadi.

Nell’uscire dalla Torre vide delle Aes Sedai; alcune lo notarono, ma quasi tutte inarcarono per un attimo il sopracciglio e nessuna gli rivolse la parola. Anaiya era una di loro: gli rivolse un sorriso divertito e un triste cenno di diniego. Mat rispose con una scrollata di spalle e col sorriso più innocente che riuscì a trovare. Anaiya continuò per la sua strada, sempre scuotendo la testa. Le guardie alle porte della Torre si limitarono a guardarlo.

Solo quando, attraversata l’ampia piazza, si ritrovò nelle vie della città, Mat fu finalmente invaso da un senso di sollievo. E di trionfo. “Se non puoi nascondere che cosa intendi fare” pensò “ti conviene agire in modo che tutti ti ritengano stupido; allora rimarranno ad aspettare di vederti cadere con la faccia per terra. Le Aes Sedai aspetteranno che le guardie mi riportino. Domattina, non vedendomi, inizieranno le ricerche. Con calma, all’inizio, perché crederanno che mi sia rintanato da qualche parte in città. Quando capiranno la verità, ormai il coniglio sarà a valle del fiume, ben lontano dai segugi."

Con cuore leggero, come da anni non ricordava, cominciò a canticchiare “Siamo di nuovo al di là della frontiera” e si diresse al porto, dove ci sarebbero stati vascelli diretti a Tear e ai villaggi lungo l’Erinin. Naturalmente non sarebbe andato fino a Tear: Aringill, dove sarebbe sbarcato per andare a Caemlyn, era solo a mezza strada.

Avrebbe consegnato la maledetta lettera. Che sfacciata, Elayne, a pensare che lui non avrebbe mantenuto promessa! Avrebbe consegnato la maledetta lettera anche a costo di lasciarci la pelle.

Il crepuscolo cominciava a ricoprire Tar Valon, ma c’era ancora luce sufficiente per mostrare i fantastici edifici e le torri dalla forma bizzarra, collegate da alti ponti che tagliavano l’aria sopra abissi d’un centinaio di passi. Le vie erano ancora affollate da gente con abiti di ogni foggia e colore, quasi fosse rappresentata ogni nazione. Lungo i viali più importanti, coppie di luminai muniti di scala a pioli accendevano lanterne poste in cima ad alti pali. Ma nelle zone di Tar Valon che Mat cercava, le uniche luci provenivano dalle finestre.

I grandi edifici e le torri di Tar Valon erano opera degli Ogier, ma altre costruzioni più recenti erano dovute alla mano dell’uomo. Più recenti significava, in alcuni casi, che risalivano a duemila anni prima. Nelle vicinanze del Porto Meridionale, l’uomo aveva cercato d’imitare, se non eguagliare, le fantastiche opere degli Ogier. Le locande, dove facevano baldoria gli equipaggi delle navi, avevano murature di pietra sufficienti a un palazzo. Statue in nicchie e cupole sui tetti, cornici riccamente ornate e fregi complessamente intagliati, decoravano botteghe di candelai e case di mercanti. Anche lì c’erano ponti, ma le vie erano acciottolate, non lastricate con grandi blocchi da pavimentazione, e molti cavalcavia erano di legno, non di pietra, a volte non più alti del primo piano degli edifici collegati e mai più alti del terzo.

Anche le vie buie ronzavano di vita. Mercanti sbarcati dal proprio vascello e acquirenti delle merci da loro trasportate, gente che viaggiava lungo l’Erinin e gente che vi lavorava, riempivano le taverne e la sala comune delle locande, in compagnia di chi cercava con mezzi leciti e illeciti il loro denaro. Musica stridula riempiva le vie, prodotta da strumenti che andavano dalla tarabusa al flauto, dall’arpa al dulcimero. Nella prima locanda in cui Mat entrò, erano in corso tre partite a dadi: uomini accosciati in cerchio accanto alle pareti della sala comune sottolineavano con grida i colpi perdenti e vincenti.

Prima di cercare una nave, Mat intendeva giocare solo per il tempo sufficiente a incrementare il contenuto della propria borsa, ma ebbe una fortuna incredibile. Per quanto ricordava, vinceva sempre più di quanto non perdesse, e certe volte, con Hurin e nello Shienar, aveva avuto serie favorevoli di sei, otto lanci di fila. Quella sera vinceva a ogni lancio.

Dalle occhiate che riceveva, fu lieto d’avere lasciato nella borsa i propri dadi. Quelle stesse occhiate gli suggerirono che era meglio cambiare locanda. Con sorpresa si rese conto d’avere adesso nella borsa quasi trenta marchi d’argento; però nessuno aveva perduto grosse somme, quindi i giocatori sarebbero stati contenti di vederlo andare via.

Solo un marinaio scuro e ricciuto (un Atha’an Miere, aveva detto qualcuno, e Mat si era domandato che cosa ci facesse da quelle parti, uno del Popolo del Mare) lo seguì nella via buia, protestando per avere la possibilità di rifarsi. Mat voleva andare ai moli (trenta marchi gli bastavano e avanzavano) ma il marinaio continuava a discutere e poi lui aveva giocato soltanto mezz’ora, così cedette e con l’altro entrò nella prima taverna che incontrarono.

Mat vinse ancora. Si sentiva come in preda alla febbre. Vinse a ogni lancio. Passò da taverna a taverna, senza fermarsi mai tanto da provocare l’ira dei giocatori in perdita. E continuò a vincere a ogni lancio. Da un cambiavalute cambiò argento in oro. Giocò a Corone, a Cinque e a Rovina della Fanciulla. Giocò giochi con cinque dadi, con quattro, con tre e perfino con due soli. Giocò giochi che non conosceva prima d’unirsi al cerchio di giocatori o di sedersi al tavolo. E vinse. A un certo punto della notte, il marinaio — Raab, aveva detto di chiamarsi — se ne andò barcollando, sfinito, ma con la borsa piena, perché si era messo a puntare su Mat. Quest’ultimo andò da un altro cambiavalute — o forse da un paio: la febbre pareva confondergli la mente — e tornò a giocare. Continuò a vincere.

Così si ritrovò, non sapeva quante ore dopo, in una taverna piena di fumo di tabacco — l’Unione Tremalking, gli pareva che si chiamasse — a fissare cinque dadi, ciascuno dei quali mostrava una corona. In quella taverna gli avventori parevano quasi tutti interessati solo a bere il più possibile, ma il rumore di dadi e le grida dei giocatori impegnati in un’altra partita nell’angolo più lontano erano quasi sommersi dalla voce di una donna che cantava una canzone dal ritmo veloce, martellando un dulcimero.

Ballerò con una ragazza dagli occhi castani

O con una dagli occhi verdi,

ballerò con ragazze dagli occhi d’ogni colore,

ma i tuoi sono i più belli che abbia mai visto.

Bacerò una ragazza dai capelli neri

o una dai capelli biondo oro,

bacerò ragazze dai capelli d’ogni colore

ma tu sei quella che voglio tenermi stretta.

La cantante aveva annunciato che la canzone s’intitolava “Le parole che lui mi disse". Mat ricordava il motivo, col titolo “Vuoi ballare con me” e con parole diverse, ma al momento riusciva a pensare solo ai dadi.

«Di nuovo il Re» borbottò uno dei giocatori accosciati accanto a Mat. Era la quinta volta di fila che Mat otteneva il Re, ossia cinque corone.

Aveva vinto la posta d’un marco d’oro e ormai neppure badava al fatto che il suo marco dell’Andor pesava più di quello di Illian dell’avversario; raccolse i dadi nel bussolotto di cuoio, li agitò con forza e li lanciò di nuovo sul pavimento. Cinque corone. Impossibile, si disse: nessuno aveva mai fatto il Re per sei volte di fila. Nessuno.

«La fortuna stessa del Tenebroso» ringhiò un altro, un bestione dai capelli scuri legati con un nastro nero, spalle larghe, cicatrici sul viso e naso fratturato più d’una volta.

Quasi senza accorgersene, Mat l’afferrò per il colletto, lo tirò in piedi, lo sbatté contro la parete. «Prova a ripeterlo!» gridò. L’uomo lo guardò, attonito: era di tutta la testa più alto di Mat.

«Solo un modo di dire» borbottò un terzo, dietro di lui. «Luce santa, è solo un modo di dire.»

Mat lasciò la giubba del bestione e arretrò. «Non... non mi piace che si dicano certe cose nei miei riguardi. Non sono Amico delle Tenebre!» Maledizione, la fortuna del Tenebroso! No! Cosa gli aveva fatto, quel pugnale maledetto?

«Nessuno ti accusa» brontolò il bestione. Passata la sorpresa, non aveva ancora deciso se arrabbiarsi o lasciar perdere.

Mat raccolse le sue cose e uscì dalla taverna, lasciando le monete lì dov’erano. Non che avesse paura del bestione: si era già dimenticato di lui e anche delle monete. Voleva soltanto stare all’aperto, all’aria fresca, per riflettere.

Nella via, si appoggiò al muro della taverna, poco lontano dalla porta, e respirò l’aria fresca. Ormai le vie buie del Porto Meridionale erano quasi deserte. Da locande e taverne giungevano ancora musica e risate, ma poca gente camminava nella notte. Reggendo davanti a sé il bastone, dritto e impugnato a due mani, Mat chinò la testa e cercò di esaminare da tutti i lati la faccenda.

Sapeva d’essere fortunato. Che ricordasse, al gioco aveva sempre avuto fortuna. Ma a Emond’s Field era molto meno fortunato di adesso. Be’, aveva avuto parecchia fortuna, senza dubbio, ma in certe occasioni gli erano andati male degli scherzi sulla cui riuscita avrebbe giurato. Pareva che sua madre sapesse sempre cosa stava per combinare e Nynaeve era in grado di vedere la verità dietro ogni mascheramento da lui escogitato. Ma la fortuna non gli era piovuta addosso appena aveva lasciato i Fiumi Gemelli: gli era venuta da quando, a Shadar Logoth, aveva preso quel pugnale. Una volta, al villaggio, aveva giocato a dadi con un tipo magrissimo, dagli occhi sfuggenti, che lavorava per un mercante giunto da Baerlon a comprare tabacco: ricordava ancora le cinghiate che aveva preso, quando suo padre aveva scoperto che Mat doveva a quell’uomo un marco d’argento e quattro centesimi.

«Ma ora mi sono liberato del maledetto pugnale» borbottò. «Le maledette Aes Sedai così hanno detto.» Si domandò quanto aveva vinto quella notte.

Controllò le tasche della giubba e le trovò piene di monete, corone e marchi, d’oro e d’argento, che scintillarono alla luce delle vicine finestre. Ora aveva due borse, scoprì, tutt’e due ben gonfie. Sciolse i legacci e vide altre monete d’oro. Altre ancora, nel borsello alla cintura, ricoprivano i bussolotti per i dadi e gualcivano la lettera di Elayne e il salvacondotto dell’Amyrlin Seat. Ricordò d’avere lanciato monetine d’argento alle cameriere, solo perché avevano un grazioso sorriso o begli occhi o belle caviglie, e perché non valeva la pena tenere monetine.

Non valeva la pena? Forse. Luce santa, era ricco! Era maledettamente ricco! Forse era la conseguenza della Guarigione a opera delle Aes Sedai. Forse era frutto del caso. Meglio questo, che non la fortuna del Tenebroso. Erano state di sicuro le maledette Aes Sedai.

Un omone uscì dalla taverna, ma la porta si chiuse subito e Mat non riuscì a guardarlo in faccia.

Si addossò al muro, rimise in tasca le borse e strinse il bastone. Quale che fosse l’origine della fortuna di quella sera, non intendeva perdere tutto l’oro a causa d’un ladrone.

L’uomo si girò verso Mat, lo scrutò e trasalì. «Fa fresco» disse, con voce impastata da ubriaco. Si avvicinò barcollando e Mat vide che gran parte della sua mole era grasso. «Devo... Devo...» Il grassone proseguì, inciampando e parlando a vanvera tra sé.

«Stupido!» borbottò Mat, senza sapere bene se si riferiva al grassone o a se stesso. «È tempo di trovare una nave che mi porti via di qui.» Scrutò il cielo e cercò di calcolare quanto mancava all’alba. Due, forse tre ore, pensò. Sentì brontolare lo stomaco; ricordò vagamente d’avere mangiato in alcune locande, ma non che cosa. Era stato preso per la gola dalla febbre del gioco. Infilò la mano nella sacca e trovò solo briciole. «Ho già tardato troppo. Corro il rischio che una di quelle venga a prendermi e a infilarmi nella sua borsa.» Si staccò dal muro e si diresse ai moli.

Sulle prime pensò che i deboli rumori alle sue spalle fossero l’eco dei propri stivali sull’acciottolato. Poi capì d’essere seguito, da qualcuno che cercava di non farsi scoprire. Be’, quelli erano di sicuro ladroni.

Soppesò il bastone e per un attimo considerò l’idea di girarsi e di affrontarli. Ma era buio, i ciottoli rendevano incerto l’appoggio e lui non sapeva quanti fossero i malviventi. E poi, solo perché se l’era cavata contro Gawyn e Galad, non era diventato un eroe delle storie.

Svoltò in una via laterale, più stretta e tortuosa, cercando di camminare in punta di piedi e velocemente al tempo stesso. Lì tutte le finestre erano buie e per la maggior parte chiuse da scuri. Mat era arrivato quasi alla fine della via, quando scorse un movimento più avanti, due uomini che scrutavano nel vicolo; e udì alle proprie spalle il rumore di passi lenti, leggero fruscio di stivali di cuoio sui ciottoli.

In un attimo si tuffò nell’angolo buio formato da un edificio che sporgeva più di quello contiguo. Per il momento, gli parve la soluzione migliore. Strinse nervosamente il bastone e aspettò.

Comparve un uomo, che avanzava acquattato, lentamente; poi un secondo. I due impugnavano coltellacci e si movevano a passi furtivi.

Mat si tese. Se si fossero avvicinati ancora di qualche passo prima di scoprire che si nascondeva nell’ombra dell’angolo, li avrebbe colti di sorpresa. Desiderò che lo stomaco smettesse di sfarfallargli. Quei coltelli erano molto più corti delle spade d’allenamento, ma erano di ferro, non di legno.

Uno dei due scrutò l’estremità del vicolo e all’improvviso si raddrizzò. «Non è venuto dalla vostra parte?» gridò.

«Ho visto solo buio» fu la risposta. «Non mi piace questa storia. Ci sono cose strane che si muovono stanotte.»

A meno di quattro passi da Mat, i due si scambiarono un’occhiata, rinfoderarono i coltelli e tornarono rapidamente sui propri passi.

Mat emise un lungo sospiro. Fortuna. Più ben spesa che ai dadi.

Ora non vedeva gli uomini all’imboccatura del vicolo, ma sapeva che si trovavano ancora da qualche parte nella via seguente. E ne aveva altri alle spalle.

Uno degli edifici contro cui era acquattato, in quel punto era alto un solo piano e pareva avere il tetto piatto. Un fregio di pietra bianca a forma di grossi pampini correva lungo la congiunzione.

Mat posò sul tetto l’estremità del bastone e diede una forte spinta, facendolo finire sulle tegole. Non aspettò di scoprire se qualcuno avesse udito il rumore: si arrampicò lungo il fregio, i cui bassorilievi fornivano facili appigli anche per chi calzava stivali, Nel giro di qualche secondo aveva ripreso il bastone e correva sul tetto, confidando nella fortuna per non mettere il piede in fallo.

Si arrampicò ancora tre volte, guadagnando un piano ogni volta. A quell’altezza i tetti poco inclinati si estendevano per una certa distanza; una brezza gelida gli solleticava la nuca e gli dava l’impressione d’essere seguito. Mat si disse di non fare lo stupido e di smetterla di pensare a eventuali inseguitori. Quelli, la sfortuna li colpisse, ormai erano a tre vie di distanza e cercavano qualcun altro con la borsa piena.

Scivolò sulle tegole e decise che sarebbe stata una buona idea pensare al modo di tornare in strada anche lui. Con prudenza si accostò al bordo del tetto e scrutò in basso. A una quarantina di piedi c’era una via deserta, con tre taverne e una locanda che riversavano sull’acciottolato musica e luce. Ma sulla destra c’era un ponte che portava dall’ultimo piano dell’edificio al tetto di quello dall’altra parte della via.

Il ponte pareva assai stretto e correva nel buio, non toccato dalle luci delle taverne: prometteva un bel volo sui ciottoli della via. Mat gettò avanti il bastone e si costrinse a seguirlo prima di riflettere troppo. Cadde con un tonfo di stivali sul ponte e si lasciò rotolare come faceva da bambino quando saltava giù dagli alberi. Si fermò contro il parapetto, alto poco più d’un braccio.

«Le brutte abitudini alla lunga pagano» si disse, mentre si rialzava e ricuperava il bastone.

La finestra dall’altra parte del ponte era ben chiusa e buia. Chiunque abitasse in quella casa di sicuro non avrebbe apprezzato la comparsa d’uno sconosciuto nel cuore della notte. Mat vide molta muratura in pietra, ma se c’erano appigli a portata del ponte, erano ben nascosti dalla notte. Bene, sconosciuto o no, sarebbe entrato.

Si scostò dal parapetto e all’improvviso si accorse che sul ponte c’era un uomo. Un uomo che stringeva un pugnale.

Il pugnale scattò contro la sua gola; Mat cercò di bloccare la mano dell’uomo e riuscì appena ad afferrargli il polso; poi incespicò nel bastone e ricadde contro il parapetto, tirandosi l’altro addosso. In equilibrio instabile sul fondo schiena, faccia a faccia col ringhio dell’assalitore, sì rese conto della caduta che gli si prospettava e della lama che si avvicinava sempre più alla sua gola, scintillando al debole chiarore della luna. Stava per perdere la presa sul polso dell’uomo e l’altra mano gli era rimasta stretta al bastone finito fra di loro. Solo qualche secondo era passato, da quando aveva visto l’uomo; e fra qualche secondo sarebbe morto con un coltello in gola.

«È tempo di lanciare i dadi» disse.

Per un istante l’altro parve sconcertato e Mat ne approfittò. Diede con le gambe una spinta e si gettò dal ponte insieme con l’assalitore.

Per un momento si sentì privo di peso. L’aria gli sibilò nelle orecchie e gli arruffò i capelli. Credette di udire l’urlo dell’altro. Per il colpo rimase senza fiato e vide confusamente puntini neri e argento.

Quando riuscì di nuovo a respirare, e a vedere, si rese conto di giacere sopra l’avversario, il cui corpo aveva ammortizzato la caduta. «Fortuna» mormorò. Lentamente si tirò in piedi e imprecò contro le ammaccature alle costole dovute al bastone.

Si era aspettato che l’assalitore fosse morto — nessuno poteva sopravvivere a una caduta di trenta piedi sui ciottoli, sopportando anche il peso di un’altra persona — ma non di vedere che il pugnale gli si era conficcato fino all’elsa nel cuore. Un uomo dall’aspetto tanto comune aveva tentato di ucciderlo. Mat non l’avrebbe neppure notato, in una stanza piena di gente.

«Hai avuto sfortuna, amico» disse, ancora scosso, rivolgendosi al cadavere.

All’improvviso ricordò tutta la sequenza d’avvenimenti. I ladroni nel vicolo. L’arrampicata sui tetti. Quel tizio. La caduta. Alzò gli occhi verso il ponte e fu scosso dai tremiti. Era stato davvero pazzo. Una piccola avventura andava bene, ma neppure Rogosh Occhio d’Aquila si sarebbe augurato un’avventura del genere.

Si rese conto d’avere davanti a sé un cadavere con un pugnale nel petto, in attesa solo che un passante corresse a chiamare le guardie con la Fiamma di Tar Valon. Forse, mostrando il salvacondotto, se la sarebbe cavata, ma non prima che le guardie informassero l’Amyrlin. Poteva ancora finire nella Torre Bianca, senza salvacondotto e forse senza permesso di allontanarsi dalla Torre.

A quest’ora doveva già essere sul primo vascello in partenza, fosse anche una tinozza fradicia, piena di pesce marcio; ma si sentiva ballare le ginocchia al punto da non riuscire a fare un passo. Voleva solo mettersi a sedere per un minuto. Un minuto solo, per stabilizzare le ginocchia, e poi si sarebbe diretto ai moli.

Scartò le taverne e si diresse alla locanda. La sala comune di una locanda era il luogo adatto per riposare un minuto senza pensare a chi poteva avvicinarsi di soppiatto alle spalle. Dalle finestre proveniva luce sufficiente a vedere l’insegna: una donna con le trecce e in mano un ramo d’ulivo: “La Donna di Tanchico".

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