1 Attesa

La Ruota del Tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda; la leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato, quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza — un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa — il vento si alzò nelle Montagne delle Nebbie. Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio né fine, al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.

Il vento spazzò lunghe valli, livide per la nebbia del mattino, alcune coperte di sempreverdi, alcune spoglie dove l’erba e fiori di campo sarebbero presto spuntati. Ululò fra rovine in parte sepolte e fra monumenti ridotti a macerie, dimenticati come coloro che li avevano costruiti. Gemette nei valichi, brecce erose dalle intemperie fra picchi incappucciati di nevi eterne. Dense nubi restavano incollate alle vette montane, tanto da sembrare un tutt’uno con le candide distese.

Nelle terre basse, l’inverno era passato o stava per passare; ma lì, sulle alture, durava ancora e ricopriva di chiazze bianche i fianchi delle montagne. Solo i sempreverdi mostravano foglie o aghi; i rami delle altre piante erano spogli, marrone o grigi contro la roccia o il terreno ancora in letargo. Non c’erano rumori, a parte il fruscio del vento su neve e pietra. La terra pareva in attesa. In attesa che qualcosa spuntasse.

In sella al cavallo, appena dentro un folto d’ericacee e di pini, Perrin Aybara rabbrividì e si strinse nel mantello foderato di pelliccia... per quanto gli era possibile, visto che in mano reggeva l’arco lungo e alla cintura portava la grande ascia dalla lama a mezzaluna. Era una buona ascia d’acciaio: quando mastro Luhhan l’aveva forgiata, Perrin stesso aveva azionato i mantici. Il vento gli tirò il mantello, gli scostò il cappuccio mettendo in mostra i ricci arruffati, gli penetrò nella giubba; Perrin piegò le dita dei piedi per scaldarli e cambiò posizione sulla sella dall’alto arcione posteriore, ma a dire il vero non pensava al freddo. Guardò i cinque compagni e si domandò se anche loro provassero la sua impressione: non l’impazienza dell’attesa per ciò che erano stati inviati ad aspettare, ma qualcosa di più.

Stepper, il suo cavallo, si mosse e agitò la testa. Perrin aveva dato quel nome al destriero dal mantello baio lupino per il modo in cui alzava gli zoccoli muovendosi velocemente; ora Stepper pareva percepire l’irritazione e l’impazienza del proprio cavaliere. “Sono stufo d’aspettare” pensò Perrin. “Di starmene seduto, mentre Moiraine ci tiene tutti impastoiati. Maledette Aes Sedai! Quando finirà?"

Istintivamente fiutò il vento. Vi prevaleva l’odore di cavallo, di persone, di sudore umano. Un coniglio aveva attraversato da poco il folto d’alberi, spinto dalla paura, ma la volpe che l’inseguiva non l’aveva ucciso li. Perrin si rese conto di ciò che faceva e si bloccò. “Credevo che tutto questo vento intasasse il naso” si disse. Quasi rimpianse che non fosse vero. “E non avrei permesso a Moiraine di curarmi."

In fondo alla mente sentì un solletico. Si rifiutò di riconoscerlo. Non ne parlò ai compagni.

Gli altri cinque erano in sella; tenevano pronto l’arco da cavaliere e scrutavano anche il cielo, oltre ai pendii coperti di radi alberi. Parevano indifferenti al vento che agitava come bandiere i mantelli. Da sopra la spalla di ciascuno, passando da un taglio praticato nel mantello, sporgeva l’elsa di una spada da impugnare a due mani. Nel vedere quelle teste scoperte, rasate a parte il ciuffo sulla cima, Perrin sentì più freddo. Per loro, quella era già primavera inoltrata. Avevano perduto ogni mollezza in una fucina più dura di quella da lui conosciuta. Quegli uomini erano shienaresi, provenivano dalle Marche di Confine lungo la Grande Macchia, dove in qualsiasi notte poteva verificarsi un’incursione di Trolloc, dove persino mercanti e contadini erano costretti a impugnare arco o spada. E loro non erano contadini, ma soldati quasi dalla nascita.

Perrin a volte si stupiva della deferenza che gli mostravano e di come l’avevano accettato quale capo. Pensavano, pareva, che lui avesse qualche diritto speciale, qualche conoscenza a loro nascosta. O forse, si disse ironicamente Perrin, il merito era tutto dei suoi amici. Quegli uomini non erano alti come lui, né altrettanto robusti — anni d’apprendistato come fabbro gli avevano dato braccia e spalle grosse il doppio del normale — ma lui aveva preso a radersi ogni giorno per porre termine alle loro battute sulla sua giovane età. Battute amichevoli, certo, ma pur sempre battute. Non voleva cercarsene altre, parlando loro della sensazione che provava adesso.

Con un sobbalzo ricordò a se stesso che in teoria anche lui doveva tenere gli occhi aperti. Controllò la freccia incoccata e intanto scrutò la valle che correva verso occidente, allargandosi man mano, striata di larghi e sinuosi nastri di neve, residuo dell’inverno. Laggiù gli sparsi alberi artigliavano ancora il cielo, con rami spogli; ma un certo numero di sempreverdi — pini ed ericacee, abeti e agrifogli, perfino alcuni altissimi larici — si alzava sui pendi e sul fondovalle, fornendo copertura a chi sapesse servirsene. Ma nessuno si sarebbe trovato da quelle parti, senza uno scopo ben preciso. Le miniere erano molto più a meridione, e ancora più a settentrione; molti ritenevano che nelle Montagne delle Nebbie si annidasse la sfortuna e pochi vi entravano, se potevano farne a meno. Gli occhi di Perrin luccicavano come oro brunito.

Il solletico divenne un prurito.

Avrebbe potuto accantonare il prurito, ma il senso d’attesa non sarebbe scomparso. Come se lui si fosse trovato a barcollare sull’orlo d’un precipizio. Come se ogni cosa barcollasse. Perrin si domandò se nelle montagne circostanti c’era qualcosa di spiacevole. Forse poteva scoprirlo: in luoghi come quello, dove gli uomini venivano di rado, quasi sempre c’erano lupi. Scacciò l’idea, prima che avesse tempo d’attecchire. Meglio non domandarsi niente, meglio lasciar stare i lupi. Non erano numerosi, ma avevano esploratori. Se lì intorno c’era qualcosa, l’avrebbero scoperto. Però quella era la sua fucina: se ne sarebbe occupato lui e avrebbe lasciato che i lupi si occupassero della loro.

Grazie alla vista più acuta degli altri, fu il primo a scorgere il cavaliere che giungeva dalla direzione del Tarabon. Persino ai suoi occhi, era soltanto una chiazza di vivaci colori a dorso di cavallo che procedeva tortuosamente fra gli alberi lontani, ora visibile, ora nascosta. Un cavallo pezzato, pensò Perrin. Era ora! Aprì la bocca per annunciare l’arrivo della donna a cavallo (sarebbe stata una donna, come quelle che l’avevano preceduta) quando Masema borbottò: «Corvo!» come se imprecasse.

Perrin alzò di scatto la testa. Un grosso uccello nero perlustrava il terreno, volando sopra la cima degli alberi, a meno di trecento piedi di distanza. Forse cercava una carogna nella neve o qualche piccolo animale, tuttavia Perrin non poteva correre il rischio. Pareva che il corvo non li avesse visti, ma fra breve avrebbe visto di sicuro il cavaliere in arrivo. Senza esitare, Perrin sollevò l’arco, lo tese — impennatura alla guancia, all’orecchio — e scagliò la freccia, il tutto in un unico, fluido movimento. Si accorse vagamente dello schiocco della corda, perché concentrava sull’uccello nero tutta l’attenzione.

All’improvviso, colpito dalla freccia, il corvo roteò su se stesso, fra uno schizzo di piume nere, e cadde verso terra, mentre altre due frecce saettavano nel punto dove si trovava fino all’attimo prima. Tendendo in parte l’arco, gli altri shienaresi frugarono il cielo per scoprire se il corvo avesse compagni.

«Deve fare rapporto, oppure... lui... vede ciò che vede il corvo?» disse piano Perrin. Non aveva avuto intenzione di farsi udire dagli altri, ma Ragan, lo shienarese più giovane, comunque di quasi dieci anni più anziano di lui, gli rispose, mentre incoccava una freccia.

«Deve fare rapporto. In genere, a un Mezzo Uomo.» Nelle Marche di Confine c’era un premio per l’uccisione dei corvi: nessuno osava presumere che un qualsiasi corvo fosse un semplice uccello. «Luce santa, se il Tenebroso vedesse con gli occhi dei corvi, saremmo morti ancora prima d’arrivare alle montagne.» Parlò con calma: per un soldato shienarese, era una faccenda di tutti i giorni.

Perrin rabbrividì, non per il freddo, e in fondo alla mente una parte di lui ringhiò una sfida all’ultimo sangue. Il Tenebroso si serviva spesso di corvi, di cornacchie e, nelle città, di ratti. Dalla faretra agganciata alla cintura, dove bilanciava l’ascia posta sull’altro fianco, Perrin prese un’altra freccia a punta larga.

«Sarà anche grosso come un randello» disse con ammirazione Ragan, guardando l’arco di Perrin «ma tira che è un piacere. Non vorrei scoprire di persona cosa può fare a un uomo in armatura.» Al momento, sotto la normale giubba, gli shienaresi portavano solo una leggera cotta di maglia, ma in genere combattevano indossando l’armatura, sia uomini, sia cavalli.

«Troppo lungo, da cavallo» brontolò Masema: la cicatrice triangolare sulla guancia scura rese più beffardo il suo sogghigno sprezzante. «Un buon pettorale fermerebbe anche una freccia a punta sottile, tranne che da brevissima distanza; e se sbagli il primo tiro, il tuo bersaglio ti sventra.»

«Il punto è proprio questo, Masema» replicò Ragan, un po’ più rilassato, poiché il cielo rimaneva sgombro. Di sicuro il corvo era stato da solo. «Con questo arco dei Fiumi Gemelli, non occorre avvicinarsi molto.»

Masema aprì bocca per ribattere.

«Tenete a freno la linguaccia, voi due!» intervenne, brusco, Huno. Con la lunga cicatrice sulla guancia sinistra e l’orbita vuota, aveva un viso duro anche per uno shienarese. Nell’autunno, durante il viaggio verso le montagne, si era comprato una toppa dipinta: un occhio perennemente corrucciato, d’un feroce color rosso, non faceva niente per rendere più facile affrontare il suo sguardo. «Se non riuscite a tenere la maledetta mente concentrata sul vostro maledetto compito, un turno di guardia extra stanotte vi farà passare la voglia di distrarvi.» Sotto il suo sguardo fisso, Ragan e Masema smisero di discutere. Huno rivolse ai due ancora un’occhiata torva, che svanì mentre lui si rivolgeva a Perrin. «Non vedi ancora niente?» domandò. Il tono era un po’ più stizzoso di quello che avrebbe usato nei riguardi di un comandante impostogli dal re dello Shienar o dal signore di Fal Dara, tuttavia dava la sensazione che Huno fosse pronto a fare qualsiasi cosa Perrin avesse suggerito.

Gli shienaresi sapevano quanto fosse acuta la vista di Perrin, ma parevano ritenerla dote normale, così come non davano peso al colore dei suoi occhi. Di lui sapevano ben poco, ma lo accettavano com’era. O come pensavano che fosse. Parevano accettare tutto e niente. Il mondo cambia, dicevano. Tutto gira sulle ruote del caso e del cambiamento. Se un uomo aveva occhi d’un colore che mai nessuno aveva avuto, cosa importava, ora?

«Arriva» rispose Perrin. «Ormai dovreste scorgerla. Laggiù.» Indicò il punto e Huno si sporse, aguzzando l’unico occhio. Alla fine annuì, poco convinto.

«Laggiù si muove qualche maledetta cosa» ammise. Altri annuirono e mormorarono. Huno li guardò in cagnesco e loro tornarono a scrutare il cielo e le montagne.

A un tratto Perrin capì il significato dei vivaci colori del lontano cavaliere. Una sottana verde vivo che sporgeva da un mantello rosso acceso. «Quella donna è dei Girovaghi» disse, sorpreso. Nessun altro indossava vestiti di colori così brillanti e bizzarramente assortiti.

Avevano aspettato e guidato nel cuore delle montagne donne d’ogni sorta: una mendicante coperta di stracci, che si era aperta a fatica la strada in una tormenta; una mercante che conduceva da sola una fila di cavalli da soma; una dama vestita di seta e di eleganti pellicce, con le redini del palafreno infiocchettate di nastri rossi e finiture dorate alla sella. La mendicante si era accomiatata con un borsello di monete d’argento... secondo Perrin, più di quanto potessero permettersi di dare; ma la dama aveva lasciato un borsello di monete d’oro, anche più pieno. Donne d’ogni condizione sociale, sempre da sole, provenienti dal Tarabon, dal Ghealdan, perfino dall’Amadicia. Ma lui non si era mai aspettato di vedere una donna Tuatha’an.

«Una maledetta Calderaia?» esclamò Huno. Gli altri fecero eco alla sua sorpresa.

Ragan scosse la testa. «Una Calderaia non s’immischierebbe in questa storia. O non è Calderaia, o non è quella che aspettiamo.»

«Calderai» ringhiò Masema. «Codardi buoni a nulla.»

Huno aguzzò l’occhio, fino a farlo sembrare punzone da maniscalco; con l’altro dipinto in rosso sulla toppa, aveva un aspetto brigantesco. «Codardi, Masema?» disse piano. «Se tu fossi una donna, avresti il coraggio di cavalcare fin quassù, da sola e disarmata?» Senza dubbio non avrebbe avuto armi, se era una Tuatha’an. Masema non replicò, ma la cicatrice sulla guancia divenne più sporgente e più livida.

«Maledizione, io non lo farei» disse Ragan. «E tu neppure,»

Masema. Masema si strattonò il mantello e scrutò con ostentazione il cielo. Huno sbuffò. «Voglia la Luce che quel maledetto mangiacarogne fosse da solo» brontolò.

Lentamente, la giumenta bianca e marrone s’avvicinava, scegliendo il percorso, sul terreno sgombro fra i larghi banchi di neve. Una volta la donna si fermò a scrutare qualcosa sul terreno, poi si tirò sulla testa il cappuccio e a colpi di tallone spinse al passo la cavalcatura. “Il corvo” pensò Perrin. “Smettila di guardarlo e vieni avanti, donna. Forse finalmente porti la parola che ci toglierà di qui. Se Moiraine non vuole tenerci qui fino a primavera. La Luce l’incenerisca!" Per un momento non fu sicuro se l’imprecazione era riferita all’Aes Sedai o alla Calderaia che pareva non avere alcuna fretta.

Se avesse mantenuto quella linea di marcia, la donna sarebbe transitata a una buona trentina di passi dal folto d’alberi. Con gli occhi fissi su dove la giumenta pezzata posava gli zoccoli, non lasciava capire se avesse visto la gente in attesa fra gli alberi.

Perrin diede un colpo di tallone al cavallo; il baio si lanciò avanti, sollevando schizzi di neve. Più indietro, Huno ordinò a bassa voce: «Andiamo!»

Stepper aveva già coperto metà della distanza, prima che la donna si accorgesse degli intrusi; allora fermò di colpo la giumenta e li guardò formare un semicerchio incentrato su di lei. Un ricamo d’un azzurro da fare male agli occhi, secondo il disegno detto “labirinto tairenese", rendeva ancora più vistoso il mantello rosso. La donna non era giovane, ma aveva sul viso poche rughe, oltre a quella di disapprovazione per le armi. Però non si mostrò allarmata per l’incontro con uomini armati nel cuore delle montagne desolate. Continuò a tenere le mani sul pomo della sella, assai usata ma ben tenuta. E non emanava l’odore della paura.

"Basta con questa storia!" si rimproverò Perrin. Cercò di rendere dolce il tono, per non spaventare la donna. «Mi chiamo Perrin» disse. «Se ti occorre aiuto, farò il possibile. Altrimenti, la Luce ti accompagni. Però, se i Tuatha’an non hanno cambiato sistema di vita, sei molto lontano dai tuoi carrozzoni.»

Prima di rispondere, la donna li esaminò per un momento. Aveva negli occhi una luce garbata, non sorprendente per una Girovaga. «Cerco un’... una donna» disse.

L’esitazione, per quanto breve, era stata chiara: non cercava una donna qualsiasi, ma un’Aes Sedai.

«Ha un nome?» domandò Perrin. Ripeteva una prassi già seguita troppe volte negli ultimi mesi, per avere bisogno della sua risposta... ma il ferro si rovina, se non lo si cura.

«Si chiama.., A volte si fa chiamare Moiraine. Io sono Leya.»

Perrin annuì. «Ti condurremo da lei, Leya. Abbiamo dei bei fuochi e, con un po’ di fortuna, del cibo caldo.» Ma non si mosse subito. «Come ci hai trovati?» domandò. Aveva già fatto la stessa domanda, ogni volta che Moiraine l’aveva mandato ad aspettare in un punto particolare l’arrivo d’una donna, da lei previsto. La risposta sarebbe stata identica alle precedenti, ma Perrin doveva fare la domanda.

Leya si strinse nelle spalle e rispose con una certa esitazione. «Sapevo... sapevo che, se fossi venuta da questa parte, qualcuno mi avrebbe trovato e condotto da lei. Lo sapevo... semplicemente. Ho notizie per lei.»

Perrin non domandò quali fossero. Le donne davano solo a Moiraine le informazioni che portavano.

E l’Aes Sedai avrebbe detto agli altri ciò che voleva, pensò Perrin. Le Aes Sedai non mentivano mai, ma si diceva che la verità rivelata da una di loro non sempre fosse la verità che ci si aspettava. Comunque, ormai era troppo tardi per dubbi e scrupoli.

«Da questa parte, Leya» disse Perrin. Indicò il pendio montano. Gli shienaresi, con Huno in testa, si accodarono a Perrin e a Leya che iniziavano la risalita. Gli uomini delle Marche di Confine scrutavano il cielo e il territorio; gli ultimi due prestavano particolare attenzione a eventuali segni d’inseguimento.

Per un poco cavalcarono in silenzio, a parte il rumore di zoccoli, a volte lo scricchiolio di neve vecchia, a volte l’acciottolio di qualche sasso sui tratti di terreno spoglio. Leya continuava a dare occhiate a Perrin, al lungo arco, all’ascia, al viso; ma non apriva bocca. Sotto questo esame, Perrin si sentiva a disagio ed evitava d’incrociare lo sguardo della donna. Cercava sempre, per quanto possibile, di non dare agli estranei la possibilità di notare il colore dei suoi occhi.

A un certo punto disse: «Sono rimasto sorpreso nel vedere una Girovaga, considerate le idee del tuo popolo.»

«Si può contrastare il male senza commettere violenza» rispose Leya, con la semplicità di chi dichiara l’ovvio.

Perrin replicò con un brontolio agro, ma subito si scusò. «Fosse davvero come dici!»

«La violenza danneggia tanto il colpevole quanto la vittima» commentò serenamente Leya. «Per questo fuggiamo da coloro che ci fanno male: per salvarli dal danneggiare se stessi, oltre che per la nostra sicurezza. Se reagissimo con la violenza, diventeremmo come loro. Noi combattiamo l’Ombra, ma con la forza della nostra fede.»

Perrin non riuscì a trattenersi. «Ti auguro di non affrontare mai i Trolloc solo con la forza della fede» sbuffò. «La forza delle loro spade ti farà a pezzi.»

«Meglio morire, che...» iniziò lei. Ma per l’ira Perrin la interruppe: un’ira che lei non avrebbe mai capito... ira perché lei sarebbe davvero morta, piuttosto che ferire qualcuno, non importa quanto malvagio.

«Se scappi» disse «ti daranno la caccia e ti uccideranno e si ciberanno del tuo cadavere. E forse non aspetteranno che tu sia cadavere! Comunque, tu sarai morta e il male avrà trionfato. Inoltre, esistono uomini altrettanto crudeli. Amici delle Tenebre... e altri: più di quanti non avrei immaginato, fino a un anno fa. Aspetta che i Manti Bianchi decidano che voi Girovaghi non camminate nella Luce e vedrai quanti saranno tenuti in vita dalla forza della vostra fede!»

Leya gli scoccò un’occhiata penetrante. «Eppure tu non sei felice, malgrado le armi.»

Come faceva a saperlo? Perrin scosse la testa, irritato. «Il Creatore ha fatto il mondo» brontolò. «Non l’ho fatto io. Devo vivere meglio che posso nel mondo così com’è.»

«Quanta amarezza in una persona così giovane!» commentò piano lei. «Perché tanta tristezza?»

«Dovrei tenere gli occhi aperti, non chiacchierare» replicò Perrin, brusco. «Non mi ringrazieresti, se ti facessi fare una brutta fine.»

Spinse avanti Stepper quanto bastava a evitare altre conversazioni, ma continuò a sentire il suo sguardo. E sentì di nuovo il prurito alla nuca; ma, concentrato nell’ignorare lo sguardo di Leya, mise da parte anche questa sensazione.

Risalirono e scesero il pendio, attraversarono una valle alberata sul cui fondo scorreva un gelido torrente dove i cavalli affondavano fino al ginocchio. In lontananza, il fianco d’una montagna era stato scolpito a forma di due torreggianti figure. Forse un uomo e una donna, pensava Perrin, anche se da lungo tempo vento e pioggia avevano reso incerti i contorni. Perfino Moiraine sosteneva di non sapere chi rappresentavano, né quando erano state scolpite nel granito.

Spinarelli e piccole trote guizzavano lontano dagli zoccoli dei cavalli, lampi argentei nell’acqua chiara. Un cervo alzò la testa dai ciuffi d’erba, esitò nel vedere il gruppo che guadava il torrente, poi si rifugiò a balzi fra gli alberi; un grosso gatto di montagna, dal pelame a strisce grigie e macchie nere, parve sbucare dal terreno, frustrato per l’appostamento fallito: per un attimo guardò i cavalli, con la coda sferzò l’aria e sparì sulle tracce del cervo. Ma fra le montagne non si vedeva ancora molta vita animale. Solo una manciata di uccelli era appollaiata sui rami o becchettava il terreno dove la neve si era già sciolta. Ma nel giro di qualche settimana, altri sarebbero tornati fra le vette. Non comparvero corvi.

Ormai era tardo pomeriggio, quando Perrin guidò il gruppetto nel passo fra due ripide montagne dalla cima innevata, ammantata di nubi, e risalì un piccolo torrente che scorreva su sassi grigi in una serie di cascatelle. Fra gli alberi un uccello lanciò il suo richiamo e un altro, più avanti, gli rispose.

Perrin sorrise: il richiamo dei fringuelli azzurri, tipici delle Marche di Confine. Nessuno cavalcava da quelle parti senza che occhi acuti lo scorgessero. Si strofinò il naso e non guardò verso l’albero da cui era giunto il richiamo del primo “fringuello".

La pista divenne più stretta, mentre cavalcavano fra ericacee stente e qualche quercia nodosa. Il terreno, abbastanza piano da permettere di cavalcare lungo il torrente, divenne tanto stretto da consentire appena il passaggio e il corso d’acqua si assottigliò tanto che lo si sarebbe potuto scavalcare con un passo.

Perrin udì che Leya, più indietro, mormorava tra sé. Girò la testa a guardarla: la donna lanciava occhiate agli erti pendii della gola. In alto c’erano alberi sparsi, abbarbicati precariamente: pareva impossibile che non cadessero da un momento all’altro. Gli shienaresi cavalcavano tranquillamente e infine cominciavano a sorridere e a rilassarsi.

All’improvviso davanti al gruppo si aprì una profonda conca ovale, dalle pareti erte ma non quanto quelle della stretta gola. Il torrente sgorgava da una piccola sorgente in fondo alla conca. Grazie alla vista acutissima, Perrin scorse un uomo col ciuffo degli shienaresi, appollaiato fra i rami d’una quercia sulla sinistra. Fosse risuonato un richiamo d’alarossa, anziché di fringuello azzurro, l’uomo non sarebbe stato da solo e l’ingresso della conca non si sarebbe rivelato così facile. Un pugno d’uomini poteva tenere quel passo contro un esercito... e se fosse giunto un esercito, un pugno d’uomini avrebbe dovuto tenerlo.

Fra gli alberi intorno alla conca c’erano baracche di tronchi, non subito visibili, per cui le persone radunate intorno ai fuochi in fondo parevano sulle prime prive di riparo. In vista ce n’era una decina. E non molti di più erano fuori vista, Perrin lo sapeva. Parecchi girarono la testa al rumore di cavalli e alcuni salutarono con la mano. La conca era piena dell’odore di uomini e di cavalli, di cibo in cottura e di legna bruciata. Accanto ai fuochi, da un alto palo penzolava un lungo stendardo bianco. Una figura alta almeno una volta e mezzo un uomo normale sedeva su di un ceppo, immersa nella lettura di un libro che pareva minuscolo fra le sue mani enormi. La figura non si distrasse neppure quando l’unica persona senza il ciuffo sul cranio rasato gridò: «L’avete trovata, vero? Pensavo che sareste tornati a notte, stavolta.» La voce era femminile, giovane; ma la ragazza indossava giubba e brache da uomo e portava capelli tagliati corti.

Una raffica di vento turbinò nella conca, fece svolazzare i mantelli e dispiegò lo stendardo. Per un attimo la creatura che vi era raffigurata parve cavalcare il vento. Un serpente a quattro zampe, dalle scaglie dorate e azzurre, dalla leonina criniera d’oro, con cinque artigli dalla punta dorata all’estremità d’ogni zampa. Uno stendardo leggendario. Uno stendardo che molti non avrebbero riconosciuto, vedendolo; ma che avrebbero temuto, se avessero saputo a chi apparteneva.

Perrin mosse la mano a indicare tutta la conca. «Benvenuta nel campo del Drago Rinato, Leya» disse.

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