I tetti di Tear non erano, di notte, il posto adatto a una persona ragionevole, si disse Mat, scrutando fra le ombre gettate dalla luna. Poco più di cinquanta passi d’ampia via, o forse di stretta piazza, separavano dalla Pietra il tetto di tegole su cui lui si trovava, a tre piani dal terreno lastricato. “Ma quando mai sono stato ragionevole?" pensò. “Le uniche persone sempre ragionevoli da me conosciute erano così noiose da far venire sonno." Via o piazza, dal calar della sera l’aveva percorsa: girava tutt’intorno alla Pietra, tranne nel tratto dove l’Erinin scorreva ai piedi della rocca, ed era interrotta solo dalle mura della città. Queste mura si trovavano a due sole case di distanza, alla sua destra. Per il momento, la cima delle mura pareva la migliore via d’accesso alla Pietra, ma non una via che gli piacesse troppo imboccare.
Mat prese il bastone dalla punta ferrata e una piccola scatola di latta con manici di fil di ferro; poi si accostò con prudenza a un comignolo di mattoni, più vicino alle mura. Il rotolo di fuochi d’artificio (meglio, quello che era stato un rotolo, prima che lui ci lavorasse, in camera) si spostò, sulla sua schiena: adesso era un fagotto, compresso per occupare il minor spazio possibile, ma ancora troppo grosso da portare al buio su per i tetti. Poco prima, uno scivolone causato proprio dal fagotto gli aveva fatto scalzare una tegola, caduta oltre il bordo, e aveva svegliato l’uomo che dormiva in una stanza sottostante, che aveva gridato: “Al ladro!" facendolo scappare di corsa. Mat rimise a posto il fagotto, senza pensarci, e si acquattò nell’ombra del comignolo. Dopo un momento posò la scatola di latta: il manico di fil di ferro era diventato fastidiosamente caldo.
Studiare dall’ombra la Pietra pareva un po’ più sicuro, ma non molto più incoraggiante. Le mura della città erano molto meno massicce di quelle di Caemlyn o di Tar Valon: larghe solo un passo, sostenute da grandi contrafforti di pietra al momento ammantati di buio. La larghezza era più che sufficiente per camminare in cima alle mura, ma ai lati c’era uno strapiombo di dieci braccia, nel buio, fino al lastricato. Tuttavia qualche casa era addossata alle mura e lui poteva salirci facilmente. Le mura correvano dritto alla maledetta Pietra.
Si arrampicò sulle mura, ma non trovò particolare conforto. I fianchi della Pietra parevano precipizi. Guardandoli meglio, si disse che poteva scalarli: come le pareti a picco delle Montagne delle Nebbie. Il primo spalto merlato era almeno cento passi più in alto. Più in basso c’erano di sicuro feritoie per gli arcieri, ma nel buio non si scorgevano. Comunque, non sarebbe riuscito a infilarsi in una feritoia. Cento maledetti passi. Forse centoventi. Nemmeno Rand avrebbe tentato una simile scalata. Ma non aveva trovato altre vie per entrare. Ogni porta era sbarrata e pareva abbastanza robusta da fermare una mandria di tori, senza contare i soldati di guardia, con elmo, armatura e spada alla cintola.
A un tratto batté le palpebre e socchiuse gli occhi, scrutando il fianco della pietra: un pazzo la scalava, appena visibile come ombra in movimento nel chiaro di luna; era già a metà salita. “Un pazzo?" si disse. “Be’, io sono altrettanto pazzo, perché la scalerò anch’io. Maledizione, quello lì si farà scoprire e farà catturare anche me." Non lo scorgeva più. “Luce santa, chi sarà? Ma cosa importa chi è? Maledizione, che modo improbo di vincere una scommessa. Pretenderò un bacio da tutte, Nynaeve compresa!"
Cambiò posizione per scrutare verso il muro e scegliere il punto da cui iniziare la scalata: all’improvviso si trovò una lama contro la gola. Senza riflettere, la scostò e con un colpo di bastone fece mancare i piedi all’assalitore. Un secondo, con un calcio giocò a lui lo stesso scherzo e Mat finì quasi addosso all’uomo che aveva fatto cadere. Rotolò sulle tegole del tetto, perdette il fagotto di fuochi d’artificio ("Se cade nella strada, torco il collo a tutti!") ma roteò il bastone; sentì che colpiva un corpo e per la seconda volta udì un gemito soffocato. Poi si ritrovò con due lame alla gola.
Rimase immobile, a braccia larghe. La punta di due corte lance, annerita in modo da non riflettere la luce della luna, gli premeva la pelle quasi al punto da cavare sangue. Con gli occhi Mat seguì le lance fino al viso di chi le impugnava, ma i due avevano la testa coperta ed erano velati di nero, a parte gli occhi, che lo fissavano. Maledizione, si era imbattuto in ladri veri! Che fine aveva fatto, la sua fortuna?
Inalberò un sorriso tutto denti, perché risultasse visibile al chiaro di luna. «Non intendevo infastidirvi nel lavoro» disse. «Se mi lasciate andare per i fatti miei, dimenticherò d’avervi visti.» Gli uomini velati non si mossero, le lance nemmeno. «Anch’io, come voi, non voglio trambusto. Non vi tradirò.» Quelli rimasero immobili come statue e continuarono a fissarlo. Maledizione, non aveva tempo per questa storia: era il momento di lanciare i dadi. Serrò la presa sul bastone, che gli giaceva accanto... e quasi mandò un grido: qualcuno gli bloccò col piede il polso.
Mat girò gli occhi per vedere chi era. Idiota, si era scordato di quello su cui era caduto! Ma vide un’altra sagoma muoversi dietro quella che gli bloccava il polso e si disse che forse era stato un bene, non usare il bastone.
Aveva sul polso uno stivale allacciato al ginocchio, che gli ricordò qualcosa. Un uomo incontrato fra le montagne. Scrutò dal basso in alto la sagoma ammantata di buio e cercò di distinguere il taglio e il colore delle vesti: parevano tutt’uno con le ombre, colori che si fondevano troppo bene con l’oscurità perché fosse possibile distinguerli; vide un coltello dalla lunga lama, in pugno allo sconosciuto, e un velo scuro sul viso. Un viso velato di nero. Velato di nero.
«Aiel!» esclamò. «Maledizione, cosa ci fanno, qui, dei maledetti Aiel?» Sentì una contrazione alle viscere: a quanto si diceva, gli Aiel si velavano solo quando uccidevano.
«Sì» disse una voce maschile «siamo Aiel.» Mat trasalì: non si era reso conto d’avere parlato a voce alta.
«Danzi bene, per uno che è stato colto di sorpresa» disse una giovane voce femminile, che Mat attribuì alla sagoma che gli bloccava il polso. «Forse un altro giorno avrò tempo di danzare con te nella maniera corretta.»
Mat iniziò a sorridere ("Se vuole danzare” pensò “significa che almeno non mi uccideranno!") ma corrugò invece la fronte. Gli pareva di ricordare che a volte gli Aiel davano alle parole un significato diverso dal suo.
Gli Aiel allontanarono le lance e lo tirarono in piedi. Mat li scostò e si diede una ripulita, come se si trovasse in una sala di locanda e non sopra un tetto, di notte, con quattro Aiel. Era sempre vantaggioso far sapere agli avversari d’avere nervi saldi. Gli Aiel portavano alla cintura faretre, oltre ai coltelli, e sulla schiena, insieme con l’arco racchiuso nell’astuccio, altre corte lance, la cui lunga punta sporgeva sopra le spalle. Mat si scoprì a canticchiare a bocca chiusa: “Sono in fondo al pozzo” e si bloccò.
«Cosa fai qui?» domandò la voce maschile. A causa del velo, Mat non capì bene quale dei quattro avesse parlato; ma la voce pareva quella di un uomo anziano, fiducioso di sé, avvezzo a comandare. Ritenne tuttavia d’avere identificato la donna: era l’unica più bassa di lui, ma non di molto. Gli altri lo superavano di una testa e anche più.
«Ti abbiamo tenuto d’occhio per un poco» continuò l’Aiel anziano. «Ti abbiamo guardato osservare la Pietra. L’hai esaminata da tutti i lati. Perché?»
«Potrei domandare la stessa cosa a tutti voi» disse un’altra voce. Mat fu l’unico a trasalire, mentre un uomo dalle ampie brache usciva dalle ombre. Pareva scalzo, per avere un appoggio migliore sulle tegole. «M’aspettavo di trovare ladri, non Aiel» continuò l’uomo. «Ma non crediate che il vostro numero m’impressioni.» Mosse rapidamente un bastone alto quanto lui, che sibilò nel ruotare. «Mi chiamo Juilin Sandar, sono un acchiappaladri e vorrei sapere perché state qui sui tetti a guardare la Pietra.»
Mat scosse la testa. Quanta gente era sui tetti, quella notte? Mancava soltanto che comparisse Thom e suonasse l’arpa, oppure che qualcuno chiedesse dov’era una locanda. Un maledetto prendiladri! Si domandò perché mai gli Aiel si limitassero a stare lì fermi.
«Ti muovi bene di nascosto, per essere un uomo di città» disse l’Aiel più anziano. «Ma perché ci segui? Non abbiamo rubato niente. Perché anche tu stanotte hai tenuto d’occhio la Pietra?»
Anche al chiaro di luna, fu evidente la sorpresa di Sandar, che sobbalzò, aprì bocca... e la richiuse, mentre altri quattro Aiel sbucavano dalle ombre alle sue spalle. Con un sospiro si appoggiò al sottile bastone. «A quanto pare, anch’io sono stato colto di sorpresa» borbottò. «Perciò tocca a me, rispondere alle vostre domande.» Scrutò la Pietra, scosse la testa. «Ieri... ho fatto una cosa che... che mi ha turbato.» Pareva parlare tra sé, cercare una spiegazione. «Una parte di me diceva che era giusto, che dovevo ubbidire. Certo, pareva giusto, al momento. Ma una vocina mi dice che... che ho tradito qualcosa. Sono sicuro che la vocina si sbaglia, ed è fievole, ma non vuole smettere.» Smise lui, scuotendo di nuovo la testa.
Un Aiel annuì: dalla voce, era il più anziano. «Sono Rhuarc della setta Nove Valli degli Aiel Taardad. Un tempo ero Aethan Dor, uno Scudo Rosso. A volte gli Scudi Rossi hanno mansioni analoghe ai vostri acchiappaladri. Lo dico perché così capisci che so cosa fai e che tipo d’uomo devi essere. Non voglio farti del male, Juilin Sandar degli acchiappaladri, né a te né alla gente della tua città, ma non posso permettere che tu dia l’allarme.. Se starai in silenzio, vivrai; in caso contrario, morirai.»
«Non intendete fare danno alla città» disse lentamente Sandar. «Perché siete qui, allora?»
«La Pietra» rispose Rhuarc. Dal tono fu chiaro che non avrebbe detto altro.
Dopo un momento Sandar annuì. «Quasi quasi mi piacerebbe che tu avessi il potere di danneggiare la Pietra, Rhuarc» borbottò. «Non darò l’allarme.»
Rhuarc si rivolse a Mat. «E tu, giovincello senza nome? Mi dirai ora perché guardavi con tanta attenzione la Pietra?»
«Facevo solo una passeggiata al chiaro di luna» rispose Mat, in tono leggero. La donna gli puntò alla gola la lancia e Mat tentò di non deglutire. Be’, poteva dire loro qualcosa. Non doveva mostrarsi scosso: così si perde anche un eventuale piccolo vantaggio. Con cautela, usando due dita, spostò la punta di lancia. Credette che la ragazza ridesse sottovoce. «Alcuni miei amici sono là dentro» disse, sforzandosi di mantenere un tono distaccato. «Prigionieri. Voglio portarli fuori.»
«Da solo, senzanome?» replicò Rhuarc.
«Be’, pare che non ci sia nessun altro» ribatté Mat, ironico. «A meno che non vogliate aiutarmi voi. Anche tu sembri interessato alla Pietra. Se vuoi entrare, potremmo andare insieme. È un lancio di dadi tutt’altro che facile, da qualsiasi parte lo si guardi; ma sono in periodo di vena.» “Per il momento, comunque” pensò. “Mi sono imbattuto in Aiel velati e ho ancora la pelle intatta: come fortuna, è già notevole. Maledizione, non sarebbe male avere il sostegno di alcuni Aiel, là dentro." «Potresti fare di peggio che scommettere sulla mia fortuna.»
«Non siamo qui per liberare prigionieri, giocatore» disse Rhuarc.
«È ora, Rhuarc.» Mat non distinse quale Aiel avesse parlato, ma Rhuarc annuì.
«Sì, Gaul» rispose. Guardò da Mat a Sandar e viceversa. «Non lanciate l’allarme.» Si girò e in due passi si confuse con le ombre.
Mat trasalì. Anche gli altri Aiel erano scomparsi, lasciandolo da solo col prendiladri. Se qualcuno non era rimasto a sorvegliarli. «Mi auguro che neppure tu tenti di fermarmi» disse a Sandar. Si rimise sulla schiena il fagotto di fuochi d’artificio e ricuperò il bastone. «Intendo entrare, con o senza il tuo consenso, in un modo o nell’altro.» Si accostò al comignolo per riprendere la scatola di latta: ora il manico scottava.
«Questi tuoi amici» disse Sandar «sono tre donne?»
Mat corrugò la fronte e rimpianse che la luce non gli permettesse di vederlo chiaramente in viso: Sandar aveva parlato con tono bizzarro. «Cosa ne sai, di tre donne?»
«So che sono dentro la Pietra. E conosco una porticina nei pressi del fiume, dalla quale un acchiappaladri con un prigioniero da portare in cella può entrare. Loro saranno di sicuro nelle celle. Se ti fidi di me, giocatore, possiamo arrivare fin lì. Il seguito è in grembo alla sorte. Forse la tua fortuna ci farà uscire vivi.»
«Sono sempre stato fortunato» disse lentamente Mat. Si sentiva abbastanza fortunato da fidarsi di Sandar? L’idea di fingersi prigioniero non gli garbava molto: era troppo facile che la finzione diventasse realtà. Ma c’erano più o meno gli stessi rischi, a scalare nel buio trecento piedi di parete a picco.
Guardò le mura della città: alcune ombre si muovevano, sagome confuse che di certo erano Aiel. Sicuramente più di cento. Le sagome svanirono; ma ora lui distingueva ombre in movimento lungo la parete a picco che formava il fianco della Pietra di Tear. Quella via era ormai da scartare. Forse il primo Aiel era riuscito a entrare senza provocare allarmi, ma cento e più Aiel sarebbero stati come rintocchi di campana. Tuttavia, forse avrebbero fornito un diversivo. Se provocavano trambusto da qualche parte, all’interno della Pietra, chi sorvegliava le celle non avrebbe badato troppo a un prendiladri che portava in guardina un prigioniero.
E lui poteva aumentare il trambusto: aveva lavorato con impegno ai preparativi.
«E va bene, prendiladri» disse. «Ma non decidere all’ultimo momento che sono un vero prigioniero. Andremo alla porticina non appena avrò scosso un poco il formicaio.» Ritenne che Sandar avesse corrugato la fronte, ma non intendeva dare spiegazioni.
Sandar lo seguì per i tetti, arrampicandosi con la stessa facilità di Mat. L’ultimo tetto era poco più in basso della sommità delle mura e vi si appoggiava: questione di tirarsi su, anziché scalare.
«Cosa fai?» bisbigliò Sandar.
«Aspettami qui.»
Con la scatola di latta in una mano e il bastone in orizzontale davanti a sé, Mat inspirò a fondo e si diresse alla Pietra. Cercò di non pensare quanto fosse lontano il lastrico, sotto di lui: Luce santa, il maledetto muro era largo ben tre piedi! Poteva percorrerlo bendato e addormentato! Cercò anche di non pensare all’eventualità che al ritorno Sandar non fosse lì ad aspettarlo. Ormai era deciso a mettere in atto la folle idea d’essere un ladro colto in flagrante, ma riteneva assai probabile di scoprire al ritorno che Sandar se n’era andato, forse a chiamare altri per catturarlo sul serio. S’impose di non pensarci e di dedicarsi al lavoro. Almeno avrebbe finalmente visto l’effetto!
Come sospettava, proprio al termine del muro, nella parete della Pietra c’era una feritoia, un profondo cuneo intagliato nella roccia, un’alta e stretta apertura per consentire a un arciere di scagliare frecce. In caso d’attacco, i soldati all’interno dovevano fermare chiunque volesse seguire quella via. Al momento, la feritoia era buia. A quanto pareva, nessuno la sorvegliava. Mat aveva cercato di non pensare anche all’eventuale presenza di sentinelle.
Posò in fretta ai propri piedi la scatola di latta, bilanciò il bastone di traverso sul muro contro il fianco della Pietra, si tolse dalle spalle il fagotto. Lo infilò nella feritoia, il più lontano possibile: voleva che la maggior parte del rumore fosse all’interno. Scostò un angolo del rivestimento di tela cerata e lasciò uscire delle micce annodate. Dopo un po’ di riflessione in camera sua, aveva tagliato le micce più lunghe, in modo che fossero uguali a quelle più corte e aveva utilizzato i pezzi di scarto per legarle in un fascio. Era convinto che i fuochi sarebbero esplosi tutti insieme e avrebbero richiamato chiunque non fosse del tutto sordo.
Il coperchio della scatola era tanto caldo che fu costretto a soffiarsi sulle dita due volte, prima di riuscire ad aprirlo (rimpianse di non possedere il trucco di Aludra per accendere facilmente le lanterne) ed esporre il pezzetto di carbonella conservato all’interno, su di un letto di sabbia. Utilizzò come pinza il manico di fil di ferro e con qualche soffio attizzò il pezzetto di carbone. Accostò alle micce la brace ardente e lasciò cadere pinza e carboncino; mentre le micce sibilavano e prendevano fuoco, ricuperò in fretta il bastone e corse lungo il muro.
"Che pazzia” pensò, correndo. “Me ne frego di quanto sarà grande lo scoppio. Posso rompermi l’osso del collo, se metto un piede in fallo!"
Il rombo alle sue spalle fu il boato più intenso che avesse mai udito; un pugno mostruoso lo colpì alla schiena e gli tolse il fiato, ancora prima che lui atterrasse di pancia in cima al muro, reggendo a stento al bastone che dondolava oltre il bordo. Per un istante rimase disteso e cercò di rimettere in funzione i polmoni, di non pensare d’avere sfruttato stavolta tutta la sua fortuna nel non cadere giù dal muro. Le orecchie gli risonavano come le campane di Tar Valon.
Si rialzò cautamente e guardò verso la Pietra. Una nube di fumo era sospesa intorno alla feritoia. Dietro il fumo, i contorni confusi della feritoia parevano diversi da prima. Più larghi. Mat non capiva come né perché, ma la feritoia pareva più ampia.
Rifletté solo un momento. Da un lato del muro forse Sandar lo aspettava per portarlo nella Pietra come finto prigioniero... o forse già tornava con una squadra di soldati. Dall’altro lato, invece, forse c’era una via d’ingresso, senza il rischio che Sandar lo tradisse. Tornò di corsa sui propri passi, senza più preoccuparsi del buio né del precipizio ai lati.
La feritoia era davvero più larga: gran parte della pietra più sottile al centro era semplicemente svanita, lasciando un rozzo foro, come se qualcuno vi avesse battuto un maglio per ore. Un foro sufficiente al passaggio di una persona. Com’era possibile? Non aveva tempo per stupirsi.
Si spinse nell’apertura frastagliata, tossendo per il fumo acre; balzò a terra e corse per dieci passi, prima che comparissero i Difensori della Pietra, dieci almeno, in una confusione di grida. Quasi tutti indossavano solo la camicia, nessuno aveva elmo e corazza. Alcuni portavano lanterne, altri impugnavano la spada.
"Idiota!" gridò dentro di sé. “Proprio per questo hai fatto scoppiare quei maledetti fuochi! Idiota accecato dalla Luce!"
Non aveva tempo di tornare sul muro. Roteando il bastone, si lanciò contro i soldati, prima d’essere scorto; colpì teste, spade, ginocchia, pur sapendo che i soldati erano troppi per uno solo, pur sapendo che questo stupido lancio di dadi era costato a Egwene e alle altre le loro esigue probabilità di salvezza.
All’improvviso, nella luce delle lanterne lasciate cadere dagli uomini che cercavano d’impugnare la spada, Sandar fu al suo fianco, mulinando il suo sottile bastone con rapidità anche maggiore di lui. Presi fra due avversari, colti di sorpresa, i soldati caddero come birilli in un gioco di bocce.
Sandar li guardò, scosse la testa. «Difensori della Pietra» disse. «Ho assalito dei Difensori! Avranno la mia testa, per... Cos’hai combinato, giocatore? Quel lampo di luce, quel tuono, la roccia sgretolata. Hai chiamato il fulmine?» Ridusse la voce a un bisbiglio. «Mi sono messo con uno in grado d’incanalare il Potere?»
«Fuochi d’artificio» rispose seccamente Mat. Aveva ancora un ronzio nelle orecchie, ma udiva l’avvicinarsi di passi in corsa, il rumore di stivali sulla pietra. «Le celle, amico! Mostrami dove sono le celle, prima che ne giungano altri!»
Sandar si scosse. «Da questa parte!» S’infilò di corsa in un corridoio laterale. «Dobbiamo affrettarci! Ci uccideranno, se ci scoprono!» Da qualche parte, in alto, i gong iniziarono a suonare l’allarme e molti altri echeggiarono nella Pietra.
"Arrivo” pensò Mat, correndo dietro l’acchiappaladri. “Vi porterò fuori o ci lascerò la pelle! Lo giuro!"
I gong d’allarme mandarono echi a schiantarsi nella Pietra, ma Rand non prestò loro più attenzione di quella che aveva dedicato al rombo precedente, simile a tuono soffocato proveniente dal basso. Il fianco gli doleva, la vecchia ferita gli bruciava e aveva rischiato di riaprirsi per la scalata lungo il fianco della rocca. Lui non badò nemmeno al dolore. Aveva in faccia un sorriso fisso, storto, un sorriso d’anticipazione e di terrore che non avrebbe saputo cancellare neppure se avesse voluto. Era vicino, adesso. L’oggetto che aveva sognato. Callandor.
"Così finalmente sarà finita” pensò. “In un modo o nell’altro, sarà finita. Il sogno terminerà. L’adescamento, l’irrisione e la caccia. Finirà tutto!"
Ridendo fra sé, percorse in fretta i corridoi bui della Pietra di Tear.
Egwene si toccò il viso e trasalì. Aveva in bocca un sapore amaro ed era assetata. “Rand?" pensò. “Cosa? Perché nel sogno c’era anche Mat, che gridava «Arrivo!»?"
Aprì gli occhi, fissò le grigie pareti di roccia e l’unica torcia fumosa che lanciava tremule ombre. Ricordò tutto e mandò un grido. «No! Non mi lascerò incatenare di nuovo! Non porterò il collare! No!»
Subito le furono accanto Nynaeve e Elayne, con il viso pieno di lividi, l’aria troppo preoccupata e timorosa per rendere credibili le parole intese a tranquillizzarla. Ma il semplice fatto che fossero lì bastò a far cessare le urla di Egwene. Non era da sola. Prigioniera, ma non da sola. E senza collare.
Cercò di mettersi a sedere e loro l’aiutarono. Furono obbligate ad aiutarla, perché lei aveva male a tutti i muscoli. Ricordava ogni invisibile colpo ricevuto durante il putiferio che quasi l’aveva fatta impazzire nel rendersi conto che... “Non devo pensarci” si disse. “Devo pensare soltanto al modo di fuggire." Scivolò all’indietro e si appoggiò alla parete. I dolori facevano a pugni con la stanchezza: la lotta, quando si era rifiutata di cedere, le aveva prosciugato l’ultimo briciolo di forza e i lividi parevano assorbirne altra.
La cella era vuota, a parte loro tre e la torcia. Il pavimento era nudo e freddo e duro. La porta d’assi scabre, scheggiate come se innumerevoli dita l’avessero inutilmente artigliata, era l’unica interruzione delle pareti. Sulla pietra erano incisi messaggi, per la maggior parte vergati da mani incerte. La Luce abbia pietà e mi faccia morire, diceva uno. Egwene lo cancellò dalla mente.
«Siamo ancora schermate?» borbottò. Soffriva anche a parlare. Vide Elayne annuire, ma si rese conto che la domanda era superflua. La sua guancia gonfia, il labbro spaccato, l’occhio nero, erano risposta sufficiente, anche senza contare i suoi stessi dolori: se Nynaeve avesse potuto toccare la Vera Fonte, le avrebbe sicuramente Guarite.
«Ho tentato» disse Nynaeve, disperatamente. «Ho tentato, tentato, tentato.» Diede uno strattone alla treccia, lasciando filtrare la collera, malgrado la disperazione e la paura nella voce. «Una di loro se ne sta qui fuori. Amiqa, quella bamboccia dalla faccia color latte, se non ha avuto il cambio, da quando ci hanno gettato qui dentro. Immagino che una di loro basti a mantenere la schermatura.» Rise con amarezza. «Malgrado tutta la pena che si sono prese per catturarci, si direbbe che non ci considerino proprio. Sono trascorse delle ore, da quando hanno chiuso la porta; nessuno è venuto a fare domande, né a guardare, né a portarci un goccio d’acqua. Forse vogliono lasciarci qui finché non saremo morte di sete.»
«Esca.» La voce di Elayne tremò, anche se cercava chiaramente di non mostrarsi spaventata, senza riuscirci affatto. «Liandrin ha detto che siamo l’esca.»
«Esca per cosa?» domandò Nynaeve, con voce tremante. «Esca per chi? Se sono l’esca, vorrei infilarmi nella loro gola, finché non si strozzano!»
«Rand.» Egwene smise di deglutire; perfino una goccia d’acqua sarebbe stata benvenuta. «Ho sognato Rand e Callandor. Credo che Rand stia per venire qui.» “Ma perché ho sognato anche Mat?" si domandò. “E Perrin. Ho visto un lupo, ma sono sicura che si trattava di lui." «Non siate così impaurite» soggiunse, cercando di mostrarsi fiduciosa. «In qualche modo riusciremo a fuggire da loro. Abbiamo battuto i Seanchan e possiamo battere anche Liandrin.»
Nynaeve e Elayne si scambiarono un’occhiata. «Liandrin ha detto che sono in arrivo tredici Myrddraal» disse Nynaeve.
Egwene si ritrovò a fissare ancora quel messaggio graffito sulla parete: La Luce abbia pietà e mi faccia morire. Serrò i pugni. Strinse le mascelle fino a sentire male, per lo sforzo di non gridare quelle parole. Meglio la morte. Meglio la morte, che la conversione all’Ombra, l’obbligo di servire il Tenebroso!
Si rese conto di stringere fra le dita il borsello appeso alla cintura. Sentiva il contorno dei due anelli, quello più piccolo, col Gran Serpente, e quello più grosso, ritorto, di pietra.
«Non mi hanno preso il ter’angreal» disse, sorpresa. Lo tolse dalla borsa e lo tenne sul palmo: un anello con una sola faccia, tutto striature e puntini di colore.
«Contiamo così poco che non ci hanno neppure perquisite» sospirò Elayne. «Egwene, sei sicura che Rand venga qui? Preferirei liberarmi da sola, anziché aspettare, confidando sulla possibilità che intervenga lui; ma se c’è uno in grado di sconfiggere Liandrin e le altre, quello è lui. Il Drago Rinato impugnerà Callandor. Deve sconfiggerle!»
«No, se lo mettono in gabbia come noi» borbottò Nynaeve. «No, se gli hanno preparato una trappola che lui non vede in tempo. Perché fissi l’anello, Egwene? Al momento il Tel’aran’rhiod non può aiutarci. A meno che tu non veda in sogno una via per uscire di qui.»
«Può darsi» disse lentamente Egwene. «Nel Tel’aran’rhiod potrei incanalare il Potere. La loro schermatura non m’impedirà di toccarlo. Devo solo dormire, non incanalare. E di sicuro sono abbastanza stanca da prendere sonno.»
Elayne corrugò la fronte, con una smorfia per i lividi. «Correrò qualsiasi rischio» disse. «Ma come puoi incanalare in sogno, tagliata fuori dalla Vera Fonte? E se ci riesci, come puoi aiutarci qui?»
«Non lo so, Elayne. Se qui sono schermata, non significa che sarò schermata anche nel Mondo dei Sogni. Vale la pena fare un tentativo.»
«Forse» disse Nynaeve, in tono stanco. «Anch’io correrò qualsiasi rischio; però, l’ultima volta che hai usato quell’anello, hai visto Liandrin e le altre. E anche loro hanno visto te, hai detto. E se sono lì di nuovo?»
«Mi auguro proprio che ci siano» replicò Egwene, torva. «Me lo auguro.»
Strinse nel pugno il ter’angreal e chiuse gli occhi Sentì Elayne lisciarle i capelli, la udì mormorare piano. Nynaeve cominciò a canticchiare la vecchia ninnananna che le cantava quand’era piccola. Per una volta, Egwene non si arrabbiò. Le carezze e il mormorio la tranquillizzarono, le permisero d’arrendersi alla stanchezza, d’abbandonarsi al sonno.
Stavolta indossava seta azzurra, ma lo notò appena. Una brezza gentile le accarezzava il viso privo di lividi e mandava le farfalle a volteggiare sopra i fiori di campo. Non aveva più sete, non sentiva più dolori. Si protese ad abbracciare Saidar e fu inondata dall’Unico Potere. Anche il senso di trionfo per il successo fu trascurabile, di fronte all’ondata di Potere.
Con riluttanza si costrinse ad abbandonare Saidar; chiuse gli occhi e formò nel vuoto un’immagine perfetta del Cuore della Pietra. Era l’unico posto della Pietra, a parte la cella, che poteva raffigurare: come avrebbe potuto distinguere dagli altri un informe bugigattolo? Aprì gli occhi e si trovò nel Cuore della Pietra. Ma non da sola.
Davanti a Callandor c’era Joiya Byir, sagoma così incorporea che la luce della spada brillava attraverso di lei. Ora la spada di cristallo non si limitava a scintillare di luce riflessa: ardeva e pulsava, come se una luce interna venisse scoperta e ricoperta. Joiya Byir sobbalzò di sorpresa e si girò a fronteggiare Egwene. «Com’è possibile?» esclamò. «Sei schermata! Hai terminato di Sognare!»
Ancora prima che lei parlasse, Egwene abbracciò di nuovo Saidar, intessé un complicato flusso di Spirito, ricordando come l’avevano usato contro di lei, e schermò dalla Fonte la Sorella Nera. Joiya sbarrò gli occhi, quegli occhi crudeli così incongrui nel viso bello e gentile; ma Egwene già intesseva Aria. L’altra pareva fatta di nebbia, ma il legame la tratteneva. Egwene ebbe l’impressione di non fare il minimo sforzo per manipolare nella tessitura i due flussi. Sulla fronte di Joiya Byir brillarono goccioline di sudore.
«Hai un ter’angreal!» esclamò la Nera: mostrava chiaramente in viso la paura, ma cercava di nasconderla nella voce. «Non può essere altro. Un ter’angreal che ci è sfuggito e che non richiede il Potere. Pensi che ti gioverà, bambina? Qualsiasi cosa tu faccia qui, non tocca ciò che accade nel mondo reale. Il Tel’aran’rhiod è un sogno! Quando mi sveglierò, verrò io stessa a toglierti il ter’angreal. Attenta a ciò che fai! Non darmi motivo d’essere furiosa, quando verrò nella tua cella.»
Egwene le sorrise. «Sei sicura di svegliarti, Amica delle Tenebre? Se il tuo ter’angreal richiede il Potere, perché non ti sei svegliata, appena ti ho schermato dalla Fonte? Forse non potrai svegliarti, finché sarai schermata qui.» Tornò seria: lo sforzo di sorridere a quella donna era più di quanto potesse sopportare. «Una volta una donna mi mostrò la cicatrice ricevuta nel Tel’aran’rhiod, Amica delle Tenebre. Ciò che accade qui è ancora reale, quando ti svegli.»
Ora il sudore ruscellava sul viso liscio e privo d’età di Joiya Byir. Egwene si domandò se pensasse d’essere sul punto di morire. Quasi rimpianse di non avere la crudeltà necessaria a ucciderla. La maggior parte dei colpi ricevuti proveniva da quella donna; come la scarica di pugni che aveva subito solo perché aveva cercato di strisciare via, solo perché si era rifiutata di cedere.
«Una donna che può dare simili legnate» disse «non dovrebbe sollevare obiezioni per una battuta meno forte.» Rapidamente intessé un altro flusso di Aria. Per l’incredulità, gli occhi scuri di Joiya Byir parvero schizzare dalle orbite, appena la Nera ricevette il primo pugno alle reni. «Questo lo ricorderai, e lo sentirai, al risveglio» proseguì Egwene. «Se ti permetterò di svegliarti. Ricorda anche un’altra cosa: se cercherai di nuovo di picchiarmi, ti riporterò qui e ti ci lascerò per il resto della tua vita!» La sorella Nera la fissò con odio, ma negli occhi aveva anche un accenno di lacrime.
Egwene provò un istante di vergogna. Non per ciò che faceva a Joiya (la donna meritava ogni colpo, se non per ripicca, almeno per le morti nella Torre) ma per avere perduto tempo a vendicarsi, mentre Nynaeve e Elayne erano in cella, con la speranza che lei riuscisse a liberarle.
Annodò e troncò i flussi della tessitura, quasi senza rendersene conto; poi si soffermò a studiare che cosa aveva fatto. Non solo aveva manipolato contemporaneamente e senza difficoltà tre tessiture separate, ma ora le aveva anche rese stabili nel tempo. Credette di ricordare anche come aveva fatto. Le sarebbe stato utile.
Dopo un momento sciolse una tessitura e l’Amica delle Tenebre singhiozzò, di sollievo e di dolore. «Non sono come te» disse Egwene. «Questa è la seconda volta che faccio una cosa del genere e non mi piace. Dovrò imparare invece a tagliare la gola alla gente.»
A giudicare dallo sguardo, Joiya Byir pensò che Egwene intendesse cominciare da lei.
Con una smorfia di disgusto, Egwene la lasciò lì, imprigionata e schermata, e s’inoltrò frettolosamente nella foresta di levigate colonne di granito. Da qualche parte c’era di sicuro una via per scendere alle celle.
Nel corridoio di pietra scese il silenzio: Giovane Toro aveva serrato le fauci intorno alla gola del due-gambe e aveva troncato il suo ultimo grido d’agonia. E aveva sentito sulla lingua il gusto amarognolo del sangue.
Sapeva di trovarsi nella Pietra di Tear, anche se ignorava come facesse a saperlo. Mentre lottavano, i due-gambe intorno a lui, uno dei quali tirava gli ultimi calci, con le zanne di Hopper conficcate nella gola, avevano mandato il puzzo acre della paura. Erano sembrati confusi. Secondo lui, non sapevano dove si trovassero (di sicuro non appartenevano al sogno dei lupi) ma erano decisi a tenerlo lontano dall’alta porta più avanti, col suo catenaccio di ferro. A proteggerla, almeno. Erano parsi sorpresi nel vedere dei lupi. E anche di trovarsi lì.
Giovane Toro si pulì la bocca e si fissò la mano, senza capire. Era di nuovo uomo. Era Perrin. Era tornato nel proprio corpo, nella veste da fabbro; aveva alla cintola il pesante martello.
«Dobbiamo affrettarci, Giovane Toro. Nelle vicinanze c’è il male.»
Perrin staccò dalla cintura il martello e colpì la porta. «Faile dev’essere qui» disse. Con un colpo secco fracassò il catenaccio. Con un calcio spalancò la porta.
Nella stanza c’era soltanto un lungo blocco di pietra al centro del pavimento. Faile giaceva su quel blocco, come addormentata, i capelli neri allargati a ventaglio, il corpo così avvolto in catene che Perrin impiegò un attimo a capire che la donna era nuda. Ogni catena era fissata alla pietra mediante un grosso anello.
Perrin quasi non si accorse d’essere entrato nella stanza, finché non toccò il viso di Faile, seguendone col dito il contorno dello zigomo.
Lei aprì gli occhi e gli sorrise. «Continuavo a sognare che saresti venuto, fabbro.»
«Ti libero in un momento, Faile.» Alzò il martello e fracassò un anello come se fosse di legno.
«Ne ero sicura. Perrin.»
Mentre il nome svaniva, anche Faile svanì. Con rumore di ferraglia le catene ricaddero sulla pietra dove lei era distesa.
«No!» gridò Perrin. «L’ho trovata!»
«Il sogno non è come il mondo di carne, Giovane Toro. Qui la stessa caccia può avere molte conclusioni.»
Perrin non si girò a guardare Hopper. Aveva snudato i denti in un ringhio. Alzò di nuovo il martello, lo calò con tutte le sue forze sulle catene che avevano imprigionato Faile. Il blocco si crepò in due; la Pietra stessa rintoccò come campana.
«Allora andrò di nuovo a caccia» ringhiò Perrin.
Martello in mano, uscì dalla stanza, con Hopper a fianco. La Pietra era un luogo di uomini: e gli uomini, lo sapeva, sono cacciatori più crudeli perfino dei lupi.
Da qualche parte, più in alto, i gong d’allarme mandarono sonori rintocchi lungo il corridoio, senza soffocare del tutto il clangore di metallo contro metallo e le grida di uomini che combattevano non molto lontano. Aiel e Difensori, sospettò Mat. Alti portalampade d’oro, ciascuno con quattro lanterne, fiancheggiavano il corridoio e arazzi di seta con scene di guerra erano appesi alle levigate pareti di pietra. Per terra c’erano tappeti di seta, rosso scuro su blu scuro, col disegno del labirinto tairenese. Una volta tanto, Mat era troppo preso per dare un prezzo a ogni arredo.
"Questo maledetto è abile” pensò, deviando una puntonata di spada; ma fu costretto a cambiare in parata il colpo che con l’altra estremità del bastone voleva indirizzare contro la testa dell’avversario. “Non sarà uno di quei maledetti Sommi Signori?" Riuscì quasi a centrarlo al ginocchio, ma l’uomo balzò indietro e alzò in posizione di guardia la spada a lama dritta.
Certo, l’uomo, dagli occhi azzurri, si era messo la giubba, gialla a strisce in filo d’oro, con maniche a sbuffo, ma non l’aveva abbottonata e aveva la camicia che gli usciva dalle brache ed era scalzo. I capelli neri, corti, erano scarmigliati, come se si fosse alzato dal letto in fretta e furia, ma nel combattere era ben sveglio. Cinque minuti prima era spuntato di corsa, spada in mano, da una delle porte intagliate che fiancheggiavano quel corridoio e Mat poteva solo essere contento che fosse comparso davanti a loro anziché dietro. Non era il primo così vestito che Mat avesse affrontato, ma era di certo il migliore.
«Puoi passarmi davanti, acchiappaladri?» disse, ben attento a non distogliere lo sguardo dall’uomo con la spada pronta a colpire. «Sandar, irritato, aveva insistito che Mat lo chiamasse “acchiappaladri” e non “prendiladri": Mat non ci vedeva alcuna differenza.»
«Non posso» rispose Sandar, dietro di lui. «Se ti sposti, non hai spazio per manovrare quel remo che chiami bastone e lui ti infilza come un grugnitore.»
"Come un cosa?" pensò Mat. «Be’, trova una soluzione, tairenese» disse subito. «Questo straccione mi dà ai nervi.»
L’uomo in giubba a righe dorate sorrise, beffardo. «Per te, bifolco," sarebbe onore troppo grande, morire per mano del Sommo Signore Darlin.» Era la prima volta che si degnava di parlare. «Invece, vi farò appendere per i talloni e starò a guardare, mentre vi strapperanno la pelle...»
«Non penso che mi piacerebbe» disse Mat.
L’altro divenne paonazzo d’indignazione per essere stato interrotto. Mat non gli diede tempo di replicare: mosse rapidamente il bastone, descrivendo in aria un otto, e balzò avanti. Darlin non poté fare altro che tenere lontano da sé il bastone. Per il momento. Mat sapeva di non poter mantenere a lungo quella velocità: se avesse avuto fortuna, lo scontro sarebbe tornato alla fase di colpo e risposta. Ma stavolta non intendeva contare sulla fortuna. Appena il Sommo Signore si concesse un momento per assestare la difesa, Mat modificò l’attacco a metà colpo. L’estremità del bastone, che Darlin si aspettava contro la testa, si abbassò a colpire le gambe. Allora, mentre Darlin cadeva, l’altra estremità lo colpì davvero alla testa, con uno schianto secco che gli fece rovesciare gli occhi.
Ansimando, Mat si appoggiò al bastone e si sporse sul Sommo Signore svenuto. “Maledizione” si disse “se devo affrontarne un paio come lui, crollerò di sfinimento! Nelle storie, l’eroe non ha tutto questo lavoro! Nynaeve ha sempre trovato il modo di farmi lavorare."
Sandar gli si accostò e guardò il Sommo Signore accasciato. «Non pare poi così potente, lungo e disteso» disse, sorpreso. «Non pare nemmeno tanto più grande di me.»
Mat trasalì e scrutò il corridoio, che un uomo aveva appena attraversato di corsa. “Maledizione, se non sapessi che è una follia, giurerei che quello era Rand!"
«Sandar, trova...» cominciò, muovendo in un arco il bastone per metterselo in spalla; s’interruppe di colpo, perché lo sentì urtare contro qualcosa.
Si girò di scatto e si trovò di fronte un altro Sommo Signore mezzo svestito... con la spada per terra, le ginocchia piegate e le mani alla testa, dove il bastone gli aveva lacerato lo scalpo. Mat gli rifilò in fretta una puntonata allo stomaco per fargli abbassare le mani, poi gli diede un altro colpo alla testa, facendolo crollare sopra la sua stessa spada.
«Fortuna, Sandar» borbottò. «Non si batte la maledetta fortuna. Allora, perché non trovi questa maledetta via privata che i Sommi Signori usano per andare alle celle?» Sandar aveva insistito che c’era una scala privata e che, passando da quella parte, avrebbero evitato di correre per gran parte della Pietra. Mat non pensava che esistesse gente ansiosa di assistere all’interrogatorio dei prigionieri al punto da volere una scorciatoia per andare dalle proprie stanze alle segrete.
«Ringrazia la tua smisurata fortuna!» replicò Sandar, a disagio. «Quello lì ci avrebbe uccisi tutt’e due e non l’avremmo nemmeno visto. La porta è qui, da qualche parte, lo so. Vieni? O aspetti che compaia un altro Sommo Signore?»
«Precedimi» rispose Mat. Scavalcò il Sommo Signore svenuto. «Non sono un maledetto eroe.»
A passi svelti seguì l’acchiappaladri, che scrutava ogni porta incontrata e borbottava che doveva esserci, da qualche parte, lo sapeva.