13.

La clinica sorgeva a qualche distanza dalla strada, riparata da una gaia cor­tina di foglie giallo-rosse dell’autunno, mentre i suoi vari edifici apparivano bianchi e severi al di là del fogliame. Barbee, vedendoli, cercò di scacciare la sensazione di angoscia che sempre provava alla vista di qualunque edificio che potesse ricordargli un manicomio. Quelle austere fortezze, si disse, era­no cittadelle di sanità ed equilibrio contro gli ignoti terrori della mente.

Fermò la macchina nello spazio ricoperto di ghiaia dietro l’edificio princi­pale e si avviò a passo rapido lungo un lato dell’edificio verso l’ingresso. Guardando attraverso la siepe altissima che cingeva il prato che si stendeva dall’altra parte, Barbee scorse una paziente camminare eretta fra due infer­miere vestite di bianco. Rimase col fiato mozzo.

La paziente era Rowena Mondrick.

Vestita d’un pesante abito nero a protezione dai rigori dell’aria, portava guanti neri e una sciarpa nera sui capelli bianchissimi. Le sue lenti brune parvero fissarsi minacciosamente sul giornalista. Barbee ebbe l’impressione che sussultasse e si fermasse per un istante.

Ma già aveva ripreso la sua passeggiata dignitosa e fiera, tra le due infer­miere, come se fosse sola. Colto da una pietà devastante, Barbee sentì il bisogno invincibile di parlarle: la sua mente malata, si disse, poteva ancora contenere le risposte alle mostruose domande che lo tormentavano. La veri­tà, pensò, avrebbe potuto liberare entrambi.

La cieca e le due infermiere si stavano allontanando da lui ora, si dirigeva­no a passo lento verso il gruppo di alberi che formava una specie di boschet­to presso il fiume. Corse loro dietro, col cuore che gli martellava nel petto.

«...il mio cane?», stava dicendo Rowena, la voce colma di angoscia. «Non mi è permesso nemmeno chiamare il mio povero Turk?»

Una delle due infermiere, la più alta, le prese il braccio ossuto.

«Può chiamarlo, signora Mondrick, se lo desidera», le rispose pazientemen­te, «ma non servirà a nulla, mi creda. Le abbiamo già detto che il cane pur­troppo è morto, e che quindi sarà meglio per lei non pensarci più.»

«Non è vero!», rispose Rowena con voce querula, acuta. «Non ci credo, e ho bisogno d’avere il mio cane qui con me. Vi prego di chiamare al telefono la signorina Ulford e dirle a mio nome di mettere un avviso su tutti i giornali promettendo una ricompensa molto elevata.»

«Non servirà a nulla», ribatté sempre con molta dolcezza l’infermiera più alta, «perché un pescatore ha trovato il corpo del cane ieri mattina nel fiume, presso il ponte della ferrovia. Ha portato il collare d’argento alla polizia. Glielo abbiamo detto ieri sera, non ricorda?»

«Me lo ricordo, ma io ho bisogno lo stesso del mio povero Turk, che mi protegga quando verranno per assassinarmi durante la notte.»

«Oh, non ha più nulla da temere, ora», la rassicurò con voce allegra l’infer­miera. «Qui non verrà nessuno a farle del male.»

«Sono venuti una volta e verranno ancora!», ribatté Rowena con voce che l’esasperazione rendeva stridula. «Vogliono impedirmi di avvertire Sam Quain, e io devo farlo a ogni costo.»

Si fermò bruscamente, afferrandosi con le tenaci dita sottili al braccio del­l’infermiera. Barbee si fermò alle loro spalle, non per soprendere le sue pa­role, ma perché il colpo di quanto aveva sentito lo aveva raggelato: Turk era infatti morto, nel suo primo sogno.

«La prego, infermiera», stava ora implorando la cieca. «Telefoni subito al dottor Sam Quain, Istituto Ricerche Antropologiche, e gli dica di venire su­bito qui da me.»

«Sono desolata, signora Mondrick, lo sa bene», disse dolce e paziente l’in­fermiera, «ma è impossibile: il dottore dice che non può vedere nessuno, finché non starà meglio. Se solo volesse rilassare un poco i nervi, riposare e aiutarci a farla guarire al più presto, il dottor Glenn le permetterà di vedere chiunque...»

«Ma non abbiamo tempo! Ho paura che ritornino questa notte per uccider­mi, e io devo parlare a Sam!» Si volse torcendosi le mani all’infermiera. «Perché non mi accompagna all’Istituto, lei stessa, ora?»

«Conosce anche lei il regolamento, signora Mondrick: non possiamo...»

«Sam la ricompenserà largamente!», ansimò disperata Rowena. «E sarà lie­to di spiegare tutto ai dottori... perché il mio avvertimento gli avrà salvato la vita, e non solo la sua vita... Presto, chiami un tassi, noleggi una macchina, rubiamone una!»

«Possiamo mandare al dottor Quain un suo biglietto, signora...»

«No!», sibilò Rowena. «Un biglietto non servirebbe a nulla!»

Barbee fece un passo innanzi e aprì la bocca per parlare. Le due infermiere gli voltavano ancora le spalle, ma Rowena s’era voltata e lui poteva ora fis­sare le lenti nere e il volto contratto della povera cieca. Pieno di compassio­ne, Barbee si sentì gli occhi colmi di lacrime.

«Ma perché, signora Mondrick?», diceva l’infermiera. «Quale pericolo può minacciare il dottor Quain?»

«Un uomo di cui si fida», singhiozzò la cieca.

Queste parole arrestarono Barbee un’altra volta. Anche se avesse voluto parlare, la gola serrata spasmodicamente glielo avrebbe impedito. Cominciò a ritirarsi in silenzio sul prato umido, ascoltando senza volere.

«Un uomo che lui crede amico», ribadì Rowena.

L’infermiera che non aveva ancora parlato guardò l’orologio e fece un cen­no alla compagna, che annuì.

«Abbiamo camminato parecchio, signora Mondrick», disse l’infermiera alta, «e ora è tempo di rientrare. Lei sarà stanca e farà bene a schiacciare un pisolino. Se ha ancora intenzione di parlare al dottor Quain, il dottor Glenn le permetterà di telefonargli, oggi nel pomeriggio.»

«No», singhiozzò la cieca. «Non servirebbe a niente.»

«Ma perché? Non ha un telefono?»

«Sì, e anche tutti i nostri nemici lo hanno. Tutti quei mostri che fingono di essere uomini. Ascoltano tutto quello che dico e intercettano le mie lettere. Turk era stato abituato a riconoscerli al fiuto, ma ora Turk è scomparso. E il mio caro marito è morto. Non è rimasto nessun altro di cui possa fidarmi, tranne Sam Quain!»

«Di noi può fidarsi, signora Mondrick», disse l’infermiera in tono affettuo­so. «Ma ora dobbiamo proprio rientrare.»

«Va bene», disse Rowena, «andiamo.»

Si volse, come rassegnata, ma bruscamente si liberò con uno strattone delle due donne, colte di sorpresa, e si mise a correre via per il prato. «Signora Mondrick, che cosa fa! Via, non deve fare così!»

Le due ragazze si misero a inseguirla, ma la poveretta correva con un’agilità incredibile. Per qualche istante parve guadagnare terreno e Barbee pensò che potesse raggiungere il gruppo d’alberi presso il fiume. Aveva quasi di­menticato che Rowena era cieca, ma a un tratto la povera donna inciampò nel sostegno di un innaffiatoio automatico e cadde bocconi sul prato.

Le due infermiere accorsero e l’aiutarono a rialzarsi, e tenendola per le braccia con dolce fermezza si avviarono verso l’edificio centrale. Barbee fu preso da un desiderio imperioso di fuggir via, quando vide le tre donne veni­re verso di lui, perché la follia di Rowena risolveva anche troppo l’enigma dei suoi sogni; ed era stato colto dal terrore che gli ispirava la frenetica luci­dità intravista sotto l’apparente pazzia della cieca.

«Buongiorno, signore», gli disse l’infermiera alta, squadrandolo incuriosita e tenendo Rowena più saldamente che mai. «Desidera qualche cosa?»

«Ho lasciato ora la mia macchina nel parcheggio della clinica», disse Barbee indicando col mento lo spiazzo dietro l’edificio. «E vorrei vedere il dottor Glenn.»

«È al di là della siepe che dovete andare», sorrise l’infermiera al suo errore evidente, «dove c’è il viale che gira intorno alla palazzina. E dia il suo nome alla signorina alla porta.»

Barbee non la udì nemmeno, intento a osservare Rowena, che si era irrigi­dita al suono della sua voce e ora se ne stava muta e immobile fra le due infermiere, come gelata dal terrore.

Gli occhiali neri erano caduti, o si erano spezzati, quando aveva inciampa­to, e ora le sue occhiaie spente e straziate aggiungevano una nota di orrore alla sua pallida faccia terrificata.

«Sono Will Barbee.» Non voleva più parlarle, ora; aveva sentito anche trop­po per la sua curiosità, ma non poté fare a meno di chiederle con la sua voce strozzata: «Dimmi, Rowena, che cosa devi dire a Sam Quain?».

Ritta davanti a lui, gli spenti occhi colmi di un orrore immobile, la cieca fu scossa da un tale brivido, che le due infermiere credettero che volesse fuggi­re nuovamente, e le strinsero le braccia con maggior forza. La sua bocca livida si aprì come per un urlo, ma non ne uscì suono alcuno.

«Dimmi, Rowena, perché quel leopardo nero ti aggredì in Nigeria?» Questa domanda gli era uscita dalla bocca nel modo più inatteso, senza che se ne rendesse conto. «E che specie di leopardo era?»

La cieca strinse fermamente le labbra.

«Che cosa cercava realmente Mondrick nell’Ala-shan?» Barbee sapeva che lei non intendeva rispondere, ma continuò, come spinto da una forza sovru­mana: «Che cosa hanno riportato lui e Sam in quella cassa verde? Chi può aver voluto la loro morte?».

Lei si ritrasse di scatto, scuotendo la testa.

«Basta, signore», intervenne severamente l’infermiera, «non spaventi la si­gnora! Se vuole veramente parlare al dottor Glenn, l’ingresso è laggiù.»

Le due infermiere si avviarono, sostenendo la povera cieca.

«Ma chi sono questi nemici segreti?», insistette Barbee seguendole di qual­che passo. «Questi assassini nell’ombra? Chi vuole uccidere Sam?»

Lei si divincolò tra le forti braccia che la tenevano, voltandosi verso di lui.

«Non lo sai proprio, Will Barbee?» E la sua voce lacerata gli parve orrenda come la sua faccia. «Possibile che proprio tu non lo sappia?»

Poi con dolce violenza le due infermiere la portarono via per il prato.

Barbee, sconvolto e disperato, tornò verso l’apertura della siepe, cercando di non pensare alle parole di Rowena, sperando contro se stesso che Glenn potesse aiutarlo.

Nel tempio freudiano, la sacerdotessa sottile ed esotica lo accolse col suo sorriso fascinoso. Ma alla notizia che Barbee voleva vedere Glenn senza ap­puntamento, si mostrò contrariata e disse che il professore era anche questa volta terribilmente occupato.

Barbee scosse il capo e cercò di parlare con la voce più normale possibile.

«Senta», disse, «è urgente che io veda il dottor Glenn per una visita perso­nale. È una cosa... personale.»

Il sorriso della sacerdotessa era una carezza venuta dal lontano oriente.

«Ma c’è il dottor Bunzel, allora», tubò la vestale. «È il nostro diagnostico. E il dottor Dilthey, dirigente del servizio neuropatologico. Sia l’uno che l’al­tro...»

Barbee scosse il capo:

«No», disse. «Ascolti: dica al dottor Glenn che sono venuto per vederlo. Dica semplicemente che ho aiutato una lupa bianca ad ammazzare il cane della signora Mondrick. Sono certo che troverà il tempo di ricevermi.»

La sacerdotessa si dedicò al suo centralino telefonico e un minuto dopo i suoi occhi si volgevano luminosi su Barbee:

«Il professore sarà lieto di riceverla fra un minuto», annunciò con una voce di velluto liquido. «L’infermiera Graulitz l’accompagnerà.»

L’infermiera Graulitz era una bionda muscolosa, dalla faccia equina e gli occhi duri e limpidi come il cristallo. Il cenno del capo con cui salutò il gior­nalista era una fredda sfida, come se intendesse dargli una medicina molto cattiva e costringerlo a dire che era squisita. Barbee la seguì per un lungo corridoio silenzioso fino a un piccolo studio.

Con una voce roca che ricordava la sirena di un rimorchiatore nella nebbia, la donna gli rivolse una serie di domande: quali malattie aveva avuto, chi avrebbe pagato la sua nota ospedaliera, quanto beveva di solito. Scrisse le risposte su un cartoncino e gli fece firmare un modulo che lui non tentò nemmeno di leggere. Mentre Barbee firmava, la porta si aprì alle sue spalle.

La donna si alzò e disse col suo vocione ronfante e soffocato: «Il professore è pronto per riceverla».

Il celebre psichiatra era un bell’uomo, molto alto, con neri capelli ondulati e occhi nocciola lievemente fissi. Porse a Barbee una mano abbronzata dal sole e ben curata, sorridendo cordialmente. Guardandolo, Barbee ebbe l’im­pressione fuggevole di averlo conosciuto intimamente in passato e poi di averlo dimenticato. Impressione, pensò, che doveva dipendere dal fatto di essere venuto a sentire molte sue conferenze e di averne parlato sul giornale.

«Buongiorno, signor Barbee», disse Glenn con voce profonda, stranamente riposante. «Di qua, prego.»

Il suo studio era lussuosamente semplice, con due grandi poltrone di pelle, un divano con un foulard immacolato sul cuscino, orologio, portacenere e vaso di fiori su un tavolinetto, alti scaffali pieni di opere mediche e copie della Psychoanalytic Review. Dalle persiane socchiuse si godeva la vista del fiume e delle sue rive boscose e dell’autostrada, là dove si piegava a formare un’ansa.

Barbee sedette, muto e a disagio.

Glenn sedette a sua volta e si mise a battere una sigaretta, con noncuranza, sull’unghia del pollice. Emanava da lui un’aria di fiducia e di serenità, quanto mai rassicuranti.

«Fuma?», disse Glenn. «E quali sarebbero i suoi disturbi?»

Prendendo coraggio dalla calma dell’uomo, Barbee annunciò in tono dram­matico:

«Stregoneria!».

Glenn non parve né sorpreso né impressionato; aspettava il resto, semplice­mente.

«O sono stato stregato», riprese Barbee disperatamente, «oppure vuol dire che sto perdendo la ragione.»

Glenn esalò una nube di fumo leggero.

«Mi racconti le cose per benino, se crede.»

«La cosa è cominciata lunedì sera, all’aeroporto», iniziò Barbee, prima cau­tamente, poi con un senso crescente di benessere. «Quella ragazza dai capelli rossi ha attaccato discorso, mentre aspettavo l’arrivo dell’aereo della spedi­zione Mondrick...»

Raccontò della morte improvvisa di Mondrick, del gattino strangolato e dell’inesplicabile paura che i superstiti sembravano avere della cassa portata dalla spedizione. Descrisse il sogno in cui aveva corso la città sotto forma di lupo in compagnia di April Bell e in cui il cane Turk era morto... Spiando il volto di Glenn, Barbee poté scorgervi soltanto un interesse professionale di calma simpatia.

«E questa notte, dottore, ho fatto un altro sogno. Mi sembrava di essere una tigre dai denti a sciabola... tutto era straordinariamente reale. Quella ragazza era ancora con me, e mi dava istruzioni su quello che dovevo fare. Abbiamo seguito la macchina di Rex Chittum sulle colline, e io ho ucciso Rex sul passo di Sardis Hill.»

Parlandone, quel sogno gli sembrava meno orribile. Un po’ della calma di Glenn sembrava essere passata nel suo stato d’animo.

Riprese, con un lieve tono di distacco: «Ora, Rex è morto esattamente come io ho sognato di ucciderlo». Disperatamente, scrutò il volto dello psi­chiatra. «Mi dica, dottore, come è possibile che sogno e realtà combacino così perfettamente? Crede proprio che io possa avere ucciso Rex Chittum questa notte sotto la suggestione di un maleficio occulto, o sono già impazzi­to del tutto e non me ne sono ancora reso conto?»

Con molta precisione, Archer Glenn congiunse insieme le punte delle dita.

«Ci vorrà tempo, signor Barbee.» E la sua testa bruna annuì gravemente. «Sì, parecchio tempo. Io le proporrei di fermarsi qui a riposare per qualche giorno. Ciò permetterà al nostro corpo sanitario di occuparsi di lei nelle mi­gliori condizioni possibili.»

Barbee si alzò atterrito dalla poltrona.

«Ma, che cosa mi dice dei miei sogni?», gracidò con voce strozzata. «Ho veramente commesso le cose che ho creduto di sognare? Oppure sono paz­zo?»

Glenn rimase immobile a guardarlo coi suoi placidi occhi sonnolenti, fino a quando il giornalista non ricadde a sedere nella sua poltrona.

«Le cose che avvengono, spesso non sono così importanti come l’interpretazione che il nostro cervello, più o meno inconsciamente, tende a darne.» La voce profonda di Glenn risuonava con indolente noncuranza. «C’è un punto tuttavia del suo racconto che mi sembra molto significativo: ogni incidente che ha menzionato, dal fatale attacco d’asma di Mondrick alla disgrazia di cui è rimasto vittima Chittum... la stessa morte del cane della signora Mon­drick... hanno una spiegazione naturale perfettamente logica.»

«È proprio questo che mi fa diventare matto», rispose Barbee, cercando di scoprire la minima reazione sotto la maschera di deliberata indifferenza del­lo psichiatra. «Tutto potrebbe essere pura coincidenza... ma lo è? Ma come posso avere saputo della morte di Chittum prima che qualcuno me lo dices­se?»

Glenn staccò le punte delle lunghe dita e cominciò a battere un’altra siga­retta sull’unghia del pollice.

«Spesso, signor Barbee, la mente ci inganna. Sotto stimoli di cui non siamo consapevoli, può accaderci di deformare i particolari delle cause e degli ef­fetti. Questi errori di ragionamento non sono necessariamente prova di fol­lia. Freud ha scritto tutto un libro sulla psicopatologia della vita quotidiana.» Indolente, accese la sigaretta con un accendino d’oro. «Vediamo di studiare con calma il suo caso, signor Barbee... senza tentare diagnosi estemporanee. Lei ha speso troppe energie, credo, in un lavoro per il quale non è esatta­mente tagliato. Ha ammesso di bere più di quanto possa assimilare. Deve essersi pur reso conto che una vita di questo genere doveva finire con un collasso, in un modo o nell’altro.»

Barbee s’irrigidì.

«Dunque, lei ritiene che io sia... pazzo?»

Glenn scosse la testa ben fatta.

«Non ritengo nulla di simile, e ho l’impressione che lei attribuisca un peso eccessivamente emotivo al problema della sua sanità mentale, signor Barbee. La mente non è una macchina e le condizioni mentali non sono tutte in bianco e nero. Un certo grado di anormalità mentale è completamente nor­male, infatti... e la vita sarebbe intollerabilmente monotona e piatta senza questa punta di anormalità.»

Barbee ebbe un guizzo di penosa incertezza.

«Per cui», continuò Glenn, imperturbabile, «evitiamo di arrivare a conclu­sioni troppo affrettate, prima di un attento esame fisico e psichiatrico.» Crol­lò il capo, gettando nel portacenere la sigaretta non accesa. «Potrei forse aggiungere, a ogni modo, che la signorina Bell la sconvolge evidentissima­mente... e che lo stesso Freud descrive l’amore come una normale insania.»

«E questo che cosa significherebbe?», domandò Barbee sogguardandolo con diffidenza.

Il medico ricongiunse le punte delle dita. «In tutti noi, signor Barbee», dis­se, «si nascondono sentimenti inconsci di paura e di colpa. Sorgono nell’in­fanzia e danno un’impronta a tutta la nostra vita. Esigono di esprimersi e riescono a farlo in modi che ben di rado potremmo immaginare. Anche l’in­dividuo più sano ed equilibrato cela in sé questi segreti e insospettati motivi. Nel suo caso, per esempio, non crede possibile che, in un periodo in cui i suoi freni coscienti sono indeboliti da una combinazione di estrema stan­chezza, violenta emozione ed eccesso di alcool, questi sentimenti sepolti ab­biano cominciato a trovare espressione attraverso sogni particolarmente vivi­di o addirittura allucinazioni allo stato di veglia?»

Barbee scosse il capo, più che mai a disagio. Un vago risentimento si anda­va impossessando di lui per il modo in cui Glenn aveva di sondarlo così fred­damente.

«Forse», continuò tranquilla la voce profonda dello psichiatra, «lei ha an­che cominciato a sentirsi colpevole, in qualche modo, del disturbo che ha colpito la signora Mondrick...»

«Non direi!», lo interruppe Barbee sgarbato. «Come potrei?»

«La stessa violenza della sua protesta dà valore alla mia supposizione for­tuita.» Il sorriso indolente di Glenn sembrava avere una sfumatura beffarda. «Ci vorrà un po’ di tempo, come le ho già detto, per rintracciare il meccani­smo dei suoi complessi principali. Ma il quadro generale mi sembra già piut­tosto evidente.»

«Cioè?»

«I suoi studi universitari nel campo dell’antropologia debbono averle fornito una vasta conoscenza delle credenze primitive nella magia, nella stregone­ria e nella licantropia. Sfondo clinico sufficiente a spiegare l’insolita direzio­ne assunta dalle manifestazioni della sua fantasia.»

«Può darsi», rifletté Barbee poco convinto. «Ma come può pensare che io possa sentirmi colpevole della malattia della signora Mondrick?»

I sonnolenti occhi nocciola di Glenn divennero a un tratto singolarmente penetranti.

«Mi dica... ha mai desiderato coscientemente di uccidere il dottor Mon­drick?»

«Che cosa?», s’indignò Barbee. «Ma no, mai!»

«Cerchi di ricordare bene», insistette dolcemente il medico. «Eh?»

«No!» s’incaponì Barbee con rabbia. «Perché avrei dovuto desiderare una cosa simile?»

«Mondrick l’ha mai offeso?»

Barbee si agitò un poco sulla poltrona prima di rispondere.

«Anni fa, quand’ero ancora all’università e stavo per laurearmi, Mondrick bruscamente mi divenne ostile. Non ho mai saputo il perché. Mi respinse, quando stava organizzando la sua Fondazione, prendendo invece Quain, Chittum e Spivak. Per parecchio tempo, capisce, gliene ho serbato rancore.»

Glenn assentì, con aria compiaciuta.

«Questo completa il quadro. Lei deve aver desiderato la morte di Mon­drick, inconsciamente, badi, per vendicare l’offesa patita. Ha desiderato di ucciderlo e alla fine quando è morto, lei, in virtù della logica elementare, senza tempo, del subcosciente, si sente colpevole del suo assassinio.»

«Ma non mi sembra», mormorò Barbee innervosito. «I motivi del mio ran­core risalgono a una dozzina d’anni fa, e poi tutto questo non ha niente a che vedere con la malattia della signora Mondrick.»

«Il subcosciente ignora il tempo», gli ricordò Glenn con dolcezza. «E poi io mi sono limitato a dire che forse lei si sente responsabile della malattia della vedova Mondrick. L’improvviso squilibrio della povera signora è ovviamente conseguenza della morte del marito. Se nel subcosciente si sente colpevole di questa, deve con ogni probabilità sentirsi colpevole anche di quanto è occor­so alla vedova.»

«No!» Barbee si alzò ancora una volta, tremando orribilmente. «Non posso sopportare che...»

La bruna testa ben fatta annuì piacevolmente.

«Esatto. Lei non può più sopportare tutto ciò, consciamente. Ed è per que­sto che il complesso di colpa è ricacciato nel subcosciente: dove, tra i suoi ricordi delle lezioni di antropologia impartite dallo stesso Mondrick, trova adattissimi mascheramenti con cui ossessionarla.»

Barbee, sempre ritto davanti al medico, tremando, inghiottì la saliva con uno sforzo.

«Dimenticare non significa sfuggire.» I sonnacchiosi occhi nocciola sembra­vano implacabili. «La mente esige una tassa per ogni adattamento che non riusciamo a fare. C’è una specie di giustizia naturale nei meccanismi del sub­cosciente — o, talvolta, una crudele parodia di giustizia — cieca e inevitabile.»

«Ma quale giustizia? Non vedo...»

«Appunto! Non vede, perché non può tollerar di guardare... ma questo non interrompe l’operazione dei suoi motivi inconsci. Lei si condanna per la fol­lia della signora Mondrick, apparentemente. Il suo senso di colpa rimosso esige una punizione adatta al delitto. Mi sembra che lei stia inconsciamente ordinando secondo certe linee sogni e allucinazioni solo per espiare l’im­provvisa follia di Rowena... anche a costo, in definitiva, del suo stesso equili­brio mentale.»

«No, non capisco», rispose Barbee, scuotendo il capo nervosamente. «E poi anche se capissi, la sua spiegazione non spiegherebbe tutto. C’è ancora il sogno della tigre dai denti di sciabola, con la morte di Rex Chittum. I miei pensieri relativamente alla signora Mondrick c’entrano ben poco con tutto questo, e Rex è sempre stato mio amico.»

«Ma anche suo nemico», ribatté Glenn dolcemente. «Con Quain e Spivak fu scelto per la Fondazione, lei mi ha detto, mentre lei fu respinto. E questo fu un colpo grave. È impossibile che non abbia patito un sentimento di invi­diosa gelosia...»

«Sì, ma non un sentimento omicida!»

«Inconsciamente, sì! L’inconscio non ha princìpi morali. È cieco ed egoista all’estremo. Il tempo non esiste e le contraddizioni non hanno valore, per l’inconscio. Lei ha desiderato il male per il suo amico Chittum, e alla sua morte ha cominciato a sopportare le conseguenze di quel desiderio colpevo­le.»

«Molto convincente!», urlò quasi Barbee. «Ma dimentica un piccolo parti­colare: che io ho fatto quel sogno prima di sapere che Rex era stato ucciso.»

«Lo so che lei lo pensa. Ma la mente ci gioca strani tiri, quando siamo in preda a certe emozioni, relativamente a cause ed effetti. Forse ha inventato il sogno dopo aver saputo della morte del suo amico, e invertito la sequenza dei fatti per trasformare le conseguenze in causa. O forse prevedeva che dovesse morire.»

«E in che modo?»

«Poteva sapere che doveva passare in macchina a Sardis Hill. Sapeva di certo che doveva essere stanchissimo e avere una gran fretta.» Gli occhi apa­tici si socchiusero. «E, mi dica... non sapeva proprio nulla dei freni difettosi di quella macchina?»

Barbee dischiuse appena la bocca, stupito.

«Nora mi aveva detto che avevano bisogno di una ripassata.»

«Non vede, dunque, anche lei? L’inconscio è attentissimo a ogni stimolo e coglie qualsiasi occasione, si serve di qualunque stratagemma per esprimersi. Lei sapeva, coricandosi, che Chittum aveva tutte le probabilità di rompersi l’osso del collo su Sardis Hill.»

«Probabilità», ripeté Barbee, con un brivido. «Forse lei ha ragione.»

I freddi occhi nocciola erano fissi sul giornalista.

«Sono un uomo razionale, signor Barbee, e respingo ogni teoria sopranna­turale come superstizione. Il mio razionalismo si fonda esclusivamente su dati scientifici dimostrati in via sperimentale. Ma credo nell’inferno.»

Il bruno psichiatra sorrise.

«Perché ogni essere umano si fabbrica il suo piccolo inferno privato e lo popola con demoni di sua invenzione, che lo tormentino per i suoi peccati segreti, immaginari o reali che siano. È affar mio esplorare questi inferni individuali e smascherarne i diavoli per quel che sono. Di solito si rivelano meno terrificanti di quanto non sembrassero. Il Lupo Mannaro e la tigre dai denti a sciabola dei suoi sogni sono i suoi demoni privati, signor Barbee. Spero che le appaiano già meno terribili, ora.»

Ma Barbee crollò il capo.

«Non so... ma quei sogni sono stati d’una realtà impressionante.» E quasi con furore soggiunse: «Dottore, lei è maledettamente abile, ma in questo caso non si tratta di semplici allucinazioni create dal subcosciente. Sam e Nick stanno montando la guardia a qualcosa che ignoro, chiuso in quella cassa. Stanno ancora combattendo una battaglia accanita contro... non so che cosa. Sono amici miei, dottore». Parve sul punto di scoppiare in pianto. «Voglio aiutarli, non essere lo strumento dei loro nemici.»

Glenn annuì, soddisfattissimo.

«La sua stessa veemenza tende a confermare l’attendibilità della mia interpretazione, sebbene debba pregarla di non dare troppo peso ai miei com­menti improvvisati in questa seduta, che è soltanto esplorativa.» Piegò il cor­po da una parte per lanciare un’occhiata all’orologio. «Questo è tutto il tem­po che possiamo concederci per oggi. Se desidera restare a Glennhaven, pos­siamo rivederci domani. Penso che farebbe bene a prendersi un paio di gior­ni di riposo, prima di cominciare in modo organico i nostri rapporti clinici.»

Fece per alzarsi e avviarsi verso la porta, ma Barbee non si mosse dalla sua poltrona.

«Resto, dottore». La sua voce tremava come d’impazienza. «Ma c’è un’altra domanda che devo farle subito.» Scrutò il volto sereno e abbronzato di Glenn. «April Bell mi ha detto di averla consultata una volta. È forse dotata di poteri... soprannaturali?»

L’alta figura del medico si alzò lentamente dalla poltrona.

«Il segreto professionale m’impedisce di parlare dei miei pazienti», disse. «Ma se una risposta di carattere generico può darle qualche sollievo, le dirò che aiutai mio padre ad analizzare migliaia di casi di cosiddetti fenomeni metapsichici di ogni genere, e devo ancora trovare un caso in cui le ordinarie leggi della natura vengano meno.»

Si volse fermamente verso la porta, ma Barbee rimase ancora seduto.

«Il solo contributo scientifico realmente valido ai fenomeni metapsichici e di criptestesia è stato dato dagli studi fatti alla Duke University», aggiunse Glenn. «Alcuni dei risultati pubblicati tendenti a dimostrare la realtà della metapsichica e il controllo mentale delle probabilità sono abbastanza convin­centi... ma temo che il desiderio di dimostrare l’esistenza di un mondo so­prannaturale abbia accecato i ricercatori, fino a far loro commettere qualche grave menda nei loro metodi sperimentali o statistici.» Scosse il capo, con enfasi rattenuta. «L’universo è per me rigorosamente meccanicistico. Ogni fenomeno che vi si verifica, dalla nascita delle stelle alla tendenza degli uo­mini a vivere nel timore di forze soprannaturali, era già implicito nel super-atomo primitivo dalla cui esplosiva energia cosmica l’universo trasse appunto origine. Gli sforzi che alcuni eminenti scienziati vanno facendo per trovare giustificazione a una libera volontà umana e a una funzione creativa sopran­naturale, che ovviino all’errore rappresentato, nella descrizione meccanicisti­ca, dal principio di indeterminazione di Heisenberg, questi futili sforzi sono così patetici per me come il tentativo pagliaccesco di uno stregone di far piovere, spruzzando il terreno con un po’ d’acqua. Tutto il cosiddetto so­prannaturale, signor Barbee, è pura illusione, basata su emozioni male inca­nalate, osservazioni poco precise e pensieri irrazionali.» La calma faccia ab­bronzata sorrise, rincuorante. «Questo la fa sentire meglio?»

«Sì, dottore.» Barbee gli prese la mano forte e nervosa, e provò ancora quello strano senso di agnizione, come se avesse ritrovato un forte vincolo dimenticato che li legasse l’uno all’altro. Glenn, pensò, sarebbe stato un al­leato potentissimo.

«Grazie», gli disse. «È esattamente quello che avevo bisogno di sentirmi dire!»

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