16.

Intirizzito, gelato nella sua vestaglia di cotone rosso, Barbee trovò nelle tenebre la sua macchina dove l’aveva lasciata, nel parcheggio dietro l’edificio principale. Tratto il mazzo di chiavi di tasca, cercò di avviare il motore facen­do il meno rumore possibile. Un faro si accese improvviso, mentre lui faceva marcia indietro per imboccare il viale, e un omaccione vestito di bianco uscì dall’edificio, urlandogli qualche cosa. Ma Barbee non si fermò, lanciò la mac­china a tutta velocità, evitò per miracolo alla fine del viale il custode che agitava pazzamente le braccia e imboccò l’autostrada buia.

Guardando con ansia nello specchietto, vide che nessuno lo inseguiva, e allora rallentò, per dirigersi verso Clarendon lungo la nuova strada che fian­cheggiava il fiume, scrutando intanto le tenebre per scoprire la cieca fuggia­sca. Vedeva ogni tanto il lampeggiare dei fari delle rare automobili che, in lontananza, passavano sull’autostrada, ma sulla via lungo il fiume il traffico era nullo.

La speranza di trovare Rowena cominciò ad affievolirsi quando giunse in vista del ponte, perché quel ponte era a oltre tre chilometri da Glennhaven e la cieca non poteva essere giunta da sola fin là, senza guida.

E proprio in quell’istante la scorse, figura alta e solitaria, angolosa, che camminava con un passo lungo e legato, frettoloso, proprio davanti alla sua macchina. Era vestita di nero e, nelle tenebre, gli si era materializzata im­provvisamente a breve distanza, tanto che Barbee si buttò con tutto il corpo sul freno, certo d’investirla.

Ma non l’aveva toccata. Barbee trasse un profondo sospiro di sollievo e lentamente fermò la macchina. Era arrivato in tempo per salvarla dal mostruoso pericolo che incombeva sul suo capo e gettare all’aria almeno uno dei piani del misterioso Figlio della Notte.

Si era appena fermato, quando vide i fari di un’altra macchina alle sue spal­le. Non c’era altro da fare, si disse, che prendere la cieca in macchina e portarla da Sam Quain. Un gesto tanto leale avrebbe restituito a Rowena l’antica sua fiducia in lui e sopito gli irragionevoli sospetti di Sam. Ma la cieca aveva udito lo stridere dei freni della sua macchina, perché ora correva via pazzamente nel cono di luce bianca gettato dai fari dell’auto. Poi la pove­retta inciampò nel rialzo di cemento ai margini della strada, cadde carponi e si rialzò traballando, mentre lui, sceso di macchina, le gridava:

«Rowena, aspettami!... Voglio aiutarti!». La donna parve sobbalzare, nel volgersi ad ascoltare. «Lascia che ti aiuti a salire sulla mia macchina, e ti porto da Sam Quain!»

Ma la cieca riconobbe la sua voce, aprì la bocca in un urlo di terrore infinito e si rimise a correre, finché non andò a urtare contro il parapetto di cemen­to; allora, tenendovi sopra la mano come su una guida, lo seguì e si allontanò sopra il ponte.

Come istupidito, Barbee rimase fermo un istante; i fari della macchina inseguitrice si stavano avvicinando. Aveva pochissimo tempo per prendere Ro­wena a bordo, se voleva che arrivasse sana e salva da Sam. Ingranò la marcia, spinse l’acceleratore... e l’antica ombra di sgomento scese su di lui come una cappa tenebrosa.

In quel momento aveva visto la lupa bianca.

Sapeva che non avrebbe potuto vederla, perché in quel momento non so­gnava, e le mani ossute e pelose che stringevano tremanti il volante erano mani umane.

La lupa balzò con languida eleganza dalle ombre oltre il margine della stra­da e venne a sedersi nel mezzo della pista di cemento. La luce dei fari traeva serici riflessi dal suo bianco mantello e rendeva fosforescenti gli straordinari occhi verdi. La luce doveva darle una gran noia, ma lui la vide sogghignare, la rosea lingua pendula da un lato.

Ancora una volta Barbee schiacciò freneticamente il pedale del freno, ma non fece a tempo a fermare la macchina appena avviata. Nemmeno il tempo di chiedersi se la lupa fosse reale o soltanto la folle immaginazione di un accesso di delirium tremens. S’era venuta a sedere troppo vicino alla mac­china, e lui, automaticamente, sterzò per non schiacciarla.

Il parafango sinistro cozzò contro la barriera di cemento. Il volante parve affondarglisi nel petto, mentre la sua testa entrava in durissimo contatto col parabrezza. L’urlo dei freni, il fragore del metallo e dei cristalli che si spezza­vano, tutto si dissolse in una muta tenebra.

Il colpo alla testa doveva averlo stordito, ma solo per pochi istanti, perché lui si riadagiò a un tratto contro lo schienale del sedile, le mani sul volante, mentre cercava di riempirsi d’aria i polmoni e si accorgeva che il suo mal di capo era tornato più violento che mai.

Tremando al freddo della notte, si strinse attorno al corpo rinsecchito la sottile vestaglia di cotone. La macchina s’era fermata diagonalmente attra­verso il ponte. Il motore era spento, ma il fanale destro ardeva ancora.

Barbee fiutò nell’aria l’odore della benzina combusta e della gomma roven­te.

«Ottimo lavoro, Will!», guai allegramente la lupa bianca. «Sebbene non mi aspettassi che questa fosse la tua forma più spaventosa!» E la vide puntargli addosso il fuoco verde dei suoi occhi da dietro una massa oscura, immobile, nel bianco fascio di luce del fanale rimasto. Non riuscì a distinguere la massa informe ai piedi della lupa, ma nulla si muoveva sul ponte e non si udivano più i passi atterriti della cieca. Un dubbio atroce gli attanagliò il cuore.

«Lavoro preciso!», sogghignò ancora la lupa. «Ho potuto sentire il circuito quando ti ho chiamato poco fa: una cieca in fuga sull’autostrada, vestita di nero nel buio della notte e troppo impaurita per sentire l’arrivo improvviso di un’automobile, rappresenta una quasi certa probabilità di morte. Noi l’ab­biamo afferrata molto abilmente. E credo, in fondo, che la tua forma fosse per lei la più spaventosa che si possa immaginare. La sua collana si è spezza­ta e tutte le perline d’argento si sono perdute, quando l’hai urtata. Sarà ben difficile, ora, che possa dire a Sam Quain il nome del Figlio della Notte.»

La lupa bianca girò bruscamente il capo, rizzando le orecchie aguzze.

«Stanno arrivando, quegli sciocchi di Glennhaven... Corri, Barbee, lascia la morta dove si trova!»

«La morta!», ansimò Barbee. «Che cosa... che cosa mi hai fatto fare?»

«Il tuo dovere nella nostra lotta contro il genere umano! E contro i bastardi traditori, come questa vedova, che cercano di rivolgere i poteri del nostro sangue contro di noi! Tu hai dato prova di te stesso, Barbee... Ora so che sei completamente con noi... Ma corri! Non farti trovare qui!» E con un balzo lunghissimo si allontanò nelle tenebre.

Barbee rimase inerte, nella luce dell’automobile che si avvicinava. Poi scese e si avvicinò alla forma vestita di nero che giaceva immobile davanti all’oc­chio solitario della sua macchina. Singhiozzando di disperazione e di pietà raccolse il povero corpo tra le braccia: ma era troppo pesante per le sue forze esauste. E allora lo riadagiò per terra. Non c’era altro da fare.

«Scappa, Will!» La voce della lupa gli giunse dalle tenebre. «O ti accuseran­no di averla uccisa. Raggiungimi a casa mia, al Trojan Arms; e insieme ci recheremo dal Figlio della Notte!»

Improvvisamente, il panico s’impadronì di lui. Semiaccecato dalle luci della macchina vicinissima, ormai, ritornò con un salto dietro il volante e premette il bottone della messa in moto. Il motore rombò obbediente, e allora lui cercò di fare marcia indietro, per staccarsi dal parapetto. Ma il volante non voleva girare. Si precipitò nuovamente fuori, nel bagliore bianchissimo del faro, e vide che il parafango s’era ripiegato contro la ruota.

Cercò con le deboli mani tremanti, di raddrizzare quel maledetto parafan­go; ma le mani gli scivolavano, il metallo era duro e tagliente. Alla fine, cedette.

L’altra macchina venne a fermarsi immediatamente contro la sua.

«Ma, signor Barbee!» La voce seccata che proveniva da dietro il fulgore accecante dell’altra macchina era quello del dottor Bunzel. «Vedo che ha avuto un piccolo incidente!»

Barbee, frugando disperatamente sotto il parafango, constatò finalmente che il pneumatico non lo toccava più. Senza rispondere, tornò in gran fretta sulla macchina, tremando di terrore e di emozione.

«Un momento, signor Barbee!» Udì un rumore di passi frettolosi sull’asfal­to. «Lei ha diritto a essere trattato con la massima cortesia possibile finché rimane nostro ospite a Glennhaven, ma non dovrebbe ignorare che non può condursi come in un albergo, salvo permesso speciale del dottor Glenn. Temo che saremo costretti a...»

Barbee non si curò di ascoltare oltre. Tra un fracasso di ferraglia e di vetri triturati ingranò la marcia indietro, cozzò violentemente contro l’altra auto, sterzò, ripartì a tutto acceleratore, spinto da una paura mostruosa, frenetica. Udì per un istante la voce di prima che urlava:

«Barbee!... si fermi...».

I fari dell’altra macchina erano scomparsi, e lui, scansando per miracolo il corpo per terra e slittando per un istante su qualcosa di viscido, rombava ora a tutta velocità sul ponte.

L’altra macchina non poteva più inseguirlo. Calcolò che, costretto a tornare a piedi a Glennhaven, Bunzel non avrebbe potuto telefonare alla polizia pri­ma di mezz’ora. Ma all’alba tutta la polizia di Clarendon si sarebbe lanciata alla ricerca di un pazzo furioso, che, affetto da mania omicida, correva le campagne in vestaglia rossa su una vecchia macchina chiusa macchiata di sangue.

La disperata solitudine di chi precipita negli abissi del cosmo s’impadronì di lui mentre guidava la sua traballante automobile nella notte. Solitudine, di­sperazione, orrore. Qual era la realtà? Quale la sua allucinazione? L’univer­so intorno a lui era divenuto improvvisamente incomprensibile. E nessuno a cui rivolgersi, a cui chiedere aiuto!

Quando fu nei pressi dell’università, fermò la macchina in una viuzza secon­daria, dietro un vasto deposito di legnami, e si avviò zoppicando verso la casa di Sam Quain. Albeggiava.

Dominò l’impulso frenetico di mettersi a correre e di nascondersi in un’al­tra viuzza, nel vedere un ragazzino con un pacco di giornali venirgli incontro in bicicletta, gettando un giornale ripiegato davanti a ogni porta. Cercando di darsi l’aria di un abitante del rione, appena alzato e uscito sulla soglia a dare un’occhiata al tempo, si fermò sull’orlo del marciapiede, frugandosi nel­le tasche della vestaglia in cerca di spiccioli per il giornale.

«Lo Star,signore?»

Barbee annuì:

«Tieni il resto».

Il ragazzino gli porse una copia e ne gettò un’altra verso la porta alle sue spalle, poi si allontanò pedalando; ma non senza avere lanciato, prima, un’occhiata penetrante alla vestaglia rossa.

In gran fretta, Barbee aprì il giornale e i neri caratteri del titolo lo colpiro­no come una mazzata:


UNA MALEDIZIONE PREISTORICA

O UN ASSASSINO IN CARNE E OSSA FA LA SUA TERZA VITTIMA


Nicholas Spivak, 31 anni, antropologo dell’Istituto di Ricerche, è stato trovato cadavere stama­ne ai piedi della torre dell’Istituto, mentre una finestra era aperta al nono piano della torre. Il cadavere è stato trovato da due guardie speciali, assunte dall’Istituto dopo che la morte aveva colpito due altri scienziati della Fondazione nel corso della settimana.

Una maledizione preistorica perseguita forse i membri della spedizione tornati recentemente a Clarendon dai tumuli della Mongolia? I membri superstiti della spedizione smentiscono qualsiasi voce relativa a cose particolarmente misteriose che avrebbero dissotterrato dai presunti luoghi d’origine del genere umano, in quello che è oggi il deserto dell’Ala-shan, ma la morte di Spivak porta ora a tre il numero delle vittime tra coloro che parteciparono alla spedizione.

Si cerca il dottor Samuel Quain, altro membro dell’Istituto, per informazioni in merito alla morte di Spivak, a quanto dichiarano il capo della polizia Oscar Shay e lo sceriffo T.E. Parker, secondo i quali la sua testimonianza dovrebbe gettare nuova luce sulle bizzarre coincidenze dei precedenti decessi.

Ridendo della teoria relativa alla maledizione, Shay e Parker hanno lasciato intendere che una cassa dipinta di verde, portata dagli esploratori dall’Asia, potrebbe contenere una spiegazione meno misteriosa, ma più sinistra, dei tre decessi. Si ritiene che Quain fosse solo con Spivak nella stanza della torre, da cui le autorità di polizia dichiarano che cadde o fu gettato, schiacciandosi al suolo.


Il giornale sfuggì tra le dita intirizzite di Barbee. Pure, Quain non poteva essere l’assassino. Era impensabile.

Un assassino, tuttavia, doveva pur esserci. Con la morte di Rowena, ormai le vittime salivano a quattro. Un cervello spietato sembrava essere all’opera, spietato e fornito di poteri soprannaturali: il cervello, ovviamente, del Figlio della Notte. Ammesso che questo nome celasse veramente un’entità pensan­te.

Incerto ormai su tutto e su tutti, Barbee si affrettò per le quiete viuzze verso la casa di Sam, cercando di aver l’aria di chi ritiene che una passeggiata mattutina in una svolazzante vestaglia rossa sia la cosa più naturale di questo mondo.

Eppure il mondo esterno, nel suo risvegliarsi al primo mattino autunnale, aveva un’aria quanto mai normale e credibile. Come il sorriso allegro che gli rivolse l’uomo in tuta, in attesa col pacchetto della colazione presso la ferma­ta dell’autobus, un muratore, probabilmente, si disse Barbee.

Ma, ragionò Barbee allontanandosi a passo sempre più rapido, incalzato dai suoi fantasmi, la città, così tranquilla e normale e reale, in verità si nasconde­va sotto l’illusoria parvenza di un velo dipinto. La sua atmosfera lievemente assonnata celava orrori misteriosi, troppo terrificanti perché una mente sana potesse considerarli. Anche il muratore che gli aveva sorriso, col suo pac­chetto della colazione sotto il braccio, quello stesso muratore poteva essere il Figlio della Notte.

Nora venne ad aprirgli, con gli occhi rossi per la veglia e le lacrime. Era mortalmente pallida, e la sua tonda faccia lievemente lentigginosa esprimeva lo sconvolgimento in cui si trovava.

«Oh, Will!», esclamò affettuosamente. «Come mi fa piacere che tu sia venu­to! Dio, che notte è stata mai questa!» Ma nel vederlo a sua volta così scon­volto e disperato in quella strana acconciatura, gli fece un pallido sorriso di conforto. «Anche tu hai l’aria stanca, Will! Vieni in cucina, ti verso una tazza di caffè...»

La seguì in cucina col cuore gonfio di gratitudine. Batteva i denti dal fred­do.

«Sam è in casa?», domandò ansioso. «Ho assoluto bisogno di parlargli.»

Lei lo guardò con occhi dolenti.

«No, non c’è», rispose laconicamente.

«Strano, ho visto davanti alla porta la giardinetta della Fondazione», osser­vò. «Credevo che Sam fosse in casa.»

Le labbra esangui di Nora si strinsero in un deciso riserbo. Camminarono in punta di piedi, passando davanti alla porta della nursery,e Barbee vide che le labbra di Nora tremavano, come se stesse per piangere.

«Pat è ancora addormentata», sussurrò. «Credevo che si sarebbe svegliata, quando è venuta la polizia. Sono rimasti qui ore e ore, cercando di farmi dire dove fosse andato Sam...» Dovette vedere il sussulto di Barbee, perché si affrettò ad aggiungere con dolcezza: «Non preoccuparti, Will, non ho detto loro che mi avevi telefonato di avvertire Sam».

«Grazie, Nora», e Barbee si strinse nelle spalle, sotto la sua vestaglia rossa. «Non che la cosa possa avere grande importanza, ma la polizia mi sta cercan­do per qualcosa di più grave ancora.»

Nora non fece domande. Ma gli versò una tazza di caffè dalla caffettiera sul fornello elettrico, e glielo servì con un piattino di crema e la zuccheriera.

«Grazie, Nora», ripeté lui. Sorseggiò la bevanda bollente, gli occhi pieni di lacrime di riconoscenza e di dolore. La sua solitaria disperazione si disciolse dal duro nodo in cui s’era raggrumata nel suo cuore, e improvvisamente an­nunciò proprio la cosa che non avrebbe voluto dire:

«Rowena Mondrick è morta!».

Nora lo guardò muta, gli stanchi occhi sbarrati.

«È scappata da Glennhaven.» Una stolida perplessità gli rendeva la voce lenta e incerta. «È stata trovata morta sul ponte del Deer Creeck. La polizia crede che io l’abbia investita. Ma non è vero!» La sua voce si ruppe in una nota troppo alta e stridula. «Non sono stato io!»

Nora sedette davanti a lui, dall’altra parte del tavolo di cucina. Scrutò il suo volto emaciato, e alla fine assentì, con un lieve sorriso di comprensione inte­nerita.

«Parli e ti comporti esattamente come Sam», disse poi. «Era così stravolto, non riusciva a capire, e non sapeva che cosa gli convenisse fare.» Ancora una pausa, durante la quale il suo sguardo indugiò sulla faccia contratta di Barbee. «Will, c’è qualcosa di spaventevole sotto questa tragedia. Sono convinta che ne sei vittima innocente, proprio come Sam. Tu credi... credi veramente di poterlo aiutare?»

«Credo che possiamo aiutarci a vicenda.»

La donna rimase in silenzio un istante, mentre lui rimescolava il caffè.

«Allora ti dirò di Sam», decise alla fine, inghiottendo la saliva come se stes­se soffocando. «Perché Sam... ha bisogno di aiuto, terribilmente bisogno!»

«Farò tutto quello che posso. Dove si trova ora?»

«Non lo so... davvero!» Scosse la testa bionda, esasperata. «Non s’è fidato nemmeno di me... è questa la cosa terribile.» Inghiottì ancora, prima di dire: «Ho paura di non vederlo... più!».

«Puoi dirmi esattamente che cosa è successo?»

Lei cercò di vincere i singhiozzi. «L’ho chiamato subito dopo la tua telefo­nata. Gli ho detto che secondo te la polizia sarebbe venuta a cercarlo per interrogarlo sulla morte di Nick.» Guardò Barbee con aria perplessa. «Aveva una strana voce, quando gli ho detto questo. Mi ha chiesto come facessi tu a saperlo.» La sua voce si fece più recisa. «Come lo hai saputo, Will?»

Barbee non riuscì a guardarla negli occhi. «Sai, i miei soliti informatori.» Si mosse a disagio, ripetendo la bugia inconsistente. «Non posso compromette­re chi mi aiuta nel mio mestiere.» Fu per rovesciare il caffè, e mormorò: «Insomma, che altro ha fatto Sam?».

«M’ha detto che doveva assolutamente scappare, ma non poteva dirmi dove. L’ho pregato di venire prima a casa, ma ha detto che non ne aveva il tempo. Perché non poteva dare spiegazioni alla polizia? ho chiesto. Perché non lo avrebbero creduto, m’ha risposto. Ha detto che i suoi nemici lo aveva­no messo nei guai con molta abilità... Ma chi sono i suoi nemici, Will?»

Barbee scosse il capo come un automa.

«È tutto un complotto, Will!», riprese, con voce che il terrore soffocava. «La polizia mi ha mostrato alcune cose che ha trovato... per farmi parlare. Mi ha detto quello che pensa. Non... non ci posso credere!»

«Che cosa ti hanno fatto vedere?»

«C’è un biglietto», rispose Nora debolmente, «scritto su un pezzo di carta gialla con la calligrafia di Sam... o un’imitazione della sua scrittura. Dice come abbiano bisticciato, tornando dalla spedizione, per il tesoro che aveva­no nella cassa. Sam lo voleva per sé, e ha cercato di convincere Nick ad aiutarlo... questo dice il biglietto.»

Nora scosse il capo in una frenetica protesta. «Il biglietto dice anche che Sam avrebbe dato a Mondrick una dose eccessiva della sua medicina per il cuore, per ucciderlo all’aeroporto e impedirgli così di riporre il tesoro nel museo dell’Istituto. Sam poi avrebbe indebolito i freni e lo sterzo della no­stra macchina, così che Rex sbandasse su Sardis Hill... è strano che Sam do­vesse imprestargli la nostra vecchia macchina, quando all’Istituto ci sono macchine molto migliori. E infine il biglietto dice che Nick aveva paura che Sam volesse ucciderlo, per mantenere il segreto sugli altri assassini e avere il tesoro tutto per sé.»

Nora fu scossa da un singulto e la sua voce si fece più acuta. «La polizia crede al biglietto, capisci. Crede che sia stato Nick a scrivere in realtà il bi­glietto. Dicono che Sam e lui erano soli nella stanza. Hanno trovato una sedia spezzata, e una striscia di sangue fino alla finestra. Sono persuasi che Sam abbia ucciso Nick e poi lo abbia gettato dalla finestra... ma tu sai che Nick pativa di sonnambulismo... Ricordi, vero?»

Barbee annuì, e vide la disperata speranza della donna.

«Ricordo», disse, «e non credo che sia stato Nick a scrivere quel biglietto.»

Era stata la lupa, pensò, quand’era balzata sul tavolo di Nick e aveva preso la sua matita nella zampa... ma questo faceva parte della sua pazzia, non poteva parlarne a nessuno, nemmeno a Nora.

Barbee guardò la macchina dell’Istituto dalla finestra della cucina e indi­candola col mento domandò:

«Sam dunque è venuto qui?».

«Oh!... Sam me l’ha mandata con un uomo dal garage della Fondazione perché la usassi al posto della nostra... quella in cui Rex si è ammazzato. Sam mi aveva detto al telefono che il nemico non avrebbe riconosciuto la nostra automobile, e invece...»

Barbee abbassò ancora gli occhi sul resto del suo caffè. «E non sai nulla di Sam?»

«So solo che se n’è andato.» Si asciugò le lacrime che continuavano a col­marle gli occhi. «Ma non so dove. Mi ha detto che la morte dei suoi tre amici gli imponeva un dovere importantissimo, che deve adempiere da solo. Non mi ha detto di che si tratta. Gli ho consigliato di prendere questa macchina, ma mi ha risposto che non aveva tempo di venire a casa. Contava di prende­re un furgone dell’Istituto.»

Si soffiò il naso in un tovagliolo di carta. «Will», mormorò, «che cosa pos­siamo fare per aiutarlo?»

«Dobbiamo innanzi tutto trovarlo», disse Barbee, alzando la tazza con mano tremante, per inghiottire l’ultimo sorso di caffè. «Ma io credo di sape­re... di sapere dove posso trovarlo. Perché lui sa che tutti gli agenti di polizia di quattro Stati saranno sguinzagliati alla ricerca di quel furgone entro mez­zogiorno. Credo di sapere dove Sam andrebbe in un caso del genere.»

Nora si chinò su di lui con espressione implorante sul volto.

«Dove, Will? Ti prego, dimmi, dove credi di poterlo trovare?»

«È solo una supposizione», e Barbee si agitò inquieto nella sua vestaglia rossa, «forse mi sbaglio, ma non credo. Se non mi sbaglio, anche questa volta è meglio che tu non sappia. Immagino che la polizia sarà presto di nuovo qui... alla ricerca di me come di Sam.»

Lei si portò le mani alla gola. «La polizia!», ripeté. «Will, non l’avvertirai, vero, del nascondiglio di Sam?», domandò con improvvisa diffidenza. «E non ti farai scoprire?»

«Ma no, mia povera Nora!», non poté fare a meno di sorridere. «Saprò essere prudente, non sono meno in pericolo di Sam, sai. E ora, se tu mi dessi un po’ di roba da portargli? Abiti pesanti, stivali, sacco a pelo, fiammiferi, una padella, un po’ di scatolame, una carabina... immagino che tu abbia qui almeno una parte del suo equipaggiamento leggero della spedizione.»

Lei assentì col capo, pronta a muoversi.

«E avrò bisogno di quella macchina», aggiunse Barbee, «per raggiungerlo.»

«Prendila pure. Prendi tutto quello che ti occorre... e lascia che io gli scriva un biglietto.»

«Sì, ma facciamo presto, Nora. Dobbiamo aiutare Sam per qualcosa ancora più importante della sua sicurezza personale. Lui è l’ultima speranza... con­tro qualcosa peggiore di quanto la maggior parte degli uomini abbia mai te­muto.»

«Lo so, Will. Sam non ha mai voluto dirmi nulla, ma io l’ho sentito, questo, fin dall’istante in cui atterrarono al’aeroporto. È come se qualcosa si anni­dasse nell’ombra, invisibile, sogghignante, orrendo, troppo orrendo per avere un nome.»

Ma l’aveva un nome, pensò Barbee. E questo nome era: il Figlio della Not­te.

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