8.

Si adagiò accanto alla lupa. Le esalazioni della cassa si facevano sempre più gradevoli e stupefacenti, quelle esalazioni, misteriose, antichissime, più anti­che della storia, d’una sostanza occulta, rimasta sepolta per millenni sotto le sabbie dell’Ala-shan, insieme con le ossa delle sue vittime.

Barbee aspirò ancora l’aria corrotta, profondamente. Un sonno immenso, meraviglioso, calava su di lui con le nere ali d’un vampiro grande come la notte. Chiuse gli occhi...

Mentre la lupa, in un estremo sforzo di consapevolezza, riapriva i suoi:

«Barbee, svegliati! Lasciami, Barbee, esci di qua... prima di morire!».

La potenza magnetica della sua volontà aveva ormai un tale dominio sulla psiche di Barbee, che il lupo grigio obbedì all’ingiunzione disperata. Si solle­vò sulle zampe malferme e, incapace di lasciarla, la prese per la morbida pelle del collo e lentamente, con uno sforzo gigantesco, la trascinò verso la porta, il più lontano possibile dalle emanazioni della cassa. Ma la porta si era di nuovo ricomposta in una solida barriera di materia compatta.

Debole, la volontà della lupa bianca gli trasmise un nuovo comando:

«Fissa la porta... Cerca di aprire la porta, dissolvendola... Io ti aiuterò con tutta la mia volontà...».

Barbee fissava ora i pannelli della porta, cercava a tentoni, ogni tanto, un passaggio attraverso la loro compatta sostanza. Soltanto le probabilità sono reali, si ripeteva. Ma la porta restava impenetrabile. Sentì a un tratto il tre­mito dello sforzo immane che tendeva tutte le energie della bianca lupa al suo fianco. Tentò di unire la sua volontà a quello sforzo titanico, e lentamen­te, in modo vago, ebbe coscienza d’una nuova forza, d’un senso bizzarro di dilatazione e di potenza. Un grumo nebbioso apparve nel pannello. Provò ad allargarlo. Il grumo si dilatò, a poco a poco divenne una cortina di vapori che alla fine si sciolse, lasciando un’apertura sufficiente al passaggio. Ripresa la lupa per la pelliccia, Barbee la trasse al di là della porta, dove l’effluvio letale non poteva più raggiungerli.

Giacquero entrambi sul pavimento, ansanti, ebbri di stanchezza. Appena percettibile, nello studio sbarrato dietro di loro, s’udì la voce impaziente d’un telefonista risuonare nel microfono abbandonato sulla scrivania. Poi nella casa echeggiò un singhiozzo di Nora, dominata dal terrore pur nel fati­coso dormiveglia in cui era immersa:

«Sam!... Sam!».

Il letto gemette, mentre Sam Quain si voltava agitato, ma senza svegliarsi del tutto. Barbee, soffocando, perché il terribile fetore aveva cominciato a trapelare dalla porta, riuscì a spingere a colpi di muso e di spalla la lupa bianca, attraverso la cucina di Nora, fino in giardino e poi sul prato.

Salvi! La luce zodiacale andava già levando la sua colonna di pallido argen­to a oriente. Nelle fattorie oltre la città s’udivano i galli cantare. Un cane ululava chi sa dove. Il pericolo dell’alba s’avvicinava e la lupa bianca era sempre come priva di vita.

Disperato, cominciò a lambirle la candida pelliccia. Il corpo sottile della lupa cominciò a palpitare, come sotto una respirazione che riprendesse il suo ritmo regolare. Debolmente, si rialzò. Ansimava, la rossa lingua penzolante. Gli occhi erano colmi di terrore.

«Oh, Will, sarei morta in quella trappola, se tu non mi avessi portata fuori!» Le si incupirono maggiormente gli occhi. «Ciò che quella cassa contiene è ancora più letale di quanto immaginassi. Non siamo in grado di distruggerlo. Possiamo solo colpire coloro che sperano di usarlo contro di noi... e poi sep­pellirlo di nuovo, finché non sia di nuovo dimenticato, come sotto quei tumu­li dell’Ala-shan.»

Barbee scosse la testa, riluttante:

«Colpire Sam? Nick? Rex?».

«Tu non hai più amici tra gli esseri umani, Will, perché tutti gli uomini ci ammazzerebbero, se sapessero. È nostro dovere distruggere tutti i nemici del Figlio della Notte, prima di morire. Ma Quain non è più il primo della lista, dopo la telefonata che sai. È alla vedova di Mondrick che dobbiamo pensare, prima che riesca a parlargli.»

«No, io non farò del male a quella povera donna! E tu dimentichi la sua cecità, perché è una creatura umana così reale...»

«Ma tu non lo sei, Will...» E ancora una volta il muso lungo e sottile della lupa parve tendersi in un sogghigno. «E non credo che lo sia del tutto nem­meno lei. Deve avere abbastanza del nostro sangue, per essere così pericolo­sa per la nostra specie. Ha imparato, poi, troppe cose dal marito e troppe altre deve averne viste in Africa. È un’avversaria temibile, ma noi dobbiamo tentare...»

«No, io non farò nulla contro Rowena!»

«Tu farai quello che devi fare, Will, perché sei quello che sei. Tu sei libero, questa notte, e tutte le tue inibizioni umane sono rimaste col tuo corpo ad­dormentato. E stai correndo con me questa notte, come la nostra razza spen­ta correva un tempo, e abbiamo una preda umana da inseguire. Vieni, Will, prima che sia giorno.»

Attraversarono veloci e lievi il gran prato, con la gradevole sensazione della brina che crepitava dolcemente sotto i loro cuscinetti, vigili a ogni suono e odore della città dormiente, e perfino i graveolenti sentori di un camion che passava — quello del lattaio — parevano fragranti, ora, dopo il fetore che li aveva quasi uccisi nello studio di Quain.

A ovest dell’università, in University Avenue, si fermarono presso la vecchia casa di mattoni, dal giardino incolto. Barbee rimase indietro, nel vedere il velo di crespo nero pendere dalla porta d’ingresso, ma la lupa sottile e veloce si volse a guardarlo invitante, e il suo odore di bosco finì per dissolvere le sue ultime perplessità. Perché il suo corpo, ormai, giaceva lontano, e i suoi ceppi umani erano spezzati. La cosa che per lui contava di più era quella lupa bianca, così viva e affascinante. Lui era con il suo branco, ora, in cui tutti seguivano il Figlio della Notte. Attese con lei, presso la porta, che i pannelli si dissolvessero.

La lupa bianca sussultò accanto a lui, e le nari di Barbee percepirono l’odo­re acuto e disgustoso di cane. A entrambi il pelo si rizzò ispido sul collo e la lupa bianca emise un ringhio sommesso e prolungato.

A poco a poco, Barbee vide la parte inferiore della porta sfumare nell’ir­realtà e poi, oltre la minuscola anticamera, la stanza così familiare, con la nera caverna del caminetto e la massa scura del gran piano a coda di Rowena. S’udirono anche dei passi frettolosi e si scorsero vaghe ombre muoversi nella casa buia. La serratura scattò e la porta fu spalancata di colpo.

La lupa si ritrasse con un balzo dietro il suo compagno, digrignando silen­ziosamente i denti. Un’ondata di odori li sommerse, irrompendo dalla porta spalancata: quello della stufetta a gas che ardeva nel camino, e la densa dol­cezza delle rose sul pianoforte; c’era anche il profumo di lavanda e di naftali­na delle vesti di Rowena Mondrick e l’acre e caldo odore spaurito del suo corpo. Ma su ogni altro sentore dominava quello di cane.

Quel lezzo lo colmò di un terrore più antico ancora del genere umano, destando in lui un odio di razza implacabile. Col pelo irto, le zanne a nudo, s’acquattò per affrontare un nemico da epoche immemorabili.

Rowena Mondrick comparve sulla soglia, con al fianco, al guinzaglio, l’e­norme cane che ringhiava sordamente. Avvolta in una vestaglia di seta nera, si fermò sulla soglia, alta e severamente eretta. La luce lontana di un lampio­ne trasse riflessi pallidi dalla collana d’argento che aveva sul seno e dai brac­ciali e anelli d’argento massiccio. Rifulse gelida sulla punta di uno stiletto argenteo che la donna impugnava.

«Aiutami», Barbee sentì che la lupa gli diceva, «aiutami ad abbatterla!»

Quella cieca alta e sottile, che stringeva un pugnale acuminato e aveva ac­canto a sé una belva minacciosa, era stata un tempo sua amica. Ma ora Bar­bee sentì di odiarla, di detestare l’essere umano che era. Strisciando sul ven­tre, i due lupi mossero verso la preda.

«Cercherò di afferrarla al braccio, mentre tu devi saltarle alla gola prima che possa servirsi di quella lama d’argento», fu l’ordine di April.

La faccia bianca e sottile di Rowena era stanca, oscurata da una tristezza senza nome. La cieca piegò il capo da una parte e Barbee rabbrividì per la sconcertante impressione che le buie lenti nere potessero vederlo.

«Will Barbee.» Ella pronunciò il nome a bassa voce, dolcemente, chinando il viso verso di lui, come se lo vedesse. E in quella voce il tono era solo di lieve rimprovero. «Sapevo il pericolo che correvi, e ti ho avvertito di guardar­ti da quella piccola strega perversa, ma non avrei mai creduto che tu rinne­gassi la tua umanità così presto.»

Barbee si volse a guardare la lupa bianca, già disposto a desistere, ma il feroce scherno delle sue zanne scoperte lo fermò.

«È un grande dolore per me, Will», riprese la cieca, «che sia tu, ma ora so che hai ceduto al sangue nero che scorre nelle tue vene... avevo sempre sperato che tu potessi dominarlo: non tutti coloro che hanno sangue nero appartengono alla razza delle streghe, Will, lo so molto bene. Ma con te mi sono sbagliata.» Fece una pausa, più rigida che mai nella sua severa vestaglia di lutto. «So che sei qui, Will Barbee.» Gli parve di vederla rabbrividire, mentre stringeva con mano più ferma lo stiletto di puro argento. «E so quel­lo che vuoi.» Il cane fissava gli occhi gialli sulla lupa bianca, seguendone ogni movimento e ringhiando con segreta ferocia. «Lo so, ma non sarà facile ucci­dermi.»

La lupa, sempre strisciando, volse il capo a guardare il suo compagno: «Tienti pronto», lo avvertì. «Quando le sarò sotto il gomito!»

Il lupo grigio raccolse le forze e misurò la distanza che lo divideva dalla gola della cieca, pronto a balzare. Sapeva di dover obbedire, la sua umanità per­duta non era più che un vago sogno, e la sola realtà per lui era il presente, ormai.

«Ora!», disse la lupa. «In nome del Figlio della Notte!»

Balzò silenziosa, mentre il suo corpo sottile formava una fulminea parabola bianca e le sue zanne afferravano il braccio della cieca. In attesa che questa lasciasse cadere il pugnale, Barbee sentì una cupa ferocia salire dal più pro­fondo del suo essere, una sete divorante per la dolcezza del sangue.

«Will!», singhiozzò Rowena. «Tu non puoi...»

Trattenne il fiato, pronto a balzarle alla gola. Ma Turk lanciò un latrato, mentre Rowena, liberatolo, indietreggiava pazzamente trinciando l’aria con lo stiletto d’argento.

Torcendosi a mezz’aria, la lupa riuscì a evitare la lama. Ma i pesanti brac­cialetti della cieca la colpirono con forza sulla testa lunga e sottile. Cadde, il bianco corpo fremente, e il cane le fu sopra e la azzannò alla gola. Divinco­landosi sotto le sue fauci, gemette acutamente, e infine giacque immobile.

Quel gemito liberò completamente Barbee delle sue ultime perplessità. Le sue zanne nel ferire la gola del cane andarono a urtare contro il massiccio collare d’argento. Il dolore atroce causato dal freddo metallo lo fece trabal­lare, ottenebrandolo.

«Non lasciarla, Turk!», gridò la cieca.

Ma il gran cane aveva già abbandonato la lupa bianca e si girava per affron­tare l’attacco di Barbee. La lupa riuscì a risollevarsi e si volse per fuggire:

«Andiamo, Barbee. La donna ha troppo del nostro sangue nero, ed è trop­po forte. Non possiamo aver ragione di lei, del cane e dell’argento!».

E fuggì per il prato, seguita dal lupo grigio.

La cieca li inseguì, muovendosi con una libertà di movimento ch’era terribi­le, ora. Il lampione lontano traeva nuovi riflessi dai monili ch’erano la sua vera armatura, e dalla lama sottile dello stiletto d’argento.

«Prendili, Turk!», gridò con forza al cane. «Ammazzali!»

A fianco a fianco, la lupa bianca e il lupo grigio correvano per la lunga via silenziosa e deserta verso il prato dell’università. Barbee si sentiva annebbia­to e indolenzito dal duro colpo contro il massiccio collare d’argento e sapeva che il gran cane fulvo lo avrebbe raggiunto in breve. Già il suo rabbioso abbaiare gli era alle terga, e allora, presso il prato, si voltò bruscamente, per opporre al nemico una disperata resistenza.

Ma la lupa gli passò innanzi e corse incontro al cane. Saltellando graziosa davanti a Turk, si gettò poi di lato, fuggendo tentatrice, e il cane la seguì. Pareva irridere al suo assordante abbaiare coi suoi teneri guaiti. E così liberò il lupo grigio dal gran cane fulvo, attirandolo sempre più lontano, verso l’au­tostrada deserta, al di là del prato.

«Prendili, Turk!», urlava la cieca, ormai prossima a Barbee, che si ritrasse da lei in preda a un cupo malessere. «Tienili, finché non ti ho raggiunto.»

Barbee si accorse che la cieca lo seguiva correndo; ma era rimasta indietro di un intero blocco di case. A un tratto, inciampò contro l’orlo di un marcia­piede e la povera donna cadde distesa sul cemento.

Barbee sentì ancora una trafittura di compassione. La caduta improvvisa doveva averle fatto molto male. Ma l’istante dopo, la cieca era di nuovo in piedi e riprendeva l’inseguimento zoppicando. Il lupo grigio riprese il suo trotto silenzioso e imboccò finalmente l’autostrada dove aleggiava ancora l’odore della lupa frammisto a quello del cane.

Quando si volse nuovamente a guardare, sotto il semaforo ammiccante, là dove Central Street attraversava l’autostrada, la cieca aveva perso molto ter­reno. Un’auto stava venendo verso di loro. Barbee si ritrasse dalla luce abba­gliante dei suoi fari, che lo aveva semiaccecato, e si rifugiò in una viuzza laterale, in attesa che passasse. Quando ritornò sulla strada, Rowena era scomparsa.

Il lontano abbaiare di Turk s’era definitivamente perduto, ma l’odore della lupa aleggiava ancora nell’aria, sebbene molto più tenue. Seguendo quell’o­dore, il lupo grigio si lanciò per un dedalo di viuzze trasversali, che lo porta­rono alla fine davanti all’ampia distesa dello scalo ferroviario. L’odore della lupa vi era quasi impercettibile, dominato da quello del grasso di macchina e del carbone bruciato che impregnavano le traversine, e dell’acido solforico nel fumo delle locomotive. Barbee tuttavia riuscì a non perdere la lieve trac­cia, fino a quando una locomotiva in manovra gli si parò dinanzi sbuffando, un frenatore ritto sul predellino con una lampada in mano.

Il lupo balzò da una parte come una molla, ma un getto caldo di vapore lo avvolse assordante, sommergendo ogni altro odore che non fosse quello cal­do e umido di olio e metallo. La traccia era perduta. Si mise a trotterellare stancamente, in cerchio, sull’ampio fascio di binari, ma non c’era nell’aria che quel sentore di carbone e di macchine unte e ribollenti.

Puntò le orecchie, ascoltando disperatamente: sibili di vapore, cozzi metalli­ci nel deposito locomotive, e il lontano macinar dei mulini presso il fiume. Da una grande distanza oltre il fiume gli giunse il fischio di un treno in arri­vo. Ma i fievoli latrati del cane fulvo erano scomparsi.

Una trafittura penosa gli colpì gli occhi, quando volse il muso a guardare a Est, verso il primo verdastro chiarore dell’alba. La lupa bianca era scompar­sa e la luce mortale del giorno lo minacciava; solo allora si accorse di non sapere come ritornare a casa e al suo corpo umano.

Aveva ripreso a trotterellare sulle fredde parallele dei binari, senza meta, quando gli giunse nuovamente l’abbaiare di Turk, latrati stanchi e delusi, verso i mulini. Riprese allora la corsa in quella direzione, fiancheggiando una lunga fila di carri merci, che lo riparava in parte dal tormento di quel primo, vago albeggiare.

Infine, vide la lupa bianca, che gli balzava incontro con una grazia molle e selvaggia insieme. Doveva avere abilmente condotto il cane lungo un ampio circolo, ma si vedeva che era stanca, ora, o indebolita dalla luce crescente, perché il cane stava guadagnando rapidamente terreno e i suoi latrati rico­minciavano ad avere una nota di rabbiosa esultanza. Nuovamente, la lupa e il lupo ripresero la corsa l’uno accanto all’altra allontanandosi dallo scalo, ma seguendo i binari in direzione del fiume.

Questo era ormai vicino: dall’ombra densa delle sue rive saliva l’umido lez­zo della fanghiglia e delle foglie imputridite. Ma oltre il fiume la bianca fiam­ma dell’alba cominciava ad ardere terribile nel cielo. Ancora lontano, il tre­no fischiò una seconda volta.

Raggiunsero il ponte strettissimo, lanciato arditamente sull’acqua nera, e la lupa vi proseguì la sua corsa, delicatamente passando da una traversina al­l’altra dell’unico binario. Barbee si fermò, pieno di un antico e vago terrore dell’acqua ribollente dei fiumi. Ma il cane coi suoi rabbiosi latrati gli era già addosso, e fu costretto a gettarsi sul ponte della ferrovia, scegliendo cauta­mente le traversine su cui camminare. Il cane lo seguì, impetuoso.

Barbee si trovava a metà circa del ponte quando i binari cominciarono a vibrare. Poi il treno fischiò per la terza volta e il fanale che la locomotiva portava in testa apparve fulgido a una curva, a poco più d’un chilometro di distanza. Di nuovo, si fermò, atterrito; ma il cane gli era ancora dietro mi­naccioso, e lui nuovamente balzò in avanti, nel disperato tentativo di rag­giungere il capo del ponte prima del treno.

L’apparente stanchezza della lupa bianca era sparita, ora. Correva lunga e sottile come una freccia molto innanzi, e Barbee la inseguì con uno sforzo mostruoso lungo il metallo sonante. Poi l’aria fu tutta sconvolta e l’intero ponte si mise a tremare. Barbee vide la lupa in cima al ponte, seduta presso i binari ad aspettarlo, irridendo al cane.

Con un ultimo balzo le fu accanto, insieme con la ventata calda e polverosa del treno rombante. Fievole, gli giunse l’ultimo ululato atterrito del cane e il tonfo del suo gran corpo fulvo nelle acque nere. La lupa si scosse la cenere fuligginosa dal mantello, e si alzò con eleganza.

«S’è fatto giorno, è tempo di ritornare a casa. Addio, Will.»

La vide allontanarsi trotterellando lungo il binario, e Barbee a un tratto si ritrovò solo. La fiamma che ardeva a oriente lo trafiggeva, e fu colto dal terrore di caderne vittima. Come ritornare? Disperatamente, si protese a tentoni verso il suo corpo.

Era solo vagamente consapevole del suo corpo, disteso, rigido e infreddoli­to, di traverso sul letto del suo appartamentino in Broad Street. Desiderò con tutto se stesso di possederlo, di muoverlo, come qualcuno che cerchi di svegliarsi da un sogno. Il primo sforzo fu debole e terribilmente doloroso, come se dipendesse da qualche facoltà mai usata prima d’ora. Ma il dolore stesso serviva da sprone. Ancora una volta sentì quello strano mutarsi, quel fluire della metamorfosi, e si levò a sedere tutto indolenzito sulla sponda del letto.

La piccola camera era divenuta gelida durante la notte e Barbee si sentiva tutto intirizzito. Una strana ottusità lo possedeva, come se tutti i suoi sensi si fossero attutiti. Fiutò l’aria in cerca di tutti gli odori e sentori così acuti per il lupo grigio, ma le sue nari d’uomo non raccolsero nulla. Perfino l’odore di whisky era sparito dal bicchiere vuoto sul comò. Dolorante di stanchezza, si avvicinò zoppicando alla finestra e sollevò la tapparella. La grigia luce del­l’alba faceva impallidire i lampioni per la via, e lei si ritrasse di scatto dal cielo pieno di luce, come se fosse la terrificante faccia della morte.

Che sogno!

Si asciugò la fronte del freddo sudore che ancora la ricopriva. Un dolore tenace gli pulsava nel canino destro: la zanna, si ricordò con profondo males­sere, che aveva battuto contro il collare di Turk. Se erano questi gli effetti di qualche dose troppo abbondante di liquore, si disse, era proprio meglio darsi all’astinenza.

Aveva la gola ruvida e secca. Si diresse zoppicando verso la stanza da bagno per bere un bicchier d’acqua e, allungando la sinistra verso il bicchiere, si accorse di tenere ancora stretta nella palma della mano destra la spilla di giada bianca. A bocca aperta, stette a guardarsi la mano intorpidita, e fu allora che si vide sul polso sottile un lungo graffio rossastro, là dove i dentini aguzzi di Grillo avevano morso, nel sogno, la zampa anteriore del lupo.

Nulla di troppo strano, in tutto questo, si disse, ricordando le dissertazioni di Mondrick, all’università, sulla psicologia dei sogni: certi fenomeni del sub­cosciente, diceva Mondrick, erano sempre meno straordinari e istantanei di quanto sembrassero al sognatore.

I suoi dubbi su April Bell, insieme con l’incredibile confessione della ragaz­za, lo avevano spinto durante il sonno ad alzarsi per andare a frugare nella vecchia scatola in cerca della spilla. Doveva essersi graffiato il polso con una di quelle lamette arrugginite, o forse con la spilla stessa. E tutto il resto non poteva essere che il suo sforzo inconscio di spiegare quel banale incidente, con l’abbondante materiale dei suoi desideri e dei suoi timori rimossi e se­polti nel subcosciente.

Così doveva essere! Con un sorriso di sollievo si sciacquò la bocca arida e poi allungò con bramosia la mano verso la bottiglia di whisky per versarsi un goccio che lo aiutasse a cominciare una nuova giornata di quella sua vita da cani... Fece una smorfia, ricordando il disgustoso odor di cane del sogno, e rimise con fermezza la bottiglia al suo posto.

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