20.

Non provò dolore, come aveva temuto. Per un istante, dopo che la mac­china si fu abbattuta sul davanzale di roccia con un orrendo stridore di me­tallo straziato, la tortura fu intollerabile, ma Barbee quasi non avvertì l’urto finale.

Dopo pochi istanti di tenebra assoluta, fu cosciente ancora una volta. Una delle ruote anteriori girava ancora, lentamente, sul suo capo. Un liquido gli gocciolava rapido accanto; sentì l’odore di benzina e prima che il carburante s’infiammasse riuscì a trascinarsi via da sotto il cumulo di rottami che lo schiacciava.

Fu con uno stupore non privo di sollievo che s’accorse che il suo corpo, sebbene ammaccato e dolente, non sanguinava nemmeno. Rotto e intirizzito dai morsi rabbiosi del gelido vento gravido di pioggia, stava dirigendosi bar­collando su per l’erta verso la strada, quando la lupa bianca ululò sul ciglio.

Cercò di fuggire alla tremula nota di trionfo di quell’ululato, ma uno sfini­mento indescrivibile lo possedeva. Inciampò, e allora si lasciò cadere sulla petraia bagnata, appoggiandosi con le spalle a un macigno viscido di pioggia, e se ne stette così a guardare la figura sottile della lupa sopra di lui, sul ciglio della strada, esattamente nel punto dove la macchina era precipitata.

Udì la voce di April Bell:

«Ma dunque, Will!». E il tono era lievemente sardonico. «Hai proprio cer­cato di scappare?»

Afferrò una manata di terriccio e sassi e gliela scagliò contro con un gesto fiacco e pesante.

«Maledetta!», singhiozzò. «Non vuoi neanche lasciarmi morire?»

La lupa venne graziosamente giù per l’erta e, mentre lui tentava inutilmente di alzarsi per fuggire, gli leccò la faccia.

«Vattene via!» S’era levato faticosamente a sedere e cercava di respingerla con un braccio debolissimo. «Che diavolo vuoi ancora da me?»

«Solo aiutarti, quando hai bisogno di me.» Sedette davanti a lui, le bianche zanne ridenti. «Ti ho seguito per stabilire un circuito di probabilità che ti aiutasse a liberarti. So che deve essere doloroso e sconvolgente, ma tra poco ti sentirai molto meglio.»

Ma lui si ritrasse dalla lupa, che tentava di sfiorargli ancora la faccia col suo muso umido e fresco.

«Vattene al diavolo!», inveì roco. «Non puoi neanche lasciarmi morire?»

«No, Barbee. Ora non morirai mai più.»

Lui rabbrividì.

«Eh?», fece. «E perché?»

«Perché, Barbee...» La lupa rizzò bruscamente le lunghe orecchie e volse la testa ad ascoltare, in un’immobilità totale. «Te lo dirò in un altro momento... Ora ho la percezione di un altro circuito che dobbiamo prepararci a sfrutta­re... Riguarda Sam Quain. Ma il tuo amico non può nuocerti, almeno per il momento, e mi vedrai tornare presto.»

Il suo freddo bacio lo stupì, e poi corse via fulminea, lasciandolo là, semidisteso sui sassi. Rimase così per un tempo lunghissimo, sotto la pioggia sottile che lo penetrava fino alle ossa. La lupa bianca non tornava.

Dopo molto tempo, sentendosi tornare un poco le forze, riuscì ad alzarsi e ad arrampicarsi penosamente su per il dirupo, mentre il motore di un auto­carro gemeva potente lungo la salita in curva di Sardis Hill.

Traballando, Barbee si pose in mezzo alla strada, nella luce dell’autocarro, agitando pazzamente le braccia; ma l’autista, accigliato, non gli badò. Barbee agitò il pugno, urlando.

La gran ruota dell’autotreno lo sfiorò, e il veicolo proseguì la corsa, rallen­tando tuttavia nell’iniziare l’ultimo tratto, il più ripido, della salita.

Barbee poté vedere che il camion era vuoto, e il tendone posteriore di chiu­sura sbatacchiava al vento. Senza pensare corse dietro al veicolo, che ora procedeva a passo d’uomo, mentre l’autista cambiava la marcia. Con uno sforzo sovrumano si arrampicò sul camion e penetrò nella tenebra sotto il tendone. Non c’erano che vecchie coperte militari, che puzzavano di muffa e dovevano essere servite a coprire dei mobili. Barbee si avvolse in una di quelle coperte e stette disteso sulle altre, gli occhi stancamente fissi sulla strada che sembrava dipanarsi nera sotto i suoi piedi.

Era sconfitto, e non aveva più dove rifugiarsi. Perfino la morte gli aveva chiuso la porta in faccia. Non gli restava ora che un bisogno animalesco di sottrarsi alla gelida pioggia e l’apprensione di veder tornare la lupa bianca.

A un tratto si accorse che il camion prendeva la direzione di Glennhaven, e bruscamente Barbee ebbe ancora uno scopo.

Sarebbe tornato da Glenn.

Sentiva il bisogno del consolante scetticismo materialista dello psichiatra. Attese che il camion rallentasse sulla curva presso Glennhaven, e si lasciò cadere sull’asfalto bagnato.

Intorpidito e dolente com’era, cadde lungo disteso per terra. E vi rimase per un po’, la faccia sull’asfalto, così sfinito e annebbiato da non sentire nem­meno il freddo tocco della pioggia. Il latrato acuto di un cane, in una fattoria vicina, lo scosse dal suo torpore, e lui si alzò faticosamente e si avviò barcol­lando come un ubriaco.

Altri cani si posero a ululare, quando arrivò ai due pilastri quadrati che segnavano l’ingresso di Glennhaven. Prima di entrare, si voltò a guardarsi paurosamente alle spalle, ma non vide gli occhi verdi d’una lupa seguirlo.

Quando l’alta figura dello psichiatra venuto ad aprire si disegnò sulla soglia della sua abitazione privata, Barbee vide che sul suo volto abbronzato non c’era nessuna sorpresa.

«Salve, Barbee. Sapevo che lei sarebbe tornato.»

Barbee rimase là sulla soglia, vacillando, passandosi la lingua sulle labbra stranamente torpide, insensibili.

«La polizia?», domandò in un sussurrò. «È qui?»

Glenn lo gratificò del suo cordiale sorriso lievemente ironico.

«Oh, non preoccupiamoci della legge in questo momento», ammonì. «Lei è conciato veramente male.» I suoi occhi si posarono sull’impermeabile infan­gato e lacero, sulla faccia barbuta e spettrale. «Perché non si riposa un po’ e lascia che il nostro corpo sanitario risolva i suoi problemi? Telefoniamo allo sceriffo che lei è qui, sano e salvo, e rimanderemo le seccature con la polizia fino a domani. Va bene?»

«Sì», disse Barbee, un po’ incerto. «Ma c’è una cosa che voglio che lei sap­pia. Io non ho investito la signora Mondrick!»

Glenn batté le palpebre, sonnacchioso.

«Lo so che c’è il suo sangue sul parafango della mia macchina», riprese Barbee al colmo dell’agitazione. «Ma è stata una lupa bianca ad ammazzar­la.»

Glenn annuì con aria placida. «Potremo parlarne con molto più comodo domattina, signor Barbee. Ma comunque siano andate le cose — nella realtà o nella sua immaginazione — voglio che lei sia certo che m’interesso molto al suo caso. Mi sembra profondamente sconvolto, ma intendo usare ogni risor­sa della psichiatria per aiutarla.»

«Grazie», mormorò Barbee. «Ma lei continua a credere che l’abbia uccisa io.»

«L’evidenza dei fatti è quella che è.» Sempre sorridendo, Glenn cominciò a indietreggiare cautamente. «Non deve più cercare di scappare, Barbee, o bi­sognerà che io la trasferisca a un altro reparto, domattina.»

«Reparto agitati», osservò Barbee con amarezza. «Scommetto che ancora non sapete come Rowena Mondrick sia riuscita a scappare di là!»

Glenn alzò le spalle con una certa indifferenza. «Il dottor Bunzel è ancora sbalordito per questa faccenda», ammise con la sua solita flemma. «Ma non dobbiamo preoccuparci di nulla questa sera. Ora lei dovrebbe tornare nella sua stanza, fare un bel bagno caldo e dormire un po’...»

«Dormire!», ripeté Barbee, rauco fino all’afonia. «Dottore, se mi addor­mento, tornerà la solita lupa a tramutarmi in qualche spaventevole fiera, per spingermi a uccidere Sam Quain. Non la si vede... nemmeno io riesco a vederla in questo momento... ma non ci sono muraglie che le impediscano di passare.»

Glenn sorrise ancora, assentendo svagato.

«Sta venendo!», gridò Barbee. «Sente i cani?»

S’udivano i cani atterriti ululare in tutte le case coloniche dei dintorni. Bar­bee si mise a tremare violentemente. Glenn attese sulla soglia, il volto più placido che mai.

«La lupa bianca è April Bell», sussurrò Barbee. «È stata lei che ha assas­sinato Mondrick e che mi ha spinto a uccidere Rex e Nick. E l’ho vista, sul corpo di Rowena, leccarsi le zanne.» Si mise a battere i denti. «Verrà appena mi sarò addormentato, per farmi tramutare ancora e poi uccidere Sam!»

Glenn alzò le spalle.

«Lei è stanco», disse in tono professionale. «E quindi molto eccitato. Lasci che le dia qualcosa per farla dormire...»

«Non voglio niente.» Barbee cercò di impedire alla sua voce squarciata di levarsi in un urlo. «Si tratta di qualcosa di molto peggiore della follia... Devo riuscire a farle capire! Senta quello che stasera mi ha detto Sam Quain...»

E precipitosamente, confusamente, riprese a parlare di Homo lycanthropus e di streghe e di età glaciali e di ibridi.

«Dunque, dottore», domandò quand’ebbe finito, «che ne dice ora?»

Deliberatamente, col suo vecchio gesto meditativo, Glenn congiunse le pun­te delle dita.

«Lei è malato, signor Barbee», disse con voce dolce e profonda. «Lo ram­menti. Troppo malato per vedere la realtà se non nello specchio deformante delle sue stesse paure. La sua storia dell’Homo lycanthropus,direi, non è che un parallelo isterico e deforme della verità. È vero che alcuni studiosi di metapsichica hanno interpretato certi loro risultati, alla Duke University, come una prova scientifica dell’esistenza di uno spirito distinto dal corpo, che può influire in qualche modo sulla probabilità degli eventi nel mondo materiale e può anche sopravvivere alla morte fisica.»

Qui Glenn approvò con un cenno del capo, come soddisfatto delle sue stes­se parole.

«Ed è vero», riprese, «che l’uomo discende anatomicamente da animali più o meno selvaggi. Noi tutti abbiamo ereditato caratteristiche che non ci servo­no più nella società civile. La mente inconscia sembra talvolta una tenebrosa caverna di orrori e gli stessi fatti spiacevoli sono spesso espressi attraverso il simbolismo della leggenda e del mito. Ed è anche vero che assistiamo con una certa frequenza al ritorno di caratteri ereditari recessivi, veri e propri ritorni atavici molto interessanti.»

Barbee scosse il capo con una specie di contenuto furore. «Ma tutto questo non spiega minimamente il problema delle streghe!», disse esasperato. «Non spiega il circuito di probabilità col quale cercano di assassinare Sam! Io non voglio addormentarmi per poi uccidere Sam Quain, capisce?»

«La prego, signor Barbee», la voce del medico era piena di calda amicizia, «non vuole proprio cercar di capire? La sua paura di dormire non è che la paura dei suoi desideri inconsci, che il sonno libera. La strega dei suoi sogni non può rivelarsi se non per il simbolo del suo amore, di cui si sente colpevo­le, verso la signora Quain, e i suoi pensieri omicidi non sono forse che la naturale conseguenza di un odio inconscio e geloso per il marito.»

Barbee strinse i pugni, squassato da un furore muto.

«Lei ora non può che negare queste idee», riprese Glenn. «Deve imparare ad accettarle, ad affrontarle e a usarle su di una base realistica. Sarà questo il fine della nostra terapia. Non c’è nulla di speciale in tali paure. Tutti i vivi le esprimono...»

«Tutti i vivi», lo interruppe Barbee, «sono tarati dal sangue di strega.»

Glenn assentì affabilmente.

«È l’espressione fantasiosa di una fondamentale verità scientifica. Tutti pa­tiscono gli stessi conflitti interiori...»

Barbee udì dei passi sul viale alle sue spalle e si voltò con un singulto sof­focato di terrore. Non era la sottile lupa bianca, ma soltanto l’equina infer­miera Graulitz e l’atletica Hellar. Guardò con aria accusatrice lo psichiatra.

«Farà bene ad andarsene tranquillamente con loro, signor Barbee. La met­teranno a letto e l’aiuteranno a fare un bel sonno riparatore...»

«Le ho detto che non voglio dormire, che ho paura...», singhiozzò Barbee.

Trattenne il fiato e fece per correre via. Ma le due amazzoni vestite di bian­co lo presero per le braccia e lui cedette subito, tanto era spossato e infred­dolito. Lo portarono nella sua stanza; una doccia calda gli stroncò quel terri­bile batter di denti e il letto fresco di bucato era insidiosamente riposante.

«Resto di guardia qui, nel corridoio», gli disse la Hellar. «Le farò una inie­zione se non si addormenta da bravo subito.»

Ma non fu necessaria nessuna iniezione. Il sonno lo avvolse in una rete ondeggiante e maliosa, irresistibile.

Cercò di lottare contro di essa... fino a quando qualcosa lo costrinse a guar­dare la porta chiusa. I pannelli inferiori si andavano lentamente dissolvendo. La lupa si materializzò nell’apertura e venne avanti trotterellando. Sedette in mezzo alla stanza, fissandolo con occhi divertiti, pieni di attesa. La lingua le penzolava rosea tra le zanne bianchissime.

«Puoi aspettare fino a che si faccia giorno», le disse lui stancamente. «Ma non puoi farmi tramutare, perché tanto non dormirò.»

«Non c’è più nessun bisogno che tu dorma», ed era la voce bassa e vellutata di April. «Ho detto or ora al tuo fratellastro che cosa è successo questa notte a Sardis Hill, e lui ne è rimasto molto contento. Dice che devi essere potentissimo, perché nemmeno le infermiere si sono accorte di nulla. Ha detto anche che ormai potrai trasformarti quando vorrai, senza l’aiuto del sonno, perché non hai più resistenze umane da sopraffare.»

«Che cosa stai dicendo?» E Barbee si levò prontamente a sedere sulla spon­da del letto, aggrottando la fronte. «Che cosa le infermiere non hanno vi­sto?»

«Non lo sai proprio, Will?»

«Ma che cosa? E chi è il mio fratellastro?»

«Possibile che Archer non ti abbia detto nulla? Dev’essere così.» La lupa scosse significativamente la bella testa. «Probabilmente intendeva impiegare tutto un anno per ridestare i tuoi poteri ancestrali, come fece con me... a quaranta dollari l’ora. Ma il clan non può attendere. Ti ho liberato bru­scamente, stanotte, perché dobbiamo pensare a Sam Quain, e la tua parte umana ti rendeva troppo riluttante.»

Barbee batté le palpebre senza capire. «Non ti capisco», disse, «e non credo affatto di avere un fratellastro. Che io non abbia mai conosciuto i miei geni­tori non vuol dire. Mia madre morì nel mettermi al mondo e mio padre fu rinchiuso poco dopo in manicomio. Sono stato allevato in un istituto fino all’università, quando sono andato in pensione dalla signora Mondrick.»

«Ma questa è tutta una fiaba!» La lupa rise silenziosamente. «Naturalmente è esistito un Luther Barbee... ma lui e la moglie erano stati pagati per adot­tarti. Accadde loro di scoprire quale mostricino inumano tu fossi. Ecco per­ché la donna dovette essere uccisa e l’uomo posto in condizione di non nuo­cere... prima che parlassero troppo.»

Barbee scosse la testa in una tempesta di dubbi. «Insomma», disse di mala­voglia, «che cosa sarei secondo te?»

«Tu e io siamo creature eccezionali, Barbee. Siamo nati in seno al genere umano, con metodi e fini particolarissimi, ma siamo solo in minima parte umani.»

Barbee si afferrò alle sbarre del letto. «Chi era mio padre?»

«Il vecchio dottor Glenn. Ecco perché Archer Glenn è tuo fratellastro. È di qualche anno soltanto più vecchio di te e rappresenta un esperimento geneti­co riuscito in modo meno perfetto.»

Barbee ricordò quella sensazione di vecchia familiarità dimenticata che ave­va provato in presenza di Glenn. «E mia madre?»

«Tu la conoscevi molto bene. Era una donna che tuo padre aveva scelto per i suoi geni... la portò a Glennhaven come infermiera. Era molto dotata dei nostri poteri ancestrali, ma non riuscì mai a superare le resistenze opposte dalla sua parte umana. Fu abbastanza sciocca da credere che tuo padre la amasse e non lo perdonò mai quando venne a sapere la verità. Si unì ai nostri nemici umani.... ma tu eri già nato.»

Barbee si sentì venire la pelle d’oca.

«Non era per caso...», e inghiottì convulsamente, «Rowena Mondrick?»

«Rowena Stalcup, allora. Era ignara dei suoi poteri, finché tuo padre non cominciò a ridestarli. La inorridì l’idea di averti generato dal suo matrimo­nio, anche quando credeva che tu saresti stato umano.»

«E io l’ho uccisa! Mia madre!», mormorò Barbee inorridito.

«Era la nostra nemica più accanita! Finse di unirsi al clan di tuo padre e poi usò le arti che aveva appreso per scappare e consegnare i segreti del clan a Mondrick. Fu lei che mise Mondrick per la prima volta sulle nostre tracce. E continuò a lavorare con lui fino a quando uno di noi l’accecò, in Nigeria, mentre lei stava per scoprire una di quelle Pietre, quelle armi discoidali, più micidiali dell’argento, che i nostri nemici della preistoria seppellivano coi nostri antenati uccisi per tenerli nelle loro tombe.»

Prendendosi la testa fra le mani, Barbee mormorò:

«Oh, se l’avessi saputo!». E poi, evitando di guardare la lupa: «Che cosa voleva dire a Sam?».

«Il nome del Figlio della Notte. Ma noi abbiamo agito molto bene, tu so­prattutto, Will, quando hai finto di essergli amico... Perché tu sei uno dei nostri, Will, e il più potente che abbiamo generato, così potente che dovrai essere il nostro capo. Tu sei colui che noi chiamiamo il Figlio della Notte.»

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