7.

La lupa bianca si mise a correre e Barbee la seguì. Non si era reso conto di quanto fosse tardi, ma gran parte della notte era già trascorsa. Le strade erano deserte, meno qualche auto ritardataria, e quasi tutti i semafori agli incroci erano spenti. Ma Barbee volle sapere dove fossero diretti. La lupa volse la bella testa a guardare il suo compagno, che era indietro di qualche passo. La rossa lingua le penzolava da un lato delle fauci, mostrando la can­dida minaccia delle zanne affilate.

«Andiamo a trovare due tuoi amici.» E parve che sogghignasse maliziosa­mente. «Sam e Nora Quain.»

«Perché dovremmo fare loro del male?», protestò Barbee. «Non sono nemi­ci.»

«Sono nemici perché sono esseri umani. Mortali nemici a causa di ciò che si trova nella cassa che Quain e Mondrick hanno portato dall’Asia.»

«Ma sono miei amici», insistette Barbee, e sussurrò a disagio: «Che cosa c’è, in quella cassa?».

«Qualcosa di mortale per la nostra specie», fu la risposta; «per il momento è tutto quello che siamo riusciti a scoprire. Ma la cassa è sempre a casa di Quain, sebbene lui si prepari a trasportarla domani all’Istituto. Ha sgombra­to le stanze dell’ultimo piano, assunto guardiani, disposto ogni genere di difese contro di noi. Ecco perché dobbiamo agire ora. Daremo uno sguardo all’interno della cassa, questa notte, e cercheremo di distruggere qualsiasi arma abbiano portato da quei tumuli preumani per usarla contro di noi.»

Un brivido scosse Barbee in corsa.

«Che armi possono essere?», domandò. «Che cosa può esserci letale?»

«L’argento, per esempio. Lame d’argento, proiettili d’argento... ti dirò il perché, quando avremo tempo. Ma il contenuto di quella cassa può essere qualcosa di più mortale dell’argento... e la notte sta fuggendo via rapida.»

L’edificio della Fondazione per le Ricerche Antropologiche era costituito da una snella torre di cemento bianchissimo, alta nove piani. Le luci erano accese in vari piani, e si udiva un picchiar di martelli, il ringhiante gemito di una sega, voci di operai. La luce abbagliante di un riflettore fece fare un salto a Barbee. E si sentiva un odore di vernice fresca, al quale era mescolato un sentore bizzarro, sconosciuto, quasi intollerabile per le loro nari di lupi.

La lupa bianca gli si era posta accanto.

«Vedi? Quain si aspetta qualche iniziativa da parte nostra, e sta trasforman­do la torre di Mondrick in una vera e propria fortezza. Dobbiamo assoluta­mente arrivare alla cassa questa notte. Domani, non potremo più giungervi.»

Sottovento, il collie del professor Schnitzler cominciò a ululare.

«Ma perché fa così?», domandò Barbee apprensivamente. «Gli uomini, a quanto sembra, non ci vedono, ma i cani si spaventano sempre quando siamo vicini.»

April Bell emise un ringhio sommesso verso il cane ululante.

«La maggioranza degli uomini non ci può scorgere», rispose. «Nessun vero essere umano, credo. Ma i cani ci sentono in modo particolare, e nutrono un odio spietato nei nostri riguardi. L’uomo preistorico che addomesticò il pri­mo cane doveva essere già nemico implacabile della nostra specie.»

Giunsero alla casetta di Pine Street, vicinissima alla torre di Mondrick, una casetta che Quain aveva fatto costruire l’anno in cui si era sposato. Barbee, ricordava, aveva bevuto un po’ troppo alla festicciola che Quain aveva dato per inaugurarla, anzi, s’era praticamente ubriacato, per mascherare la delu­sione che gli aveva dato Nora...

La lupa lo guidò dietro la casa, verso il garage, tendendo l’orecchio, fiutan­do l’aria, come in preda a un vago malessere. Barbee udì il suono lieve d’un respiro regolare da una finestra aperta, e percepì l’odore della piccola Pat nel recinto sabbioso, in giardino, dove la bambina giocava parecchie ore al giorno. Balzò davanti alla lupa bianca, con un ringhio minaccioso che gli gorgogliava nella strozza.

«Non voglio che si faccia loro del male!», protestò. «Non comprendo bene che cosa tu voglia fare, ma queste persone sono amici miei, Sam e Nora e Pat!»

La lupa sembrava sogghignare, con la rossa lingua pendula da un lato.

«Non è di loro che dobbiamo occuparci stanotte», rispose. «È il contenuto della cassa che dobbiamo cercare di distruggere.»

Barbee cedette, sebbene a malincuore. A un tratto, l’acuto odore di un cane lo ferì alle nari, e nell’interno della casa risuonò un guaito tremulo e rabbio­so. La lupa bianca fece un balzo all’indietro, spaventata. Anche Barbee non poté dominare la profonda, cupa apprensione, che a quel guaito gli aveva fatto rizzare i peli sul collo.

«È il cagnolino di Pat», spiegò. «La bimba lo chiama Grillo.»

«Domani lo chiamerà in un altro modo», ringhiò la lupa.

«No, non il povero Grillo!», disse Barbee. «La piccola ne avrebbe un dolore immenso!»

Una porta a vetri si aprì e una specie di piumino da cipria si precipitò nel giardino abbaiando furiosamente. La lupa si ritrasse prontamente, e il cagno­lino balzò su Barbee. Questi cercò di respingerlo con una zampata, ma il cagnolino gli addentò la zampa. La trafittura di quei dentini acuti come spilli destò in lui un furore selvaggio, travolgente. Soffocando un ruggito, azzannò il morbido corpicino bianco e lo scrollò fino a quando non cessò di guaire. Poi lo gettò sul mucchio di sabbia, e si forbì con la lingua le zanne su cui erano rimasti alcuni fetidi peli canini.

La lupa bianca era scossa da un tremito: «Ignoravo l’esistenza di quel cane. Nora e la bambina erano fuori questa sera, quando sono venuta a vedere che cosa stesse facendo Sam, e probabilmente la bestiola era con loro. Non amo i cani... Aiutarono gli uomini a sconfiggerci, un tempo».

Balzò verso la porta sul retro della casa.

«Dobbiamo affrettarci ora, la notte sta finendo.»

Barbee cercò di non pensare che la piccola Pat si sarebbe disperata il giorno dopo.

«Perché, la luce del giorno è dannosa?»

«Me n’ero dimenticata: non dovrai mai cercare di trasformarti, alla luce del giorno, o lasciare che il giorno ti colga mutato. I raggi del sole sono mortali, nelle condizioni in cui siamo adesso. Ne parlai una volta a uno di noi, un fisico famoso. Ha una teoria in proposito che mi sembra molto convincente... ma non abbiamo tempo di parlarne ora. Dobbiamo cercare quella cassa.»

Con la zampa duttile e sottile dischiuse la porta, dalla quale aveva fatto irruzione poco prima il cagnolino, ed entrarono nell’atmosfera soffocante della casa. V’erano sentori di cibo, l’insopportabile odore di cane e l’acre pizzicore di un antisettico che Nora doveva avere sparso nella camera da bagno. E l’odore inconfondibile dei corpi umani.

S’udiva il ticchettio d’un orologio, dietro la porta semiaperta della cucina. Poi il motore del frigorifero si avviò all’improvviso, con uno scatto sonoro che li fece sobbalzare. Infine al loro udito finissimo si rese percettibile la respirazione pesante e regolare di Sam, quella più leggera di Nora, nella loro stanza. Pat si voltò nel suo lettino della nursery e mormorò nel sonno:

«Grillo, vieni qui subito!».

La lupa fece un balzo in avanti, e poi si volse verso il suo compagno, digri­gnando silenziosamente i denti in un sogghigno di soddisfazione.

«Quain dorme, dunque! Sfinito, immagino! Meno male che quel botolo rin­ghioso è stato ridotto al silenzio. Evidentemente, Quain contava su di lui, in caso di pericolo. Ora, la cassa! Deve essere nel suo studio.»

Barbee trotterellò verso la porta dello studio, attraverso la camera dove dormiva la bambina, che non si svegliò al silenzioso passaggio delle due om­bre ferine. Barbee si alzò sulle zampe posteriori, per tentare la maniglia della porta con le anteriori. La maniglia non cedette. Ricadde allora sulle quattro zampe e si volse a guardare incerto la lupa bianca.

«Vado a cercare le chiavi di Sam», propose. «Deve averle nella tasca dei...»

«Aspetta, sciocco!» Lui s’era già avviato verso la camera da letto e lei do­vette afferrarlo con le sue temibili zanne alla pelle del collo, per fermarlo. «Lo sveglieresti, o potresti camminare su qualche trappola. Le sue chiavi sono probabilmente protette da un anello d’argento, che ti avvelenerebbe al solo toccarlo. E poi chi sa quali altre armi Sam Quain può avere a portata di mano... relitti mortali dell’antichissima guerra che la nostra specie perdette contro l’uomo.»

«Ma come possiamo entrare senza chiavi?»

«Ora te lo mostrerò, ma prima devi sapere altre cose su questa nostra con­dizione di liberazione fisica, o finirai per ammazzarti senza accorgertene. Lo scienziato di cui ti ho parlato mi disse una volta che il legame fra mente e materia è la probabilità.»

Barbee ripensò alla lezione tenuta sull’argomento da Mondrick.

«Le creature vive», continuò, «sono più che semplice materia. La mente è un’entità autonoma, un campo di energia, creato dagli atomi e dagli elettroni del corpo in vibrazione, che domina le vibrazioni stesse attraverso il magneti­smo e la probabilità atomica. Questo campo di energia vivente è alimentato dal corpo, ed è parte del corpo, di solito. Quello scienziato tendeva a ritener­lo qualcosa di molto affine al concetto di anima. Ora, questo nodo di energia vitale è molto più vigoroso in noi che nella razza degli uomini autentici. Più fluido e meno subordinato al corpo materiale. Nello stato libero in cui ci troviamo in questo momento, noi semplicemente separiamo quel nucleo di energia vitale dal corpo e usiamo il circuito magnetico della probabilità per vincolarlo ad altri atomi, a piacere. Gli atomi dell’aria sono i più facili a controllarsi, perché l’ossigeno, l’azoto e il carbonio sono composti degli stes­si atomi che generano il campo magnetico dei nostri corpi. E ciò spieghereb­be i pericoli da cui dobbiamo guardarci.»

«L’argento? I raggi del sole? Non vedo colme...»

«Le vibrazioni della radiazione solare possono ledere il nucleo d’energia mentale, incidere sulle sue vibrazioni. La massa del corpo lo protegge, natu­ralmente, quando siamo nel nostro stato normale; ma la trasparenza dell’a­ria, quando siamo liberi, non può offrire il minimo riparo. Che la luce del sole non debba mai sorprenderti libero!»

«E l’argento?»

«Si tratta anche in questo caso di vibrazioni. Nessuna materia è per noi una vera barriera, quando siamo in queste condizioni libere. Ecco perché possia­mo fare a meno delle chiavi di Quain. Porte e pareti sembrano impenetrabili, lo so, ma il legno è composto principalmente di ossigeno e carbonio, e il campo magnetico della nostra mente può dominare gli atomi vibranti e pas­sarvi attraverso, come nell’aria. Possiamo utilizzare anche molte altre sostan­ze con un po’ più di sforzo. L’argento è l’eccezione mortale, come sanno bene i nostri nemici.»

«E come mai?»

«Ogni elemento ha frequenze differenti di vibrazioni elettroniche. E l’ar­gento ha il tipo di vibrazione che ci è deleterio, perché non ha circuito di probabilità. Le armi d’argento possono ucciderci, Will, non dimenticarlo!»

La lupa bianca stava ora completamente immobile, tendendo l’orecchio ai lievi rumori della casa, una zampa anteriore graziosamente alzata. Lui le si fece vicino.

«Non lo dimenticherò. Ma come si chiama lo scienziato tuo amico?»

«Geloso, Barbee?»

«No, ma voglio saperlo. E voglio anche sapere chi è questo Figlio della Notte.»

«Lo scoprirai da te, quando avrai superato le prove che ti attendono. E ora affrettiamoci, prima che Quain si svegli.»

Trotterellarono entrambi verso la porta chiusa dello studio. La lupa si volse a guardarlo: «Ora che sai molte cose, posso aiutarti a passare, attenuando le vibrazioni casuali degli elementi più pesanti che costituiscono il legno».

Gli occhi verdastri della lupa si fissarono sui pannelli inferiori della porta, e Barbee ricordò ancora una volta la lezione di Mondrick sulla probabilità. La materia non è che spazio vuoto: soltanto le collisioni casuali degli atomi vi­branti impedivano alla piccola lampada nera di cadere attraverso il piano apparentemente solido del tavolo. Nulla nell’universo è assoluto, solo le pro­babilità sono reali. E la mente è in grado di governare la probabilità.

Sotto il fuoco verde degli occhi della lupa, la metà inferiore della porta si dissolse in una nebbiosa irrealtà. Per un istante Barbee poté vedere i neri perni dei cardini e tutto il meccanismo della serratura come attraverso una radioscopia. Quindi anche il metallo si dissolse, e la sagoma snella della lupa scivolò silenziosamente attraverso la porta.

Barbee la seguì a disagio. Gli parve di sentire una lieve resistenza, là dove si trovavano — o si erano trovati — i pannelli di legno, come se qualcosa gli accarezzasse il vello grigio. Balzò da una parte, soffocando un ringhio. La lupa indietreggiò improvvisamente, urtando contro la spalla del compagno.

Perché qualcosa, nella stanza, era un pericolo... mortale!

Rimase immobile, fiutando il pericolo. L’aria chiusa della stanza era densa degli odori della carta, dell’inchiostro secco e dell’antica colla che venivano dai libri sugli scaffali, odori su cui dominava l’acuta fragranza della naftalina trapelante da un armadio e l’aroma del tabacco chiuso nella scrivania di Quain. Ma il tremendo sentore che lo aveva atterrito veniva dalla cassa pe­santemente cerchiata che si trovava sul pavimento accanto alla scrivania.

Era un sentore penetrante, stantio, come di qualcosa che fosse stato a muf­fire per lunghissimo tempo sotto terra. Lo riempiva di angoscia in modo ine­splicabile, e gli ricordava il vago sentore indefinibile che aleggiava ai piedi della torre di Mondrick. La bianca lupa s’era immobilizzata al suo fianco, vigile e tesa con le fauci ancora aperte in una specie di ringhio congelato e gli occhi pieni di odio e di terrore.

«È là, nella cassa», ammonì. «È la cosa che Mondrick ha scavato nelle tom­be della nostra razza nell’Ala-shan, l’arma che già una volta ha distrutto il nostro popolo e che Quain intende usare ancora. Dobbiamo impadronircene... in qualsiasi modo... questa notte stessa.»

Ma Barbee si andava ritirando, strisciando le zampe.

«Non posso», le disse. «Sto male, soffoco, quell’odore dev’essere velenoso. Torniamo all’aperto.»

La lupa parve fissarlo con estremo disprezzo, digrignando i denti come in un sogghigno. Poi, coi bianchi peli irti, raccolta su se stessa come una molla, s’avvicinò alla cassa, lentamente, quasi strisciando. Barbee, con un immenso sforzo di volontà, sconvolto dall’odore, si costrinse a seguirla. La puzza era tale che traballò sulle zampe, scosso inoltre da brividi penosi.

«Chiusa con un lucchetto! Sam deve avere previsto...»

Ma poi vide gli occhi della lupa fissarsi sul fianco lavorato della cassa verde e si ricordò che era in grado di controllare le probabilità delle collisioni ato­miche. Le tavole di legno si dissolsero in una nebbia opaca, rivelando tutte le viti di ferro che le connettevano. Le viti si dissolsero a loro volta, e poi i larghi cerchi metallici che fasciavano la cassa, e alla fine il lucchetto. A un tratto la lupa ringhiò, fremente d’una gelida ferocia.

«Argento!», latrò, rinculando di nuovo.

Perché all’interno delle pareti di legno dissolte si vedeva un rivestimento di bianco metallo battuto, che non si scioglieva in nebbia opaca. Gli atomi del­l’argento non rispondevano ai loro poteri mentali. E il contenuto fetido della cassa continuava a restare invisibile.

«I tuoi antichi amici sono scaltri, Barbee! Non avevo pensato alla possibilità d’una fodera d’argento. Ora dovremo proprio cercare le chiavi e tentare la serratura. E se anche così non riuscissimo, dovremo incendiare la casa.»

«Non con loro dentro!», scattò Barbee.

«La tua povera Nora!», lo beffò la lupa. «Perché hai lasciato che Sam te la portasse via? A ogni modo ricorreremo al fuoco solo in caso estremo perché le vibrazioni della materia in combustione sono molto nocive. Ora dobbiamo cercare le chiavi.»

Stavano scivolando verso la porta e la camera da letto di Quain e di sua moglie, quando il telefono si mise a squillare, frantumando il silenzio con fulminea violenza.

«Chi può essere l’idiota che telefona a quest’ora?», pensò Barbee.

S’udì nella camera da letto sospirare lamentosamente, poi la voce addor­mentata di Quain. Il prossimo squillo di telefono avrebbe definitivamente svegliato Quain, trasformando lo studio in una trappola mortale per le due creature sotto spoglie di lupo. Ma con un balzo impressionante, la lupa bian­ca era saltata sulla scrivania e, prima che il telefono squillasse di nuovo, con entrambe le zampe anteriori aveva alzato il microfono e ora lo teneva so­speso a mezz’aria. Barbee udì la sottile voce precisa nel microfono chiamare disperatamente:

«Sam? Sono Rowena Mondrick. Sam! Sam Quain, mi senti?».

Nella camera da letto si udì un altro sospiro gemente, e infine la pesante respirazione di Sam Quain riprendere il ritmo regolare, risprofondandolo in un sonno massiccio di sfinimento.

«Nora, sei tu?», insistette la voce sottile, che il terrore rendeva acuta. «Dov’è Sam? Pregalo di chiamarmi, ti prego, Nora. Devo avvertirlo di una cosa... digli che si tratta di Barbee.»

La lupa depose il ricevitore sul tavolo e vi si accucciò accanto, mettendo a nudo le zanne candide, come se volesse stritolarlo, e nei suoi occhi verdi splendeva il fuoco di un odio inestinguibile.

«Ma chi...» La voce nel microfono parve naufragare in un’onda di terrore. «Sam! Nora!... Ma perché non mi rispondete...»

Poi un urlo risuonò nel microfono, così penetrante che Barbee non dubitò che avrebbe svegliato Sam Quain. E infine s’udì nel ricevitore uno scatto, perché Rowena all’altro capo del filo, come in preda al terrore d’una improvvisa rivelazione, aveva riattaccato il microfono. Lasciando il ricevitore sul tavolo, la lupa balzò di nuovo accanto a Barbee con un altro ghigno:

«La vedova di Mondrick! Quella donna sa troppe cose di noi, ha visto trop­po, prima di perdere gli occhi. Ciò che sa potrebbe rendere il contenuto della cassa ancor più pericoloso per noi di quanto già non sia».

Le sue lunghe orecchie si appuntirono ancor di più, ed emise un altro rin­ghio.

«Dovremo occuparci di lei, prima che riesca a comunicare con Quain.»

«Ma non possiamo far del male a una povera cieca!», protestò Barbee. «E poi Rowena è mia amica, e mi vuol bene...»

«Ti vuol bene! Sei ancora troppo ingenuo, Will!...» Ansimava un poco, la lingua le pendeva stanca da un lato delle fauci. «Sei proprio tu, invece, quel­lo che lei vuol tradire.»

Barcollò, dovette accasciarsi sul logoro tappeto dello studio, dove giacque scossa da un lungo tremito.

«April!» E Barbee le sfiorò col muso l’umida punta del naso.

«Siamo in trappola.» La lupa bianca ansimava penosamente. «Ecco per­ché... Quain se n’è andato a letto... lasciando la porta di casa socchiusa. Quella cassa è l’esca... su cui contava. E il suo maledetto contenuto ci uccide lentamente.»

Barbee aveva finito per dimenticarlo. Levò il muso aguzzo per fiutar l’aria. L’odore immondo sembrava essersi attenuato, era quasi gradevole ora. Tor­pidamente, lo fiutò ancora.

«Non respirarlo!», disse la lupa bianca. «È veleno! Quain lo ha lasciato qui per ucciderci!» Si era abbandonata sul pavimento, e lunghi brividi di sof­ferenza passavano come onde sul bel corpo slanciato. «Dobbiamo fuggire subito di qua... e correre dalla tua... cara amica Rowena!»

Poi giacque immobile e muta.

«April!», ululò Barbee. «April!»

La lupa bianca non si mosse nemmeno.

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