21.

Si aprì la porta e l’infermiera fece capolino nella stanza buia scuotendo il capo in mite rimprovero: «Ah, signor Barbee», lo ammonì dolcemente. «Prenderà una polmonite se rimarrà là seduto a chiacchierare tra sé tutta la notte. Se ora, quando torno con l’iniezione, non la trovo a letto...»

«Non ti troverà», disse la lupa, quando l’infermiera se ne fu andata. «E ora è tempo di muoverci. Sam Quain sta sfuggendo agli uomini dello sceriffo, lungo una pista che loro non conoscono. E sta trasportando la cassa. Possie­de la sola arma che possa veramente nuocerti, Barbee, e dobbiamo fermarlo, prima che impari a servirsene. Su, andiamo!»

Barbee si attaccò alle sbarre del letto.

«Non credo di essere il Figlio della Notte», disse, «e non intendo fare del male a Sam.»

La lupa gli sfiorò, implorante, col muso il ginocchio e Barbee fu completa­mente soggiogato da quel muto richiamo. Le sue mani abbandonarono le sbarre del letto. Rivide l’alato pterosauro dello specchietto e fu posseduto dal desiderio cocente di avere la sua potenza. Subito una volontà spietata, tesa verso una vitalità mostruosa scese nel suo corpo, che gli parve si dilatas­se, si gonfiasse e accrescesse fino a chiudere in sé l’intero universo. E una forza gigantesca fluiva in lui tepida e inebriante.

E anche la lupa si trasformava.

Si era rizzata sulle zampe posteriori, e diveniva sempre più alta. Le curve sottili del suo corpo si colmarono, la bianca pelliccia scomparve. Con un gesto pieno di grazia, April scosse i lunghi capelli rossi dietro le spalle nude. Con febbrile eccitazione, Barbee avvolse fra le sue ali robuste la donna nuda, e baciò le sue labbra fresche con la lunga lingua di rettile. Ridendo, lui acca­rezzò la sua testa ricoperta di scaglie.

«Abbiamo prima un’altra cosa da fare», disse scivolando via dall’abbraccio. «Ci aspetta un appuntamento con la probabilità, e con il tuo vecchio amico Quain.»

April gli saltò sulla groppa elastica e ricoperta di piastre come una sella, e la parete si dissolse davanti alle due figure l’una aggrappata all’altra. Con un senso di sorpresa, vide che il letto d’ospedale era vuoto. Ma quel piccolo enigma non lo turbò: era meraviglioso sentirsi di nuovo libero, e il morbido peso della ragazza nuda sul suo dorso lo eccitava.

Ed ecco, navigavano alti nella notte nuvolosa, tra le ultime raffiche spruzza­te di pioggia. Sotto di loro si stendeva la strada delle colline. Poi, a un cenno di April, il rettile volante scese lentamente, planando, sulla curva di Sardis Hill, dove tre automobili erano ferme, insieme a un’autombulanza. Due uo­mini vestiti di bianco stavano portando una forma scura su di una barella.

«Quello è il tuo corpo», gli disse April. «I tuoi poteri sono cresciuti, e tu non ne hai più bisogno. Sei libero.»

«Sono libero? Morto, intendi...?»

«No, perché ora non morirai più, soprattutto se impediremo a Quain di usare l’arma terribile che ha contro di te. Tu sei il primo della nostra razza il quale, nei tempi moderni, sia in grado di sopravvivere materialmente, nono­stante la morte del corpo. Te ne sei separato, come una larva dalla crisalide.»

Continuò a volare rigido, con un gran freddo dentro.

«Mi dispiace, tesoro.» Sentì il tremito di un’improvvisa tenerezza incrinare la voce di April. «Lo so, è una sensazione terribile, sapere di avere perduto il proprio corpo, anche se non ne hai più bisogno. Ma dovresti essere felice.»

«Felice?», replicò, amaramente. «Di essere morto?»

«No... felice di essere libero!» Una sommessa eccitazione tremava nella voce di April. «Presto ti sentirai diverso, Will. Perché ora tutti i tuoi immensi poteri ancestrali si desteranno rapidamente, con la scomparsa delle barriere umane. Tu possiedi tutta l’eredità e i preziosi segreti dei nostri clan, quell’e­redità che la nostra gente, dispersa nel mondo, ha conservato e tramandato attraverso le lunghe epoche oscure nelle quali gli uomini credevano di avere vinto la loro lunga battaglia.»

Le grandi ali nere tremarono nell’aria.

«Tesoro... non devi avere paura!» Dolcemente, le dita di April accarezzaro­no le grandi piastre del sauriano. «Lo so... ti senti strano e solo... come mi sentivo io, quando mi rivelarono la verità per la prima volta. Ma non resterai solo per molto tempo.» Una quieta esultanza riempì la sua voce. «Vedi, Ar­cher Glenn dice che anch’io sono abbastanza forte per sopravvivere alla mor­te del corpo.»

Navigava lento nel cielo nuvoloso, e le grandi ali parevano pesanti e torpi­de.

«Certo, dovrò aspettare che il nostro erede sia nato... un figlio il cui sangue sia così puro da poter essere un nuovo padre per la nostra razza. E dovrò darlo alla luce nella mia forma umana, perché anche lui dovrà celarsi tra gli uomini.» Sentì che il corpo di April s’irrigidiva, teso da quell’indomabile pro­posito. «Ma poi anch’io potrò essere separata dal corpo», aggiunse, dolce­mente. «E sarò con te per sempre!»

«E come?», disse lui, aspramente. «Per essere entrambi dei fantasmi?»

«Non provare compassione per la tua sorte, Will Barbee!» Rise, in quel momento, scuotendo i capelli di fiamma sulla schiena nuda, e affondando i talloni nudi nel corpo squamoso del rettile volante. «Perché ora tu sei quello che nella leggenda gli uomini hanno chiamato un vampiro, e dovresti esserne felice. Il tuo vecchio amico Quain, e tutti gli uomini, hanno bisogno di com­passione... non tu!»

«No!», ansimò lui, ancora incredulo. «Non ti credo.»

Si abbassò di nuovo, planando con le ali stanche, descrivendo un circolo lento sui due uomini che portavano la sua parte umana via dai rottami del­l’auto, verso l’ambulanza in attesa. Uno di loro scivolò sulla roccia umida, e per poco la barella non cadde con il suo terribile carico. Ma sapeva che or­mai questo non aveva importanza. Era quello lo strano funerale di tutto il suo passato umano.

«Quando Archer cominciò a insegnarmi le antiche arti, provavo quasi una sensazione di orrore, e di angoscia», stava mormorando felice April Bell. «Il pensiero di nascondersi nelle tenebre, forse anche nella propria tomba, e uscire di notte a nutrirsi del sangue degli uomini! Mi parevano storie così orrende, così raccapriccianti, ma ora la penso diversamente. Ora so che è questa la nostra vera vita!»

Silenziosamente, rabbrividendo nell’aria, Barbee osservò i due uomini in­filare il loro carico nell’ambulanza. E si chiese quali potessero essere i prodi­gi realizzabili dalle particelle di energia della mente, dal disegno di energia che formava il pensiero; e si rammentò che Sam Quain non gli avesse detto qualcosa di più su ciò che la spedizione Mondrick aveva trovato sotto quegli antichi tumuli funerari del remoto Ala-shan.

«Era così che il nostro popolo viveva, un tempo», stava dicendo la strega bianca, in tono lieto. «Prima che gli uomini imparassero a combatterci. Ed è questo il nostro modo naturale di vivere, perché le libere trame mentali pos­siedono dei poteri meravigliosi. Le nostre menti possono sopravvivere quasi per sempre, a meno che non vengano distrutte dalla luce, o dall’argento, o da quelle orribili pietre che gli uomini seppellivano con noi.»

April a un tratto tese la testa verso il Nord, come in ascolto.

«Ora dobbiamo trovare Quain», disse. «Sento che il circuito si forma.»

Il nero pterosauro volò lento e maestoso verso il Nord-est, oltre il Laurei Canyon.

E a un tratto lo scorsero.

Faticosamente inerpicandosi su per i gradini smussati che gli stessi Indiani dovevano avere scavato nella roccia, Sam Quain, spingendo la pesante cassa avanti a sé, saliva lentamente verso la vetta di una collina. Infine, dopo un’ul­tima spinta alla cassa, vi montò sopra e giunto sulla vetta, ansante, con un altro gigantesco sforzo trascinò la cassa oltre il ciglio roccioso e se la caricò sulle spalle. Si soffermò solo un istante a guardare, in basso, oltre il torrente, lontanissimi, gli uomini dello sceriffo, incerti sulla via da seguire. E poi ripre­se la sua faticosissima marcia.

«Ora!», ingiunse April.

Chiudendo le nere ali, Barbee calò verticalmente come un masso.

Sam Quain parve improvvisamente conscio del pericolo. Cercò di allonta­narsi il più rapidamente possibile dal precipizio da cui era venuto, e barcollò, male in equilibrio sotto il peso della cassa. Alzò la faccia devastata dalla stanchezza e un orrore indicibile vi si dipinse. Doveva avere imparato da Mondrick a liberare le cariche magnetiche della mente, perché la sua bocca si aprì e a Barbee parve di udire il suo nome, gridato in tono d’estrema angoscia:

«Oh, sei dunque tu... Will Barbee!».

Gli artigli dello pterosauro afferrarono la cassa. Ne emanava l’orrendo feto­re e il solo tocco di essa raggelò il gran corpo del rettile. Con le ali quasi paralizzate, il mostro tuttavia non abbandonava la cassa.

Strappata dalle mani di Quain, la cassa rimbalzò sull’orlo roccioso del pre­cipizio. Barbee riuscì a staccarne gli artigli, e la vide precipitare, cozzando contro le sporgenze rocciose, finché non si spaccò su un ripiano pietroso, ove il suo contenuto si sparse.

Barbee poté vedere armi d’argento annerite dai millenni, frammenti d’ossa e un oggetto a forma di disco, che splendeva d’una terribile luce violetta, agli occhi del sauriano, radiazione ancor più mortale di quella solare.

Era forse uranio radioattivo quel metallo più mortale dell’argento? Infine, rotolando lento sul pendio roccioso, il contenuto della cassa precipitò di nuovo nell’abisso sottostante e Barbee vide il tremendo disco violetto sparire nelle acque profonde del torrente.

Sam Quain frattanto era scomparso.

«Ora che l’arma micidiale è distrutta», disse Barbee, «Sam Quain non rappresenta più un pericolo mortale. E del resto, che può fare, braccato com’è dalla polizia?»

April Bell era scesa dalla groppa del rettile alato. Per un attimo parve di malumore. Poi Barbee la vide scuotere la fiammante capigliatura e restrin­gersi, abbassarsi, tramutarsi, finché non fu di nuovo la snella ed elegante lupa bianca. Mettendo in mostra le zanne in un sogghigno malizioso, prese a correre verso le pendici fittamente boscose, dove le immense ali nere non avrebbero potuto inseguirla.

«Aspettami, April!»

La metamorfosi gli era facile ormai, e il rettile alato si tramutò rapidamente nel robusto lupo grigio.

Fiutando nell’aria l’odore inebriante della lupa, la seguì rapido e silenzioso, là dove le tenebre erano più dense, dove lo avrebbero trattenuto per sempre.


FINE
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