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Mercoledì, 6 ottobre 1999, 86 giorni prima della fine del secolo. 86 giorni prima dello spostamento della lancetta. “Quando la lancetta si sposterà — aveva detto Quinn nel suo discorso più famoso — facciamo piazza pulita del passato e ricominciamo da capo, ricordando, senza ripeterli, gli errori precedenti.”

Sposare Sundara era stato dunque uno degli errori del passato? E adesso fate domanda di divorzio, mi disse Carvajal, e non mi stava dando un imperativo categorico ma piuttosto mi ricordava impersonalmente la condizione necessaria delle cose future. Così l’inesplicabile futuro divora ineluttabilmente il presente. Perché, a quale fine, a quale scopo? Io l’amavo ancora.

Eppure i nostri rapporti si erano aggravati sempre di più nell’estate e l’eutanasia era l’unica soluzione plausibile. Tutto ciò che di comune un tempo avevamo era crollato in pezzi; Sundara era completamente persa nei ritmi e riti del Passaggio, si era data anima e corpo alle sue assurdità sacre e io stesso ero immerso nei miei sogni di chiaroveggenza; oltre a un appartamento e un letto, non dividevamo più niente.

Penso che avremo fatto l’amore non più di tre volte quell’ultima estate. Fatto l’amore! Qualunque cosa Sundara e io abbiamo fatto, in quelle tre volte di pressioni di carne contro carne, “amore” non è certo il termine giusto; abbiamo fatto sudore, lenzuola spiegazzate, respiro pesante, persino l’orgasmo, ma amore? L’amore era là, incapsulato dentro di me e forse anche dentro di lei, come un prezioso capitale messo da parte.

Tre volte in un mese. Il suo corpo sinuoso non aveva perso nulla della sua bellezza ai miei occhi. Ma in quei giorni mi sembrava che il sesso tra Sundara e me fosse qualcosa di irrilevante, di improprio. Non avevamo niente da offrire l’uno all’altra tranne i nostri corpi e dal momento che tutti gli altri punti di contatto tra noi erano ormai corrosi, quell’unico che ancora rimaneva era diventato peggio che insignificante.

L’ultima volta che facemmo l’amore, dormimmo insieme, ci accoppiammo, godemmo, fu sei giorni prima dell’ordine di Carvajal. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta, anche se immagino che avrei dovuto saperlo, se fossi stato davvero metà del profeta per cui la gente mi pagava.

Sundara e io eravamo fuori con dei vecchi amici quel venerdì sera, il gruppo a tre Caldecott, Tim, Beth e Corinnie. Tim e io eravamo stati soci dello stesso circolo di tennis molti anni prima, e una volta avevamo vinto un torneo di doppio, cosa che ci aveva legati molto. Quella sera bevemmo parecchio, fumammo ancora di più e portammo avanti una specie di corteggiamento a cinque che sarebbe sicuramente finito a letto, con me, Tim e la bionda Corinne da una parte e Sundara e Beth dall’altra. Ma a un certo punto mi accorsi con sorpresa che Sundara stava mandando chiarissimi segnali nella mia direzione. Era così “partita” da dimenticare che ero suo marito? O era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta che io le sembravo una novità tentatrice? Non so. Comunque, il calore della sua improvvisa occhiata ristabilì tra noi una risonanza che presto diventò incandescente; riuscimmo a scusarci senza che i Caldecott si offendessero e corremmo a casa.

Tutto rimase perfetto, il nostro stato d’animo, l’atmosfera, tutto.

Fu un amplesso impeccabile, i nostri corpi si muovevano in sintonia perfetta, nella tradizionale posizione occidentale, e non c’era ragione per cui non avrei potuto andare avanti tutta la notte. Ma naturalmente, non fu un atto d’amore: fu semplicemente una gara atletica, eravamo due discoboli che si muovevano in tandem, ripetendo i riti fissi e preordinati della loro specialità, ma l’amore non aveva proprio niente a che vedere con tutto questo. Così ricevemmo le nostre medaglie d’oro delle Olimpiadi e, dopo la fine, ci trovammo sudati ed esausti.

— Ti dispiacerebbe prendermi un po’ d’acqua? — mi chiese Sundara dopo qualche minuto.

Fu così che finì.

— E adesso fate domanda di divorzio — ordinò Carvajal sei giorni dopo.

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