34

Mi presi una vacanza. Ma non sulle spiagge delle Hawaii troppo affollate, troppo movimentate, troppo lontane, e neppure nella riserva di caccia in Canada, perché in quei posti c’era già la neve alla fine dell’autunno; andai invece in California, la dorata California di Carlos Socorro, in quel posto fantastico che è Big Sur, dove un altro amico di Lombroso possedeva un cottage isolato in sequoia, su un acro di terreno in cima a una scogliera che dominava l’oceano. Per dieci giorni agitati, vissi in rustica solitudine, con i declivi boscosi delle Santa Lucia Mountains, buie e misteriose e coperte di felci, alle spalle, e la vasta insenatura del Pacifico davanti, centocinquanta metri sotto di me. Era, mi avevano assicurato, il periodo migliore dell’anno a Big Sur, la stagione idilliaca che separa le foschie dell’estate dalle piogge invernali, e lo era veramente, con calde giornate di sole e fresche notti stellate e, ogni sera, un incredibile tramonto color porpora e oro. Passeggiavo nei boschi silenziosi di sequoie, nuotavo nei freschi e rapidi ruscelli di montagna, strisciavo giù per le rocce coperte di cascate di piante grasse dalle foglie lucenti fino alla spiaggia e alle onde turbolente. Osservavo i cormorani e i gabbiani intenti al pasto serale e, un mattino, vidi una buffa lontra di mare che nuotava a pancia all’aria a cinquanta metri dalla riva, mangiando un granchio.

Ma non trovavo pace. Pensavo troppo a Sundara, chiedendomi, frustrato e confuso, come avevo fatto a perderla; mi crucciavo per noiose questioni politiche che qualunque uomo di buon senso avrebbe scacciato dalla sua mente in un posto come quello; immaginavo le complicate catastrofi entropiche che si potevano verificare se Quinn non andava in Louisiana. Vivevo in paradiso e trovavo il modo di essere nervoso, teso e a disagio.

Tuttavia, molto lentamente, mi permisi di riprendere forze e vigore. Lentamente la magia della costa lussureggiante, conservatasi miracolosamente intatta in un secolo in cui quasi tutto il resto era stato rovinato, cominciò ad agire beneficamente sulla mia anima spossata e confusa.

Forse “vidi” per la prima volta mentre mi trovavo a Big Sur.

Non ne sono sicuro. Mesi e mesi di vicinanza con Carvajal non avevano ancora portato a dei risultati definitivi. Conoscevo gli espedienti usati da Carvajal per provocare lo stato, conoscevo i sintomi di una visione imminente, ero sicuro che entro breve tempo avrei “visto”, ma non avevo ancora avuto nessuna esperienza visionaria sicura, e più mi sforzavo di riuscirci, naturalmente, più lontano mi sembrava la meta. Però ci fu uno strano momento alla fine del mio soggiorno a Big Sur. Ero stato sulla spiaggia e ora, alla fine del pomeriggio, stavo arrancando velocemente per il ripido sentiero che portava al cottage, con il fiato grosso, godendo dell’inebriante stordimento che mi prendeva mentre sforzavo deliberatamente cuore e polmoni al massimo. Arrivato a un punto tutto curve, mi fermai un attimo, voltandomi a guardare indietro, e il riverbero accecante del sole che picchiava sulla superficie del mare mi colpì, abbagliandomi, tanto che vacillai con un brivido e dovetti afferrarmi a un cespuglio per non cadere. Proprio in quel momento mi sembrò — fu solo una sensazione illusoria, un breve guizzo impercettibile — mi sembrò di vedere, attraverso il fuoco d’oro, il vessillo del sole che ondeggiava sopra un’immensa piazza, e al centro dello stendardo c’era il viso di Paul Quinn che mi stava guardando, un viso possente, un viso imperioso, e la piazza era piena di gente, migliaia e migliaia di persone pigiate, centinaia di migliaia, che agitavano le braccia, urlavano selvaggiamente, salutavano la bandiera, una calca, un’immensa entità collettiva in preda all’isterismo, all’adorazione di Quinn. Avrebbe potuto essere ugualmente il 1934, Norimberga, un viso diverso sul vessillo, folli occhi ipertiroidei e rigidi baffi neri, e ciò che urlavano poteva essere Heil Sieg! Heil Sieg! Rimasi senza fiato e caddi in ginocchio, stravolto dalla vertigine, dal terrore, dallo stupore, dalla paura, da non so cosa. Gemetti, mettendo le mani sul viso, e la visione non c’era più, la brezza pomeridiana spazzò via folla e vessillo dal mio cervello pulsante e davanti ai miei occhi vidi solo l’oceano infinito.

Avevo “visto” davvero? Il velo del tempo si era aperto davanti a me? Era dunque Quinn il futuro “führer”, il duce di domani? Oppure la mia mente stanca aveva cospirato con il corpo spossato provocando un rapido lampo di paranoia, nient’altro che immaginazioni folli? Non lo sapevo. Continuo a non saperlo. Ho una mia teoria secondo la quale io “vidi” veramente; ma non ho mai più “visto” quel vessillo, né ho mai più udito quelle terribili grida rimbombanti della folla in delirio, e fino a che il giorno del vessillo non incomberà realmente su di noi non saprò la verità.

Alla fine, decisi che ero rimasto segregato nei boschi abbastanza a lungo da poter tornare a City Hall ed essere accolto nuovamente come un consigliere equilibrato e degno di fiducia; tornai, quindi, a New York, al mio polveroso e trascurato appartamento nella 63a Strada. Tutto era all’incirca come prima. I giorni erano più corti, ora che novembre era arrivato, e la nebbia d’autunno aveva ceduto alle prime sferzanti bufere dell’inverno in arrivo, che spazzavano la città da fiume a fiume. Il sindaco, mirabile dictu, era stato in Louisiana e, con enorme dispiacere dei redattori del “New York Times”, aveva approvato la costruzione della traballante Diga Plaquemines ed era stato fotografato mentre abbracciava il governatore Thibodaux: nella foto Quinn aveva un’espressione acida, ma decisa, e sorrideva come uno che abbraccia una pianta di cactus. Poi andai a Brooklyn a trovare Carvajal. Era passato un mese dall’ultima volta che l’avevo visto, ma mi sembrò molto invecchiato, terreo, avvizzito, occhi opachi e acquosi, mani tremanti. Non mi era più apparso così consunto e devastato dal tempo del nostro primo incontro, nell’ufficio di Lombroso, nel mese di marzo; tutta la forza che aveva acquistato nella primavera e nell’estate l’aveva abbandonato, tutta quella improvvisa vitalità che forse aveva tratto dal suo rapporto con me. Non forse; sicuramente. Infatti, attimo dopo attimo, quando ci sedemmo a parlare, il colore gli tornò e un lampo di energia ricomparve nei suoi lineamenti.

Gli raccontai cosa era successo sulla collina a Big Sur.

— Forse è un inizio. Alla fine dovrà pure cominciare. Perché non là?

— Se ho “visto”, però, che cosa significava quella visione? Quinn con vessilli? Quinn che arringa la folla?

— Come posso saperlo?

— Non avete mai “visto” qualche cosa del genere?

— L’ora di Quinn verrà dopo la mia morte — mi ricordò.

Nei suoi occhi c’era un leggero rimprovero. Sì: quest’uomo aveva meno di sei mesi di vita e lo sapeva, ne conosceva l’ora, il momento. Riprese: — Vi ricordate che aspetto aveva il Quinn più anziano che avete “visto”? Il colore dei capelli, i tratti del viso…

Tentai di ricordare. Quinn aveva adesso 38 anni. Quanti anni poteva avere l’uomo il cui viso riempiva il grande vessillo? Lo avevo subito riconosciuto come Quinn, quindi non poteva essere cambiato molto. Più paffuto di adesso?

I capelli biondi un po’ brizzolati alle tempie? Il sogghigno ferreo inciso più profondamente? Non sapevo. Non avevo notato. Solo una fantasia, forse. Un’allucinazione nata dalla fatica. Chiesi scusa a Carvajal; promisi di stare più attento la prossima volta, ammesso che ci fosse una prossima volta.

Lui mi assicurò che ci sarebbe stata. Avrei “visto”, mi disse fermamente, animandosi. Più stavamo insieme, più riacquistava vigore. Avrei “visto”, senza dubbio.

Poi cambiò argomento.

— Al lavoro. Nuove istruzioni per Quinn.

C’era solo un appunto questa volta: il sindaco doveva cominciare a cercarsi un nuovo assessore alla polizia, perché l’assessore Sudakis tra breve avrebbe dato le dimissioni. La cosa mi stupì. Sudakis era stato una delle scelte più felici di Quinn, energico e popolare, era l’unica persona del Dipartimento di Polizia di New York che, da un paio di generazioni a oggi, potesse essere considerato una specie di eroe, un uomo solido, fidato, incorruttibile, coraggioso. Dopo solo un anno e mezzo come capo del Dipartimento era considerato un’istituzione; sembrava che avesse sempre avuto quella carica e fosse destinato a conservarla per sempre. Aveva fatto un lavoro fantastico trasformando la Gestapo di Gottfried in una forza con il compito di mantenere la pace, e la sua opera non era ancora terminata: solo un paio di mesi prima io stesso avevo sentito Sudakis dire al sindaco che gli ci sarebbe voluto un altro anno e mezzo prima di terminare il ripulisti. Sudakis che dava le dimissioni? Non mi suonava.

— Quinn non ci crederà. Mi riderà in faccia.

Carvajal scrollò le spalle.

— Dopo il primo dell’anno Sudakis non sarà più assessore alla polizia. Il sindaco dovrebbe trovare in tempo un valido sostituto.

— Forse è così. Ma sembra così maledettamente improbabile. Sudakis è solido come la rocca di Gibilterra. Non posso andare dal sindaco e dirgli che sta per dare le dimissioni, anche se è vero. Già per la faccenda di Thibodaux e Ricciardi ho dovuto sostenere una lotta durissima e Mardikian ha voluto che mi curassi con un po’ di riposo. Se adesso arrivo con un’assurdità di questo genere, sono capaci di licenziarmi.

Carvajal continuò a fissarmi con aria imperturbabile e implacabile.

— Fornitemi, almeno, qualche dato che sostenga questa tesi. Perché Sudakis ha in mente di ritirarsi?

— Non so.

— Riuscirei a ottenere qualche indizio se parlassi con lui?

— Non so.

— Non sapete, non sapete! E neanche vi interessa, vero? Tutto quello che sapete è che medita di andarsene.

— Non so neppure quello, Lew. Tutto quello che posso dirvi è che darà le dimissioni. Forse neanche lui lo sa ancora.

— Ma bene! Benissimo! Avverto il sindaco, il sindaco manda a chiamare Sudakis, e Sudakis nega tutto, perché per ora non è ancora così.

— La realtà non si smentisce mai. Sudakis se ne andrà. Accadrà improvvisamente.

— Ma devo essere proprio io a dirlo a Quinn? Cosa succede se non gli dico niente? Se la realtà non si smentisce mai, Sudakis si dimetterà, sia che io parli sia che io non parli. Non è così? Non è vero?

— Volete che il sindaco sia colto alla sprovvista quando succederà?

— Molto meglio questo piuttosto che il sindaco pensi che sono pazzo.

— Avete paura di avvertire Quinn delle dimissioni di Sudakis?

— Sì.

— Cosa pensate che vi potrebbe succedere?

— Mi troverò in una posizione imbarazzante. Mi si chiederà di dare una giustificazione a qualcosa che per me non ha senso. Dovrò continuare a ripetere che è un’intuizione, solo un’intuizione, ma se Sudakis nega di avere intenzione di dimettersi, perderò la mia influenza su Quinn. Può anche darsi che perda il mio posto. È questo che volete?

— Non ho nessun desiderio di alcun genere.

— Senza contare che Quinn non permetterà che Sudakis si dimetta.

— Ne siete sicuro?

— Sicurissimo. Ne ha troppo bisogno. Non accetterà le sue dimissioni. Qualunque cosa possa dire, Sudakis conserverà il proprio posto, e allora cosa succede al mantenimento della realtà?

— Sudakis non conserverà il suo posto — ripeté Carvajal, indifferente.

Me ne andai e cominciai a riflettere.

Le obiezioni che avevo mosso a Carvajal sembravano logiche, ragionevoli, plausibili e inconfutabili. Non ero disposto a espormi tanto subito dopo il mio ritorno, mentre Mardikian era ancora scettico sul mio equilibrio mentale. D’altra parte, se qualche fatto imprevedibile avesse costretto Sudakis a dimettersi, io avrei trascurato il mio dovere non avvertendo il sindaco. In una città sempre sull’orlo del caos, anche una confusione di pochi giorni nei quadri dirigenziali del Dipartimento di Polizia poteva portare all’anarchia nelle strade, e la cosa di cui Quinn aveva certamente meno bisogno, come candidato potenziale alla presidenza, era un rigurgito, sia pur breve, del disordine che aveva devastato la città prima dell’amministrazione repressiva di Gottfried e nel breve interregno del debole DiLaurenzio. Inoltre, non avevo mai rifiutato di ubbidire alle direttive di Carvajal, e non volevo sfidarlo ora. Poco alla volta, il concetto dell’immutabilità della realtà era diventato parte di me; senza rendermene conto avevo accettato la filosofia di Carvajal a tal punto che avevo paura di intromettermi nel corso inevitabile degli eventi. Sentendomi come uno che si arrampica su una banchisa di ghiaccio diretta verso le Cascate del Niagara, decisi di passare l’indicazione a Quinn, con o senza paura.

Ma aspettai una settimana, sperando che la situazione si risolvesse in qualche modo da sola senza bisogno del mio intervento, poi metà di un’altra, così avrei potuto aspettare che finisse l’anno, ma sapevo perfettamente che mi stavo illudendo. Alla fine buttai giù l’appunto e lo portai a Mardikian.

— Non ho nessuna intenzione di far vedere questa roba a Quinn — mi annunciò due ore dopo.

— Devi farlo — ribattei senza molta convinzione.

— Lo sai cosa succederà se lo faccio? Vorrà la tua testa, Lew. Ho dovuto fare i salti mortali per un giorno e mezzo per convincerlo sulla faccenda di Ricciardi e il viaggio in Louisiana, e le cose che Quinn ha detto su di te non erano molto lusinghiere, credimi. Ha paura che tu dia completamente i numeri.

— Tutti voi lo pensate. Be’, non è vero. Mi sono goduto una splendida vacanza in California e non mi sono mai sentito meglio in vita mia. Inoltre, per l’inizio del prossimo gennaio questa città avrà bisogno di un nuovo assessore alla polizia.

— No.

— No?

Mardikian brontolò tra i denti. Si mostrava tollerante, conciliante, ma era stufo di me e delle mie predizioni, lo sapevo.

— Dopo aver ricevuto il tuo appunto, ho telefonato a Sudakis e gli ho detto che circolano delle voci sulle sue presunte dimissioni. Non ho fatto nomi. Gli ho fatto credere di averlo saputo da uno dei ragazzi della stampa. Avresti dovuto vedere la sua faccia, Lew. Sembrava che gli avessi insultato la madre. Ha giurato su sessanta santi e cinquanta angeli che l’unica maniera per fargli lasciare il suo posto sarebbe licenziarlo. Di solito mi rendo conto quando uno cerca di fermi scemo e Sudakis era la persona più sincera che abbia mai visto.

— Non importa, Haig, tra un mese o due darà le dimissioni.

— Come può essere?

— Si verificheranno delle circostanze inaspettate.

— Cioè?

— Una cosa qualsiasi. Ragioni di salute. Uno scandalo improvviso nel Dipartimento. Una vantaggiosissima offerta di lavoro da San Francisco. Non so quale sarà la ragione esatta. Ti sto solo dicendo…

— Lew, come è possibile che tu sappia cosa Sudakis farà a gennaio, se neppure lui lo sa?

— Lo so — insistetti.

— Come è possibile?

— È un’intuizione.

— Un’intuizione. Continui a ripetere sempre la stessa cosa. Il tuo lavoro ha a che fare con l’interpretazione degli orientamenti generali, non con previsioni di carattere individuale, eppure, ultimamente, non hai fatto altro che offrirci queste indicazioni isolate, queste trovate da mago con la sfera di cristallo, questi…

— Haig, ne ho sbagliata qualcuna?

— Non ne sono sicuro.

— Nessuna. Nemmeno una. Di molte non abbiamo ancora le prove definitive, ma non ne esiste una che sia stata contraddetta dagli sviluppi successivi, nessun consiglio si è rivelato poco saggio, nessun…

— È lo stesso, Lew. L’ultima volta ti dissi che noi non crediamo agli indovini. Non allontanarti da previsioni generiche su situazioni ben chiare, d’accordo?

— Sto solo cercando di fare l’interesse di Quinn.

— Certo. Ma penso che dovresti badare di più al tuo.

— Che cosa vuoi dire?

— Che se il tuo lavoro non assume, diciamo, un carattere meno anticonvenzionale, il sindaco sarà costretto a fare a meno dei tuoi servizi.

— Sciocchezze. Quinn ha bisogno di me, Haig.

— Lui comincia a pensare di no. Comincia a pensare che tu possa perfino rappresentare un danno.

— Allora non si rende conto di quanto ho fatto per lui. È almeno di mille chilometri più vicino alla Casa Bianca di quanto non sarebbe stato senza di me. Ascolta, Haig, non mi importa se tu e Quinn pensate che sono pazzo, ma ricordati che a gennaio questa città si sveglierà senza un assessore alla polizia, e questo stesso pomeriggio il sindaco dovrebbe iniziare a cercare un sostituto. Perciò voglio che tu glielo dica.

— Non lo farò. Per il tuo bene.

— Non essere ostinato.

— Ostinato? Ostinato? Sto cercando di salvarti la testa!

— Che male ci sarebbe se Quinn cominciasse a cercare in segreto un altro assessore? Se Sudakis non si dimette, Quinn lascerà perdere e nessuno ne saprà niente. Non posso permettermi di sbagliare una volta? Può darsi che abbia ragione Sudakis, ma se anche non fosse così, non sarebbe una tragedia, no? È una semplice informazione, forse utile, quella che sto offrendo, qualcosa di molto importante se vera, e…

— Nessuno dice che tu debba essere sempre nel giusto al 100%, e naturalmente non avremmo nessuna difficoltà a cercare, con discrezione, in caso di bisogno, un nuovo assessore. Le difficoltà semmai riguardano te, e questo sto cercando di evitarti. Senti, Quinn mi ha detto esplicitamente che se ti presenti ancora una volta con una delle tue profezie da magia nera, ti trasferisce al Dipartimento della Sanità o peggio, e lo farà, Lew, lo farà. Può darsi che tu abbia avuto un colpo di fortuna pazzesco, tirando fuori una notizia sensazionale come questa, ma…

— Non è fortuna, Haig — ribattei tranquillamente.

— Cosa?

— Non uso affatto i metodi stocastici. Non opero per congetture. Io “vedo”; proprio così, riesco a vedere nel futuro e a udire conversazioni, leggere titoli di giornali, osservare gli avvenimenti, posso ricavare qualsiasi tipo di dati dal futuro.

Era una bugia senza peso, attribuire a me i poteri di Carvajal. Da un punto di vista operativo, i risultati erano gli stessi e non aveva importanza chi fosse a “vedere”.

— È per questo che non sempre posso fornire dei dati che sostengano i miei appunti — continuai. — Guardo in gennaio, “vedo” Sudakis che dà le dimissioni e questo è tutto. Non ne so il perché, non intravedo ancora il quadro generale di causa ed effetto, ma solo il fatto. È una cosa diversa dalle previsioni degli orientamenti e una cosa totalmente differente, più assurda, molto meno plausibile, ma più sicura, sicura al 100%! Io posso “vedere” ciò che succederà.

Mardikian rimase in silenzio a lungo.

Alla fine disse, con voce roca e soffocata: — Lew, dici sul serio?

— Serissimo.

— Se vado a chiamare Quinn, gli ripeterai esattamente quello che mi hai appena detto? Esattamente?

— Sì.

— Aspetta qui.

Aspettai. Cercai di non pensare a niente. Mantenendo la mente vuota, lasciando fluire la corrente stocastica: avevo agito stupidamente, avevo calcato troppo la mano? Non mi sembrava. Pensavo che fosse giunto il momento di rivelare qualcosa di quello che stavo davvero facendo. Per essere più credibile, avevo tralasciato il ruolo avuto da Carvajal in tutta la faccenda, ma per il resto non avevo nascosto niente e mi sentivo estremamente rilassato, invaso da una calda ondata di sollievo, ora che finalmente mi ero tolto la maschera.

Dopo circa un quarto d’ora Mardikian ritornò. Il sindaco era con lui. Fecero alcuni passi nell’ufficio e si fermarono vicino alla porta, l’uno a fianco dell’altro, formando una coppia stranamente malassortita: Mardikian bruno e altissimo, Quinn biondo, basso, robusto. Avevano un’aria terribilmente solenne.

Mardikian ordinò: — Ripeti al sindaco quello che hai detto a me, Lew.

Allegramente, ripetei la mia confessione, usando, per quanto mi era possibile, le stesse parole. Quinn ascoltò senza cambiare espressione. Quando finii, mi chiese: — Da quanto tempo lavori per me, Lew?

— Dall’inizio del ’96.

— Quasi quattro anni. E da quando tiri fuori le tue previsioni direttamente dal futuro?

— Non da molto tempo. Solo dalla primavera scorsa. Ti ricordi quando ti spinsi a far approvare dal City Council quel progetto di legge sul coagulamento del petrolio, poco prima che saltassero in aria quelle petroliere al largo del Texas e della California? Fu in quel periodo. Quella non era solo una congettura. Poi, ci furono altre cose, quei consigli che a volte ti sembravano assurdi…

— Come in una sfera di cristallo — fece Quinn con aria pensierosa.

— Si, proprio. Ti ricordi il giorno in cui mi parlasti della tua decisione di presentarti per le elezioni del 2004, Paul, ti ricordi cosa mi dicesti? “Tu sarai gli occhi che guarderanno nel futuro per me.” Allora non sapevi ancora quanto avevi ragione!

— Pensavo che un paio di settimane di riposo ti avrebbero aiutato a rimetterti. Ma adesso vedo che il problema è molto più profondo.

— Cosa?

— Per quattro anni sei stato un buon amico e un collaboratore prezioso. Non intendo sottovalutare il valore dell’aiuto che mi hai dato. Forse attingevi le tue idee da analisi intuitive degli orientamenti, o forse dai computer, o forse da uno spirito che ti sussurrava preziose informazioni a un orecchio ma, comunque, mi davi consigli utili. Adesso, però, non posso rischiare di tenerti nel mio staff dopo quello che hai detto. Se cominciano a circolare delle voci che le decisioni più importanti di Paul Quinn vengono prese da un guru, da un profeta, da un Rasputin chiaroveggente, che io non sono altro che un burattino che sgambetta nell’oscurità, sono un uomo rovinato, finito. Ti metteremo in congedo illimitato a cominciare da oggi, e tu percepirai il tuo stipendio fino alla fine dell’anno fiscale, d’accordo? Così avrai più di sette mesi per rimettere in piedi il tuo vecchio studio di consulenze, prima che tu sia cancellato dal libro-paga municipale. Con il divorzio e tutto il resto, non ti trovi, probabilmente, in condizioni finanziarie floride e io non voglio danneggiarti. Facciamo un patto: io non rilascerò nessuna dichiarazione pubblica sulla ragione delle tue dimissioni e tu non darai pubblicità alla presunta origine dei consigli che mi davi. Ti sembra abbastanza corretto?

— Mi stai cacciando via? — balbettai.

— Mi dispiace, Lew.

— Posso farti diventare presidente, Paul.

— Temo che dovrò farcela da solo.

— Tu pensi che sia matto, non è vero?

— È una parola un po’ forte.

— Però lo pensi, vero? Pensi di avere accettato i consigli di un pazzo pericoloso e non fa differenza che i consigli del pazzo si siano sempre rivelati giusti, perché adesso devi liberartene; eh, certo, sarebbe molto brutto che la gente cominciasse a pensare che hai tenuto uno stregone nel tuo staff, e così…

— Ti prego, Lew. Non rendermi la cosa più difficile.

Attraversò la stanza e afferrò la mia mano debole e fredda con una stretta vigorosa. Il suo viso era vicinissimo al mio.

Eccoci di nuovo: il celebre “Trattamento Quinn” ancora una volta, l’ultima volta. In fretta disse: — Credimi, mi mancherai. Come amico e come collaboratore. Può darsi che stia facendo un grosso errore. Ed è doloroso fare un passo di questo genere. Ma hai ragione: non posso correre il rischio, Lew. Non posso proprio correre il rischio.

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