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Le visioni cominciarono a febbraio. Ne avevo avuto un’anticipazione sulla scogliera di Big Sur e un’altra a “Times” Square nella notte di Capodanno, ma adesso diventarono parte della routine giornaliera. “Nessuno può squarciare l’immenso, nero velo incerto” dice il poeta “perché non c’è luce dietro la tenda”. Oh, la luce, la luce, la luce è là! E illuminò le mie giornate invernali. All’inizio le visioni mi apparivano non richieste, come attacchi epilettici, solitamente nel tardo pomeriggio o poco prima di mezzanotte, annunciandosi con un colpo alla nuca, una sensazione di calore, di solletico che non mi lasciava. Presto imparai la tecnica per provocarle e potevo quindi “vedere” quando volevo. Anche allora, però, riuscivo a “vedere”, al massimo, una volta al giorno, con un prolungato periodo di ricupero dopo ogni volta. Nel giro di poche settimane, tuttavia, fui capace di entrare nello stato di “visione” più prontamente — due o anche tre volte al giorno — come se il potere fosse un muscolo che si sviluppa con l’uso. Alla fine l’intervallo di ricupero diventò minimo. Adesso posso attivare la mia facoltà ogni quindici minuti, se me la sento. Una volta, per fare un esperimento, verso l’inizio di marzo, provai ad attivarla e disattivarla costantemente per diverse ore, stancandomi molto, ma senza diminuire l’intensità di ciò che “vedevo”.

Se mi capita di non evocare io stesso le visioni almeno una volta al giorno, esse mi vengono comunque, comparendomi spontaneamente, rovesciandosi, non chiamate, nella mia mente.

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