Nonostante ogni sforzo, Alystra non riuscì a cavare altro da Khedron. Il Buffone si era riavuto abbastanza presto dal colpo iniziale e dal panico che l’aveva spinto a tornare alla superficie quando si era trovato da solo nella profondità della Tomba. Era un po’ vergognoso del suo contegno di codardo e si domandava se avrebbe mai trovato il coraggio di ridiscendere. Alvin, se non proprio incosciente, era stato un po’ più ardito, e Khedron era certo che non avrebbe corso nessun pericolo e che ben presto sarebbe ritornato. Be’, quasi certo; c’era quel tantino di dubbio che giustificava una certa precauzione. Sarebbe stato prudente, quindi, tenere la cosa segreta o far credere a uno dei suoi soliti scherzi.
Purtroppo non era riuscito a mascherare la sua agitazione agli occhi di Alystra. Lei gli aveva letto la paura negli occhi e l’aveva interpretata come un segno che Alvin si trovava in pericolo. Khedron aveva cercato invano di rassicurarla. La ragazza se l’era presa con lui, e si era sempre più incollerita mentre attraversavano il Parco, In un primo momento Alystra aveva deciso di restare alla Tomba e aspettare che Alvin tornasse nella stessa misteriosa maniera in cui era scomparso. Khedron aveva fatto in modo di convincerla che sarebbe stata una inutile perdita di tempo, e si era sentito sollevato quando l’aveva vista riprendere con lui la strada per tornare in città. C’era la possibilità che Alvin tornasse subito, e Khedron non voleva che qualcun altro scoprisse il segreto di Yarlan Zey.
Quando raggiunsero la città era ormai evidente che la tattica evasiva di Khedron era fallita in pieno e che la situazione gli era seriamente sfuggita di mano. Si trovava, per la prima volta nella sua vita, con le spalle al muro, e non si sentiva in grado di fronteggiare i problemi che potevano nascere.
L’improvvisa e irrazionale paura venne lentamente rimpiazzata da un profondo e più fondato allarme. Fino a quel momento Khedron non aveva mai dato un grande valore a quelle che potevano essere le conseguenze dei suoi atti. La sua stessa curiosità e la lieve ma vera simpatia che provava per Alvin erano state un motivo sufficiente per fare tutto ciò che aveva fatto. Anche se aveva dato il suo incoraggiamento e il suo aiuto ad Alvin, non aveva mai creduto che sarebbe veramente capitata una cosa del genere.
Nonostante l’abisso di anni e di esperienza che li separava, la volontà di Alvin era sempre stata più forte della sua. In quel momento era troppo tardi per fare qualcosa. Khedron sentiva che gli eventi lo stavano trascinando verso una situazione completamente al di fuori del suo controllo.
Date tutte queste cose, era ingiusto che Alystra lo considerasse il cattivo genio di Alvin e che lo accusasse di tutto quel che era accaduto. Alystra non era vendicativa, ma era in collera, e parte della sua irritazione si sfogò su Khedron. Se ciò che stava per fare gli avrebbe procurato dei guai, lei non se ne sarebbe certo rammaricata.
Si separarono nel più gelido silenzio, all’uscita del Parco. Khedron restò a fissare Alystra che spariva in lontananza, chiedendosi cosa avrebbe combinato ora quella ragazza. C’era solo una cosa di cui poteva essere certo: per un po’ la noia non avrebbe costituito un problema.
Alystra agì con prontezza e intelligenza. Scartò subito l’idea di informare Eriston ed Etania; i genitori di Alvin erano due simpatiche nullità per cui lei provava un certo affetto, ma nessun rispetto. Oltre a sprecare tempo in chiacchiere inutili avrebbero potuto fare solo quel che lei aveva già in mente: rivolgersi al tutore.
Jeserac ascoltò il racconto dominando benissimo ogni emozione. Tanto bene, che Alystra ne restò quasi seccata. Le sembrava che una cosa tanto importante e straordinaria non fosse mai successa prima di allora, e il comportamento indifferente di Jeserac la deluse. Quando la ragazza ebbe finito di parlare, Jeserac le fece altre domande, lasciando intendere che, secondo lui, aveva preso un abbaglio. Per quale ragione credere che Alvin avesse lasciato la città? Non poteva essere uno scherzo fatto a lei? Era probabilissimo, data la presenza di Khedron. Magari, proprio in quel momento, Alvin, nascosto da qualche parte, se la stava ridendo beatamente.
L’unica reazione positiva che riuscì a strappare a Jeserac fu la promessa che avrebbe fatto un’inchiesta, e che le avrebbe fatto sapere qualcosa. Lei, dal canto suo, non avrebbe fatto parola con nessuno. Era illogico spargere l’allarme per un incidente che si sarebbe forse chiarito in poche ore.
Alystra si congedò da Jeserac piuttosto frustrata. Sarebbe stata di tutt’altro umore se avesse potuto seguire il contegno del tutore subito dopo la sua partenza.
Jeserac, che aveva fatto parte un tempo del Consiglio, aveva parecchi amici influenti. Chiamò i tre più fidati e accennò loro la cosa. Come tutore di Alvin si trovava in una posizione delicata. Per il momento, era bene essere in pochi al corrente del fatto.
Furono tutti d’accordo: il primo passo da fare era mettersi in contatto con Khedron.
Ma Khedron, che l’aveva previsto, si era reso irreperibile.
Se c’era qualcosa di ambiguo nella posizione di Alvin, i suoi ospiti avevano tanto tatto da non ricordarglielo. Era libero di andare dovunque gli piacesse, ad Airlee, il piccolo villaggio sul quale Seranis governava. Governare era forse una parola troppo forte per esprimere le reali funzioni di Seranis. A volte la donna sembrava un dittatore benevolo, a volte pareva non avere alcun potere. Per ora Alvin non era riuscito affatto a comprendere il sistema sociale di Lys, forse perché era troppo semplice, o forse perché tanto complesso che i suoi ordinamenti gli sfuggivano. Per certo Alvin sapeva che Lys era divisa in innumerevoli villaggi, dei quali Airlee era un esempio tipico. E tuttavia non esistevano esempi tipici, poiché gli avevano assicurato che ogni villaggio faceva di tutto per essere il più possibile diverso dai suoi vicini. C’era da fare una confusione spaventosa.
Airlee, così piccolo e con meno di mille abitanti, era pieno di sorprese.
Non c’era un solo aspetto della vita che non differisse in pieno dall’equivalente a Diaspar. E questo perfino in cose fondamentali come la parola. Qui solo i piccoli parlavano; gli adulti di rado, e quando lo facevano era più che altro per un riguardo ad Alvin. Era sconcertante trovarsi solo in mezzo a quella rete di comunicazioni senza suono, indistinguibili. Ma poco alla volta Alvin ci fece l’abitudine. Trovava strano che la parola fosse sopravvissuta, dato che era diventata inutile, ma in seguito si accorse che alla gente di Lys piaceva molto cantare e che amava ogni forma musicale. Senza quell’incentivo, forse da lungo tempo sarebbero stati completamente muti.
Tutti erano occupatissimi, intenti a problemi e compiti che parevano ad Alvin incomprensibili. A suo giudizio, facevano un sacco di cose inutili.
Invece di usare cibi sintetici, coltivavano quasi tutto. Se Alvin faceva un commento, gli spiegavano pazientemente che era bello veder crescere le piantine, fare esperimenti genetici, ottenere nuovi sapori e aromi. Airlee era famosa per la sua frutta, ma Alvin non la trovò affatto migliore di quella che avrebbe potuto materializzare a Diaspar con un semplice cenno della mano.
Dapprima si chiese se la gente di Lys avesse perduto, o non avesse mai posseduto, le forze e le macchine sulle quali si basava la vita a Diaspar.
Ben presto si rese conto che non si trattava di questo. Le macchine e la tecnica esistevano, ma si ricorreva a esse solo quando era indispensabile. Il sistema di trasporti, per esempio, se poteva essere degno di questo nome.
Per le distanze brevi, la gente andava a piedi e ci trovava gusto. Se avevano fretta, o dovevano trasportare un piccolo carico, si servivano di animali.
C’erano gli animali da tiro, bestie basse, a sei gambe, docili e non molto intelligenti. Gli animali da corsa erano invece a quattro zampe, ma se dovevano correre alla massima velocità si servivano soltanto delle zampe posteriori. Potevano attraversare Lys in poche ore e il passeggero se ne stava a cavalcioni su una seggiolina legata alla groppa con cinghie. Niente al mondo avrebbe indotto Alvin a correre un simile rischio, sebbene quello sport fosse molto popolare tra i giovani. I corsieri di razza erano l’aristocrazia del mondo animale, e lo sapevano benissimo. Erano in grado di parlare, e Alvin li sentì vantarsi di vittorie passate e future. Quando cercava di mostrarsi cordiale e tentava di unirsi alla loro conversazione, loro facevano finta di non capirlo, e se insisteva, si allontanavano con aria di dignità oltraggiata.
Quelle due qualità di animali riuscivano a soddisfare tutte le normali necessità, e potevano dare ai padroni un piacere che nessuna macchina sarebbe riuscita a supplire.
Se invece occorreva una velocità massima, o c’erano grossi carichi da trasportare, si ricorreva alle macchine.
Il mondo animale era per Alvin una continua scoperta, ma quel che proprio l’affascinava erano le due età estreme della popolazione: i giovanissimi e i vecchi. Il più anziano di Airlee aveva sì e no toccato il secondo secolo di vita, e non gli restava molto, ormai. A quell’età, pensava Alvin, lui sarebbe stato circa come ora, mentre quel vecchio, che non aveva davanti a sé una catena di esistenze future come compenso, era arrivato al limite delle sue forze fisiche. I capelli erano tutti candidi, la faccia era una massa incredibilmente intricata di rughe. Passava la maggior parte del tempo seduto al sole, o passeggiando nel villaggio e scambiando saluti con quelli che incontrava. Per quel che poteva dire Alvin, sembrava assolutamente contento, non chiedeva di vivere ancora a lungo, e non era affatto rattristato all’idea della morte.
La filosofia di quella gente era così in antitesi con quella di Diaspar che Alvin non ci si raccapezzava. Perché si doveva accettare di morire quando c’era la possibilità di vivere per migliaia di anni e poi di restare in letargo per qualche altro millennio, preparandosi a rinascere per vivere in quel mondo che si aveva contribuito a creare? Era ben deciso a risolvere quel mistero non appena gli fosse capitata l’occasione di discuterne con franchezza. Gli era difficile credere che Lys avesse fatto di sua volontà quella scelta, sapendo che esisteva un’alternativa.
Trovò parte della risposta tra i bambini, quelle piccole creature più strane degli animali. Trascorse gran parte del suo tempo in mezzo a loro, osservandoli giocare o prendendo parte ai loro giochi. Certe volte non gli sembravano nemmeno umani con quella loro logica e perfino quel linguaggio così particolari. Guardava incredulo gli adulti, chiedendosi come era possibile che fossero stati prima simili a quelle straordinarie creature che parevano passare la vita in un mondo loro proprio.
Eppure, anche quando lo sconcertavano, facevano nascere nel suo cuore un sentimento che lui non aveva mai conosciuto. Quando, come accadeva a volte, scoppiavano in lacrime di delusione o di rabbia, i loro piccoli crucci gli sembravano più tragici della reclusione dell’Uomo. La perdita dell’Impero Galattico era qualcosa di troppo grande e di troppo remoto per la comprensione di oggi, mentre il pianto di un bambino faceva male al cuore.
Alvin aveva incontrato l’amore a Diaspar; ora stava imparando qualcosa di altrettanto prezioso, senza il quale l’amore stesso non avrebbe mai potuto raggiungere il suo più alto appagamento, ma avrebbe dovuto rimanere incompleto per sempre. Stava imparando la tenerezza.
Mentre Alvin studiava Lys, Lys studiava Alvin e ne era piuttosto soddisfatta. Tre giorni dopo, Seranis propose all’ospite di visitare il resto del territorio. Alvin accettò con entusiasmo, a condizione che non pretendessero di farlo cavalcare su uno di quegli scalpitanti animali.
«Vi assicuro» rise Seranis, divertita «che nessuno si sognerebbe di rischiare una di quelle preziose bestie. Dato il caso eccezionale, vi offrirò il più comodo dei nostri mezzi di trasporto. Hilvar vi farà da guida, ma potrete andare dove volete.»
Alvin fece le sue brave riserve su questo. Sapeva che, se avesse tentato di ritornare in cima alla collina dalla quale era arrivato, avrebbe incontrato parecchie obiezioni. Comunque, per il momento non aveva fretta di ritornare a Diaspar e, per la verità, dopo il primo incontro con Seranis non aveva più pensato al problema. La vita a Lys era nuova e interessante, e per il momento Alvin si accontentava di vivere alla giornata.
Apprezzò il gesto di Seranis, che gli aveva offerto suo figlio come guida anche se dovevano aver certamente dato a Hilvar l’incarico di badare che non si cacciasse in qualche guaio. C’era voluto un po’ di tempo perché Alvin si abituasse a Hilvar, per una ragione che non avrebbe potuto confessare senza ferire i sentimenti dell’altro. La perfezione fisica era così universale a Diaspar, che la bellezza personale era una qualità priva di valore e nessuno ci faceva caso. A Lys le cose erano diverse. L’attributo più lusinghiero che poteva essere usato per Hilvar era «un tipo alla buona». Secondo i concetti di Alvin, Hilvar era decisamente brutto, tanto che all’inizio l’aveva evitato. Se anche Hilvar se n’era accorto, non l’aveva dato a vedere, e dopo non molto il suo carattere dolce e cordiale spezzò la barriera sorta tra loro.
Ben presto Alvin doveva fare una tale abitudine al largo sorriso di Hilvar, alla sua forza e alla sua simpatia, da non poter più capacitarsi del perché l’avesse trovato repellente, e da non volerlo cambiare per nessun motivo.
I due lasciarono Airlee poco dopo l’alba, in un piccolo veicolo che Hilvar chiamava vettura e che era basato sullo stesso principio di quello che aveva trasportato Alvin da Diaspar. Fluttuava nell’aria a pochi centimetri dal suolo, e sebbene non esistesse alcun segno di binario, Hilvar spiegò che le vetture potevano seguire solo determinati percorsi. Tutti i centri abitati erano legati tra loro in quel mondo, ma durante la sua intera permanenza a Lys, Alvin non vide un solo veicolo terrestre in funzione.
Hilvar ci teneva alla spedizione quasi quanto Alvin; e s’era dato un gran daffare per organizzare i preparativi. Aveva stabilito l’itinerario tenendo cura di certi suoi interessi particolari. La storia naturale era la sua grande passione. Sperava di scoprire insetti sconosciuti nelle regioni poco abitate che aveva intenzione di visitare. Aveva stabilito che sarebbero andati a sud finché la macchina li avesse portati, e poi avrebbero proseguito a piedi.
Alvin, senza rendersi conto di ciò che questo implicava, non mosse obiezioni. Nel loro viaggio li accompagnava anche Krif, il più spettacolare degli animali di Hilvar. Quando Krif riposava, le sei ali trasparenti stavano ripiegate lungo il corpo facendolo somigliare a uno scettro ricoperto di gioielli. Quando veniva disturbato, si alzava nell’aria con un fremito di colori. Il grosso insetto rispondeva quando veniva chiamato e obbediva a certi semplici ordini, ma era quasi totalmente senza cervello. Tuttavia aveva una sua personalità definita, e per qualche ragione particolare era sospettoso di Alvin, tanto da rendere inutile ogni tentativo di farglisi amico.
Il viaggio attraverso Lys pareva ad Alvin come un sogno. La macchina, silenziosa come un fantasma, si apriva la via nei boschi senza mai deviare dal suo invisibile binario. Andava dieci volte più in fretta di un uomo a piedi; raramente, a Lys, la premura esigeva maggiore velocità.
Oltrepassarono parecchi villaggi, alcuni più grandi, ma quasi tutti simili ad Airlee. Alvin stava attento a cogliere le leggere ma significative differenze degli abiti, e un poco anche dei caratteri somatici, che c’erano tra una comunità e l’altra. Lys si componeva di centinaia di culture distinte, ciascuna delle quali apportava un suo talento particolare alla società. Il veicolo era abbondantemente provvisto del più famoso prodotto di Airlee: delle piccole pesche gialle che venivano sempre ricevute con gioia ogni volta che Hilvar le distribuiva.
Hilvar si fermava spesso per chiacchierare con amici e presentarli ad Alvin, e ogni volta Alvin restava impressionato dalla cortesia che usavano verso di lui, ricorrendo al linguaggio parlato non appena venivano a sapere chi fosse. A volte doveva essere noioso per loro ma, da quanto poteva giudicare, riuscivano sempre a resistere alla tentazione di comunicare telepaticamente, e lui non si sentì mai escluso dalla conversazione. La sosta più lunga avvenne in un paesino seminascosto da un’alta erba dorata che ondeggiava dolcemente al vento, al di sopra delle loro teste. Avanzando venivano continuamente colpiti dagli steli che ondeggiavano sopra di loro. In un primo momento fu irritante, perché Alvin aveva la sensazione che l’erba si piegasse per osservarlo, poi ci si abituò.
Alvin scoprì ben presto la ragione della fermata. Tra la piccola folla che si era fatta incontro alla vettura c’era una timida ragazza bruna che Hilvar presentò come Nyara.
Nyara e Hilvar erano evidentemente felici di vedersi, e Alvin provò un po’ d’invidia per quella gioia a lui sconosciuta. Hilvar era combattuto fra i suoi doveri di guida e il desiderio di restare solo con Nyara; Alvin lo salvò subito dalla difficile situazione allontanandosi per una passeggiatina. Non c’era molto da vedere nel villaggio, ma il giovane fece di tutto per perdere tempo.
Quando si rimisero in cammino, avrebbe voluto fare a Hilvar molte domande. Non riusciva a immaginare come potesse essere l’amore in una società telepatica. Prese il coraggio a due mani e affrontò l’argomento. Hilvar lo accontentò di buon grado, sebbene Alvin avesse il sospetto di avergli fatto interrompere un tenero e prolungato scambio di addii mentali.
A Lys, spiegò Hilvar, tutti gli amori cominciavano con un contatto mentale e potevano passare mesi, perfino anni, prima che una coppia si incontrasse. In questo modo non potevano esserci impressioni false, né tradimenti. Due persone non potevano avere segreti l’una per l’altra se le loro menti erano in contatto diretto. Se uno dei due nascondeva qualcosa, l’altro se ne accorgeva immediatamente.
Solo personalità mature e ben equilibrate potevano affrontare tanta onestà; solo un amore privo di qualsiasi egoismo poteva sopravvivere. Alvin capiva benissimo che un simile amore sarebbe stato più profondo e più ricco di quelli che nascevano fra la sua gente; sarebbe stato così perfetto, anzi, che quasi stentava a credere che potesse davvero realizzarsi.
Pure Hilvar assicurava di sì e restò con gli occhi fissi, perduto nei suoi sogni, quando Alvin lo pregò di essere più esplicito. C’erano cose che non si potevano comunicare: o uno le sentiva, oppure no. Alvin concluse con tristezza che non sarebbe mai riuscito a raggiungere quel grado di comprensione reciproca che per questa gente fortunata rappresentava la base dell’esistenza.
La savana terminò bruscamente, come se ci fosse tracciato un confine oltre il quale l’erba non poteva più crescere. Di fronte si ergeva una catena di dolci colline boscose. La catena, spiegò Hilvar, era una propaggine del bastione principale posto a guardia di Lys. Le montagne vere e proprie erano al di là, ma per Alvin perfino quelle collinette rappresentavano una vista imponente e piena di fascino.
La vettura si arrestò in una valletta illuminata dagli ultimi raggi del sole ormai al tramonto. Hilvar gettò ad Alvin un’occhiata candida e, si sarebbe potuto giurare, del tutto innocente.
«E ora dobbiamo metterci in cammino» disse allegro, mettendosi a scaricare il bagaglio. «In vettura non è possibile proseguire oltre.»
Alvin guardò le colline, poi il comodo sedile sul quale aveva viaggiato.
«Non c’è una strada che giri attorno?» chiese, con poca speranza.
«C’è, ma noi non giriamo attorno. Andiamo sulla cima, il che è molto interessante. Inserisco il comando automatico sulla vettura, così la troveremo ad aspettarci quando scenderemo dall’altro versante.»
Alvin, ben deciso a non arrendersi senza combattere, fece un ultimo tentativo.
«Tra poco sarà buio. Non ce la faremo a fare tutta quella strada prima di notte.»
«Appunto» fece Hilvar, scaricando pacchi e attrezzature con la massima rapidità. «Passeremo la notte sulla cima, e domattina scenderemo.»
Alvin capì di essere battuto.
L’equipaggiamento che dovevano trasportare sembrava enorme, ma in pratica non pesava nulla. Tutto era imballato in scatole con polarizzatore di gravità che neutralizzavano il peso, per cui bisognava vincere solo la resistenza dell’inerzia. Finché tirava diritto, Alvin non si accorgeva affatto di essere carico, ma quegli imballaggi richiedevano un po’ di pratica perché appena tentava di cambiare un poco direzione i bagagli sembravano sviluppare una personalità ostinatissima e parevano voler proseguire nella direzione di prima. Quando Hilvar ebbe legate tutte le cinghie, e dopo essersi assicurato che tutto era in ordine, cominciarono a salire lentamente. Alvin si voltò un attimo a guardare con occhi di desiderio la vettura che spariva alla loro vista, chiedendosi quante ore sarebbero trascorse prima di potersi abbandonare di nuovo su quei comodi cuscini.
Nonostante ciò, era piacevole salire col sole che batteva sulla nuca e vedere che al di sotto il paesaggio si faceva sempre più ampio. Stavano percorrendo un sentiero poco battuto che spariva di tanto in tanto, ma Hilvar riusciva a seguirlo anche quando Alvin credeva che se ne fosse perduta la traccia. Hilvar spiegò che il sentiero era stato fatto da certe bestiole che vivevano su quelle colline, alcune solitarie, altre in piccole comunità che riproducevano vagamente gli schemi della società umana. Alcune avevano persino scoperto, o lo avevano appreso da altri, l’uso degli utensili e del fuoco. Ad Alvin non venne mai il sospetto che quelle creature potessero anche essere ostili. Tutti e due, sia lui che Hilvar, davano per scontato il contrario. Da tempi immemorabili, nessuno aveva mai cercato, sulla Terra, di ostacolare la supremazia dell’Uomo.
Camminavano da circa mezz’ora quando Alvin colse nell’aria un lontano mormorio. Non riusciva a stabilirne l’origine, poiché non pareva venire da alcuna particolare direzione. Era un brontolio incessante, che aumentava a mano a mano che il paesaggio si allargava sotto di loro. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni a Hilvar, ma preferiva risparmiare il fiato per cose più essenziali.
Alvin era sanissimo, anzi non aveva mai conosciuto un’ora di malessere in tutta la sua vita. Ma la robustezza non era sufficiente per quella sfacchinata; occorreva l’esercizio. I passi leggeri di Hilvar, l’agilità con la quale si arrampicava su per il pendio, lo riempivano d’invidia. Era deciso a non darsi per vinto finché gli fosse restato un po’ di fiato. Sapeva benissimo che Hilvar lo stava mettendo alla prova, ma non era offeso. La competizione era in un certo senso divertente e Alvin ne apprezzava lo spirito, anche se cominciava a sentire i muscoli indolenziti.
A due terzi di strada Hilvar s’impietosì e propose una piccola sosta. Il brontolio era fortissimo, ora, ma Hilvar rifiutò di dare spiegazioni. Voleva fare una sorpresa ad Alvin, disse, e non intendeva rovinare tutto.
Per fortuna l’ultimo pezzo di strada saliva dolcemente. Gli alberi che coprivano la parte bassa della collina si erano diradati, come stanchi di combattere contro la forza di gravità, e negli ultimi cinquecento metri il terreno era coperto da un’erba grassa e folta su cui era piacevole camminare. Hilvar bruciò le ultime energie guadagnando di corsa la cima. Alvin ignorò la sfida. Era già molto se ce la faceva a continuare la salita, e appena ebbe raggiunto Hilvar si lasciò cadere soddisfattissimo a fianco dell’amico.
Solo quand’ebbe ripreso un po’ di fiato fu in grado di ammirare il panorama che si stendeva ai suoi piedi e di scoprire l’origine del tuono che ora riempiva l’aria. Poco lontano il terreno scendeva ripido sulla pianura, tanto ripido da diventare, in breve, una parete quasi verticale. E proprio dalla cresta della collina scaturiva un potente nastro d’acqua che andava a perdersi tra le rocce dopo un salto di circa trecento metri. Là si frangeva in una miriade di spruzzi scintillanti, mentre dalla profondità si levava quel tuono incessante che si ripercuoteva in sordi echi tra le colline.
Quasi tutta la cascata era in ombra, ma i raggi del sole riuscivano ancora a illuminare il terreno sottostante, dando un magico tocco finale alla scena.
Alla base della cascata, vibrante in tutta la sua sfumata bellezza, si alzava l’arcobaleno, l’ultimo arcobaleno della Terra.
Hilvar mosse il braccio in un gesto che abbracciava l’intero orizzonte.
«Di qui» disse, alzando la voce per farsi udire sopra il frastuono della cascata «è possibile vedere tutta Lys.»
A nord si stendevano chilometri e chilometri di foresta, rotta qua e là da radure, da campi, e dai nastri serpeggianti di centinaia di fiumi. Nascosto in qualche angolo del vasto panorama doveva esserci il villaggio di Airlee, ma era inutile cercarlo. Alvin ebbe la sensazione di vedere lo scintillio del lago presso cui correva il sentiero che portava all’ingresso di Lys, poi si convinse che i suoi occhi lo avevano ingannato. Più lontano, sempre a nord, piante e radure si confondevano in un tappeto a macchie verdi rotto qua e là dalle cime delle colline. Dietro tutto questo, all’estremo limite dell’orizzonte, le montagne che dividevano Lys dal deserto si allungavano come un banco di nuvole.
A est e a ovest il panorama era quasi identico, ma a sud le montagne sembravano soltanto a pochi chilometri di lontananza. Alvin le poteva vedere distintamente, e si rese conto che erano molto più alte della cima su cui si trovava. Le separava da lui una zona molto più selvaggia di quella che avevano attraversato. Dava una sensazione di deserto e di vuoto, come se l’uomo non l’avesse più percorsa da molti e molti anni.
Hilvar rispose alla domanda muta di Alvin.
«Una volta questa parte di Lys era abitata» disse. «Non so perché l’abbiano abbandonata, e forse un giorno torneremo a occuparla. Ora è regno esclusivo degli animali.»
Infatti non si vedeva traccia di vita umana; nessun campo, o canale, che indicasse il lavoro dell’uomo. Ma c’era qualcosa a testimoniare che l’uomo vi aveva vissuto. Lontano, dal tetto della foresta, una solitaria rovina bianca si ergeva simile a una zanna spezzata. Tutto attorno la foresta aveva ripreso il suo dominio. La luce rossa del sole che stava per calare dietro le montagne aggiungeva un tocco magico alla scena. Per un attimo meraviglioso, le lontane montagne parvero incendiarsi di fiamme dorate; poi la terra fu rapidamente inghiottita dalle ombre. Era notte.
Hilvar, sempre pratico, si mise all’opera per disfare i bagagli. «Dobbiamo far presto» disse. «Tra cinque minuti sarà buio pesto, e farà anche freddo.»
Strani oggetti venivano estratti e posati sull’erba. Fra essi un piccolo treppiede con un’asta verticale allungabile, in cima alla quale c’era una protuberanza a forma di pera. Hilvar alzò l’asta fino a che la pera fu proprio al di sopra delle loro teste e diede alcuni ordini mentali che Alvin non riuscì a intercettare. Subito la pera cominciò a diffondere luce e calore. Hilvar, reggendo il treppiede in una mano e il suo zaino con l’altra, cominciò a discendere lungo il pendio, mentre Alvin lo seguiva con altri involti, facendo del suo meglio per tenersi nella piccola zona illuminata. Hilvar scelse un piccolo spiazzo e si accinse a sistemare il resto dell’equipaggiamento.
Per prima comparve una larga cupola di materiale rigido e trasparente, che li avvolse proteggendoli dalla brezza fredda che aveva cominciato a soffiare.
La cupola era generata da una scatoletta rettangolare che Hilvar posò a terra e poi dimenticò completamente, al punto da seppellirla sotto il mucchio degli altri aggeggi. Forse la stessa scatola proiettava le due cuccette su cui Alvin non vedeva l’ora di buttarsi.
Era la prima volta che Alvin vedeva oggetti materializzati a Lys dove, a suo giudizio, le case erano troppo ingombre di quei manufatti permanenti che sarebbe stato molto più conveniente conservare nelle Banche Memoria. Poco dopo Hilvar, che non smetteva di armeggiare tra le strane scatolette, presentò all’amico un completo pasto sintetico. Da un’apertura in cima alla cupola entrava un forte soffio d’aria: il convertitore di materia risucchiava i materiali necessari per compiere il normalissimo miracolo.
Tutto sommato, Alvin fu molto più soddisfatto dei cibi sintetici. Il modo in cui gli altri alimenti venivano preparati gli sembrava spaventosamente anti-igienico. Se non altro, con il convertitore di materia si sapeva esattamente cosa si mangiava…
Quand’ebbero finito di mangiare era ormai notte fonda. Al limite del cerchio di luce in cui si trovavano, Alvin riuscì a scorgere un movimento di sagome confuse. Erano le creature notturne che lasciavano i loro nascondigli. Di tanto in tanto poteva vedere il bagliore della luce riflessa negli occhi degli animali che lo stavano guardando; nessuna bestia, però, ebbe il coraggio di avvicinarsi, così Alvin non riuscì a vederle bene. Alvin, in quella pace dolcissima, si sentiva sereno e felice. Sdraiati sulle cuccette, i due giovani chiacchierarono delle cose che avevano visto, del mistero che avvolgeva entrambi e dei vari aspetti in cui le loro culture differivano. Hilvar era affascinato dal miracolo dei Circuiti d’Eternità, e Alvin faceva del suo meglio per rispondere alle domande dell’amico.
«Quel che non capisco» disse Hilvar «è in che modo i progettisti di Diaspar potevano avere la certezza che i circuiti non si sarebbero mai guastati.
Tu mi hai detto che le informazioni che definiscono la città, e tutta la gente che la abita, sono conservate sotto forma di carica elettrica all’interno di certi cristalli. Bene, i cristalli possono durare in eterno… ma tutti i circuiti collegati con loro? Non ci sono mai stati guasti di qualche genere?»
«È la stessa domanda che ho fatto io a Khedron. Mi ha detto che le Banche Memoria sono triple. Ognuno dei tre gruppi può alimentare la città, e se uno si guasta, gli altri automaticamente lo correggono. Il danno ci sarebbe solo nel caso in cui lo stesso errore si formasse in due gruppi su tre, ma le probabilità sono infinitesimali.»
«E come viene mantenuta la relazione tra il modello conservato nell’unità-memoria e la struttura della città? Tra il progetto, come era, e la cosa che esso descrive?»
Ora Alvin brancolava nel buio. La risposta implicava conoscenze tecniche basate sull’alterazione dello spazio stesso… Ma come si potesse fissare rigidamente un atomo in una posizione definita con dei dati accumulati in un altro luogo, lui non l’avrebbe saputo minimamente spiegare. Con una ispirazione improvvisa, indicò la cupola invisibile che li proteggeva nella notte.
«Dimmi come fa questa scatola a creare questo tetto sulla nostra testa, e poi io ti spiegherò come funzionano i Circuiti di Eternità.»
Hilvar scoppiò a ridere.
«Il paragone è ottimo. Dovresti chiederlo a uno dei nostri esperti del campo teorico, se vuoi saperlo. Io non lo so di certo.»
La risposta lasciò Alvin molto pensoso. Dunque a Lys c’erano ancora uomini in grado di capire come funzionavano le macchine; non si poteva dire altrettanto di Diaspar.
Continuarono a chiacchierare e a discutere, poi Hilvar sbadigliò.
«Sono stanco. Dormiamo, adesso?»
«Mi piacerebbe.» Alvin si fregò gli occhi. «Ma non so se ci riuscirò. Mi sembra un’abitudine così strana.»
«Qualcosa di più di un’abitudine» sorrise Hilvar.
«Mi hanno detto che anticamente era una necessità per ogni essere vivente. Noi ancora oggi dormiamo almeno qualche ora al giorno. Riposa il corpo e la mente. A Diaspar non dormite propriomai?»
«Rarissimo. Jeserac, il mio tutore, ha dormito solo una volta o due dopo aver fatto sforzi mentali eccezionali. Un corpo ben costruito non dovrebbe aver bisogno di periodi di riposo; sono milioni di anni che noi ne facciamo a meno.»
E proprio mentre parlava con tanta sicurezza, le sue azioni lo smentirono. Cominciò a provare una pesantezza sconosciuta; pareva salire dalle gambe e spargersi in tutto il corpo. Era una sensazione tutt’altro che spiacevole. Hilvar lo stava osservando con un sorriso divertito. Alvin si chiese se l’amico non stesse esercitando qualcuno dei suoi poteri mentali su di lui.
In quel caso, non si sarebbe opposto di certo.
La luce che emanava dalla pera di metallo si attenuò, ma il calore rimase costante. Nella penombra, la mente assonnata di Alvin registrò un particolare curioso e si ripromise di parlarne al mattino seguente.
Hilvar si era tolto gli abiti, e per la prima volta Alvin si accorse di quanto le due ramificazioni della razza umana si fossero differenziate. Alcuni cambiamenti erano solo di proporzione; altri, come organi genitali esterni e presenza di unghie, denti, capelli, erano fondamentali. Ma ciò che colpì Alvin più di tutto, fu la presenza di un misterioso buchetto nella cavità dello stomaco di Hilvar.
Alcuni giorni dopo se ne ricordò improvvisamente; ne venne fuori una lunga serie di spiegazioni. Alla fine Hilvar riuscì a far capire chiaramente ad Alvin il perché della presenza dell’ombelico; gli ci erano volute, però, parecchie migliaia di parole e almeno una dozzina di disegni. Ma entrambi avevano fatto un grosso passo avanti nella comprensione delle basi della loro reciproca cultura.