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Jeserac considerò che pochi giorni prima quella conferenza sarebbe parsa una cosa impensabile.

I sei visitatori giunti da Lys sedevano di fronte al Consiglio. Jeserac meditava sull’ironia della cosa. Soltanto poche ore prima, infatti, Alvin, fermo a quello stesso posto, aveva ascoltato il verdetto del Consiglio, secondo il quale Diaspar doveva venir di nuovo isolata dal resto del mondo. Ed ecco che il mondo aveva fatto irruzione a Diaspar… E non solo il mondo, ma l’Universo.

Anche il Consiglio era leggermente mutato. Cinque dei suoi membri erano assenti. Incapaci di affrontare le responsabilità e i problemi che erano sorti, avevano seguito il sentiero già tracciato da Khedron. Anche questa, pensava Jeserac, era una prova che Diaspar era fallita, se tanti dei suoi cittadini erano incapaci di accettare la prima sfida dopo milioni di anni. Migliaia di abitanti erano fuggiti, rifugiandosi nell’incoscienza delle Banche Memoria, nella speranza che, al risveglio, la crisi fosse passata e Diaspar fosse ancora quella di sempre. E invece, sarebbero rimasti delusi.

Jeserac era stato costretto a occupare uno dei posti vacanti del Consiglio.

Per quanto il fatto di essere tutore di Alvin lo mettesse in una posizione delicata, la sua presenza era assolutamente necessaria, e nessuno si oppose alla sua elezione. Sedeva a una estremità del lungo tavolo a ferro di cavallo, posizione che gli permetteva di osservare tanto gli stranieri quanto i colleghi Consiglieri.

Alvin aveva visto giusto, e il Consiglio stava digerendo un po’ alla volta la sgradevole verità. I delegati venuti da Lys sapevano pensare molto meglio delle migliori menti di Diaspar. Non solo, ma mostravano di saper coordinare le idee in modo incredibile, cosa dovuta probabilmente ai loro poteri telepatici. Si domandò se stavano leggendo i pensieri dei membri del Consiglio, poi si convinse che non avrebbero infranto la solenne promessa che aveva reso possibile l’incontro.

Non gli pareva che si fossero fatti progressi notevoli. Il Consiglio, per quanto avesse accettato l’esistenza di Lys, sembrava non essersi ancora reso conto di cos’era accaduto. Erano tutti impauriti… E forse lo erano anche i visitatori, per quanto riuscissero a nasconderlo meglio.

Jeserac però non era tanto terrorizzato. Certo, aveva ancora tutte le sue paure, ma riusciva a dominarle. L’imprudenza (o il coraggio?) di Alvin lo avevano alquanto cambiato. Non credeva di poter mai mettere piede oltre le mura di Diaspar, ma ora capiva l’impulso che aveva spinto Alvin a farlo.

La domanda del Presidente colse Jeserac alla sprovvista, ma il tutore di Alvin se la cavò ugualmente.

«Il mio modesto parere è che è stato solo un puro caso se questa situazione non si è mai presentata prima d’ora. Sappiamo che ci sono stati in passato ben quattordici Unici, e certo la loro esistenza doveva avere uno scopo. Questo scopo, secondo me, era di impedire che Lys e Diaspar restassero divise per sempre. Alvin l’ha impedito, infatti, ma ha fatto anche qualcosa di più, qualcosa che forse non era nei propositi originali. Può il Computer Centrale confermare questa ipotesi?»

La voce impersonale del Computer rispose immediatamente.

«Il Consigliere sa che non posso fare commenti sulle istruzioni avute dai miei costruttori.»

Jeserac incassò il colpo.

«Qualunque sia la causa, non possiamo discutere i fatti. Alvin è partito verso lo spazio. Quando tornerà potrete proibirgli di partire di nuovo, ma dubito che ci riuscirete, anche perché nel frattempo può avere appreso una quantità di cose. Se ciò che temete è avvenuto, nessuno di noi può far nulla. La Terra è inerme… come lo è stata per milioni di secoli.»

Jeserac tacque e si guardò attorno. Le sue parole non erano piaciute, cosa che aveva già previsto.

«D’altra parte, non vedo perché dovremmo allarmarci. La Terra non corre pericoli maggiori di quelli che già correva. Perché mai due uomini in una piccola astronave dovrebbero attiraci di nuovo il furore degli Invasori?

Se vogliamo essere onesti con noi stessi, dobbiamo ammettere che gli Invasori avrebbero potuto distruggerci già da un bel pezzo.»

Ci fu un silenzio pieno di disapprovazione. Era un’eresia. Lo stesso Jeserac, in passato, avrebbe gridato allo scandalo.

Il Presidente, accigliatissimo interloquì.

«Non dice la leggenda che gli Invasori avrebbero risparmiato la Terra, a condizione però che l’Uomo non si avventurasse mai più nello spazio? E

non abbiamo forse rotto questo patto?»

«Una leggenda, sì» replicò Jeserac. «Accettiamo molte cose senza discutere, e questa è una delle tante. Comunque, la prova di tutto questo non esiste. Mi sembra impossibile che un fatto di tale importanza non sia stato registrato nelle memorie del Computer Centrale, eppure il Computer non ne sa nulla. Gliel’ho chiesto, per mezzo delle macchine informative. Il Consiglio potrebbe rivolgere la domanda direttamente.»

Jeserac preferiva non rischiare un secondo ammonimento. Se la sbrigasse pure il Presidente.

Ma la risposta del Presidente non venne, perché proprio in quel momento i delegati di Lys balzarono in piedi, con facce sconvolte da una medesima espressione di incredulità e di allarme. Restarono in ascolto, mentre una voce lontana versava nelle loro orecchie il suo messaggio.

I Consiglieri trattennero il fiato; la loro apprensione cresceva di minuto in minuto. Infine il capo della delegazione si scosse dallo stato di trance, e si volse in tono di scusa al Presidente.

«Abbiamo appena ricevuto notizie strane e preoccupanti da Lys» disse.

«Alvin è tornato sulla Terra?»

«No, Presidente… Non Alvin. Qualcos’altro.»


Mentre atterrava con la fedele nave nella radura di Airlee, Alvin si chiedeva se fosse mai accaduto nella storia dell’umanità che una nave spaziale portasse sulla Terra un simile passeggero, ammesso che Vanamonde si trovasse entro lo spazio fisico della nave. Non c’era stato alcun segno della sua presenza durante il viaggio. Hilvar era convinto che solo la sfera di attenzione di Vanamonde potesse avere una qualsiasi posizione nello spazio.

Vanamonde stesso non poteva venir collocato in alcun luogo, e forse nemmeno nel tempo.

Seranis li aspettava con cinque senatori, uno dei quali era già noto ad Alvin fin dall’ultima visita. Gli altri due, pensò, dovevano essere alla riunione di Diaspar. E cercò di immaginare a che punto fossero nelle discussioni e come la città avesse reagito alla presenza degli intrusi giunti da fuori dopo tanti milioni di anni.

«A quanto pare, Alvin» fece Seranis seccamente, dopo aver salutato il figlio «avete un vero bernoccolo per scoprire entità notevoli. Stavolta, però, ci vorrà un bel pezzo prima che vi riesca di superare l’ultima impresa.»

Alvin restò di sasso.

«Ma come, Vanamonde è già arrivato?»

«Già, da parecchie ore. È riuscito chissà come a rintracciare il percorso fatto dal vostro scafo nel viaggio di andata. Un’impresa strabiliante, non c’è che dire, che solleverà problemi filosofici interessantissimi. Tutto fa credere che abbia raggiunto Lys nello stesso momento in cui l’avete scoperto, dal che si può dedurre che è capace di velocità infinita. E non è tutto. Nelle ultime ore ci ha insegnato più storia di quanta supponevamo ne esistesse.»

Alvin la guardava sbalordito. Infine comprese; non era difficile immaginare quale doveva essere stato l’effetto di Vanamonde su quella gente dotata di percezioni così acute, su tutte quelle menti così meravigliosamente collegate. Dovevano aver reagito con rapidità sorprendente. Alvin si figurò un incontro timoroso di Vanamonde, magari un po’ spaventato, in mezzo agli intelletti più seri di Lys.

«Avete scoperto cos’è?» chiese.

«Sì. Questo sarebbe il meno. Non sappiamo invece quali siano le sue origini. È un’intelligenza pura. La sua conoscenza sembra illimitata, ma nello stesso tempo è una mente infantile, nel vero senso della parola.»

«Ma certo!» gridò Hilvar. «Come ho fatto a non capirlo subito!»

Alvin parve imbarazzato, e Seranis ebbe pietà.

«Voglio dire che per quanto Vanamonde abbia una mente colossale, e forse infinita, è ancora immaturo. La sua intelligenza è inferiore a quella di un essere umano, anche se il suo processo di pensiero è rapidissimo, e impara con grande facilità. Possiede anche dei poteri che non riusciamo ancora a comprendere. L’intero passato è aperto alla sua mente, in un modo difficile da definire. Forse si è servito di questa capacità per rintracciare la rotta per la Terra.»

Alvin rimase in silenzio, vinto. In quel momento si rese conto quante ragioni avesse avuto Hilvar di portare Vanamonde a Lys. E quanta fortuna avesse avuto lui, una volta, nell’ingannare Seranis. Cosa che non gli sarebbe certamente riuscita una seconda volta.

«Volete dire che Vanamonde è appena nato?» domandò.

«In rapporto alla sua natura, sì. In realtà è antichissimo, sebbene più giovane dell’Uomo. Lo strano, poi, è che insiste nell’asserire che l’abbiamo creato noi. Senza dubbio la sua origine è legata ai grandi misteri del passato.»


«Dov’è ora?» s’informò Hilvar, con un certo tono di possesso.

«Gli storici di Grevarn lo stanno interrogando. Stanno cercando di tracciare le linee essenziali del passato, ma l’impresa richiede anni. Vanamonde sa descrivere tutto quello che è stato nei minuti particolari, senza però capire quello che descrive; è un affare serio interpretare quel che dice.»

Alvin si chiese come Seranis sapesse tutto ciò; poi si rese conto che in quel momento tutte le menti di Lys stavano seguendo i progressi della grande ricerca. Provò un senso di orgoglio al pensiero di aver prodotto sensazionali novità sia a Lys, sia a Diaspar, ma all’orgoglio si mescolava un senso di avvilimento. A Lys c’era qualcosa che non avrebbe mai potuto condividere né capire: il contatto diretto tra mente e mente era per lui un mistero, proprio come la musica per un sordo o il colore per un cieco.

Quelli di Lys stavano scambiandosi pensieri con l’essere inimmaginabile e assurdo mentre lui, che l’aveva conquistato alla Terra, non avrebbe mai potuto comprenderlo, con nessuno dei suoi sensi.

Lì non c’era posto per lui; quando l’indagine fosse finita, gli avrebbero comunicato i risultati. Aveva spalancato i cancelli dell’infinito, ma adesso era invaso dal timore, forse dalla paura, di ciò che aveva fatto. Per la sua stessa tranquillità doveva tornare al piccolo e familiare mondo di Diaspar, cercarvi rifugio dopo aver realizzato i suoi sogni e le sue ambizioni. C’era dell’ironia in tutto questo: colui che aveva disprezzato la città per avventurarsi tra le stelle stava per tornare a casa come un bimbo spaventato che corre tra le braccia della mamma.

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