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Alvin, che nella sua giovane esistenza aveva incontrato al massimo un millesimo degli abitanti di Diaspar, non fu sorpreso di trovarsi di fronte uno sconosciuto. Si sorprese, invece, di incontrare un essere vivente in quella torre solitaria, così vicino alle frontiere del mondo esterno.

Girò le spalle al mondo dello specchio e fissò lo sconosciuto, ma prima che Alvin potesse aprir bocca, l’altro gli aveva già rivolto la parola.

«Sei Alvin, vero? Quando mi sono accorto che qualcuno frequentava la torre, avrei dovuto immaginare che si trattava di te.»

L’osservazione non aveva niente di offensivo; era una semplice constatazione, e Alvin l’accettò come tale. Il giovane non si meravigliò d’essere stato riconosciuto: la sua unicità l’aveva reso noto a tutti i cittadini di Diaspar.

«Io sono Khedron» continuò l’altro, come se quel nome spiegasse ogni cosa. «Mi chiamano il Buffone.»

Alvin lo guardò interrogativo, e Khedron si strinse nelle spalle con comica rassegnazione.

«Caspita, come sono famoso! Be’, tu sei giovane e da quando sei al mondo non ci sono state burle. La tua ignoranza è scusabile.»

Khedron aveva un che d’insolito, di piacevole. Alvin non riusciva a ricordare il significato della parola buffone. Gli rammentava vagamente qualcosa, ma non riusciva a ricordare cosa fosse. C’erano infiniti titoli nella complessa struttura sociale della città e ci voleva una vita per impararli tutti.

«Vieni qui spesso?» chiese, un po’ geloso. Si era abituato a considerare la Torre di Loranne come una proprietà personale, ed era un po’ seccato all’idea che qualcun altro conoscesse quel posto meraviglioso. Ma, si domandò, Khedron aveva mai avuto il coraggio di osservare il deserto, o le stelle che brillavano nel cielo?

«No. Non sono mai venuto qui prima d’ora. Ma mi diverto a scoprire tutto ciò che d’insolito accade in città, ed erano secoli che nessuno visitava più questa torre.»

Alvin si domandò come facesse Khedron a sapere delle sue precedenti visite, ma subito abbandonò il pensiero. Diaspar era piena di occhi, di orecchie, e di altri più sottili sensi che tenevano la città informata su quanto avveniva all’interno. Chiunque, sufficientemente interessato, avrebbe potuto trovare il modo di mettersi in collegamento con uno di questi canali.

«Ammesso che si tratti di un avvenimento fuori dell’ordinario, come mai ti interessa?»

«Mi interessa perché l’originalità è la mia prerogativa. Ti ho notato da molto tempo. Sapevo che un giorno ci saremmo incontrati. Sono unico anch’io, in un certo senso. Non come te, questa non è la mia prima vita. Io sono già entrato e uscito migliaia di volte dalla Sala della Creazione, ma alle origini fui scelto come Buffone, e a Diaspar non rinasce mai più di un Buffone alla volta. La gente pensa che uno sia anche troppo.»

Il tono ironico di Khedron sconcertò Alvin. Non era molto educato rivolgere domande personali, ma in fin dei conti era stato Khedron a toccare l’argomento.

«Scusa la mia ignoranza, ma chi è e cosa fa un Buffone?»

«Mi chiedi «cosa» fa» ribatté Khedron. «Dovrò prima spiegarti «perché»

esiste. È una storia lunga, ma forse ti interesserà.»

«Tutto mi interessa» assicurò Alvin con calore.

«Benissimo. Gli uomini che idearono Diaspar, se sono stati degli uomini, e a volte ne dubito, si trovarono a dover risolvere un problema incredibilmente complesso. Diaspar, come sai, non è soltanto una macchina, è un organismo vivente e immortale. Noi siamo così abituati alla società in cui viviamo da non renderci conto di quanto sarebbe sembrata strana ai nostri progenitori. Il nostro mondo è piccolo e limitato, e non cambia mai se non in alcuni dettagli trascurabili. La sua stabilità è perfetta. Questo mondo è durato più a lungo di tutto il resto della storia dell’umanità, eppure in quella storia sono esistite, o almeno così si crede, infinite migliaia di culture e di civiltà che duravano per un certo tempo e poi tramontavano. Come ha potuto Diaspar raggiungere una così straordinaria stabilità?»

Alvin era meravigliato che qualcuno potesse porsi una domanda tanto semplice, e la sua speranza di imparare qualcosa di nuovo si affievolì.

«Grazie alle Banche Memoria, si capisce» replicò. «Diaspar si compone sempre della stessa gente, anche se i gruppi si alternano.»

Khedron scosse la testa.

«Questa è solo una piccola parte della risposta. Pur disponendo degli stessi individui, si possono creare sistemi sociali completamente diversi.

Non posso provartelo e non ho un esempio diretto, ma ne sono certissimo.

I creatori della città non solo fissarono quale avrebbe dovuto essere la popolazione, ma fissarono anche le leggi che ne avrebbero regolato la condotta. Noi non ci rendiamo conto dell’esistenza di queste leggi, eppure obbediamo a esse. Diaspar è una cultura congelata, che può cambiare solo entro stretti limiti. Le Banche Memoria conservano molte altre cose oltre gli schemi dei nostri corpi e delle nostre responsabilità. Conservano l’immagine stessa della città, mantenendone rigido ogni atomo a dispetto di qualsiasi cambiamento che il Tempo potrebbe portare. Guarda questo pavimento! Esiste da milioni di anni ed è stato calpestato da innumerevoli piedi. Mostra forse qualche segno di vecchiaia? La materia, per quanto dura, avrebbe dovuto consumarsi già da moltissimo tempo. Ma finché esisterà la forza che alimenta le Banche Memoria e finché le matrici conservate nelle Banche potranno esercitare un controllo sugli schemi della città, la struttura fisica di Diaspar non cambierà mai.»

«Ci sono stati dei cambiamenti» protestò Alvin. «Da quando esiste la città molti edifici sono stati abbattuti e altri ne sono sorti al loro posto.»

«Certo, ma questo si è fatto cancellando le informazioni conservate nelle Banche Memoria e sostituendole con altre nuove. Del resto, ho voluto solo indicarti come la città si presenti fisicamente. Allo stesso modo in Diaspar altre macchine preservano il nostro sistema sociale. Ecco il punto che tengo a dimostrare. Queste macchine controllano ogni cambiamento e lo correggono prima che diventi troppo grande. In che modo? Forse scegliendo quelli che escono dalla Sala della Creazione, forse modificando gli schemi della nostra personalità. Non posso saperlo. Pensiamo di avere una libera volontà, ma possiamo esserne certi?


«In ogni caso, il problema è stato risolto. Diaspar è sopravvissuta ed è passata indenne attraverso il Tempo, come una grande nave il cui carico è composto da ciò che rimane dell’umanità. È un risultato sorprendente dell’ingegneria sociale. Se poi valesse la pena di raggiungerlo è un altro paio di maniche.

«La stabilità, però, non è tutto. Conduce troppo facilmente al ristagno e quindi alla decadenza. I progettisti della città si sforzarono di evitare l’inconveniente, ma questi edifici deserti fanno sospettare che non ci siano pienamente riusciti. Io, Khedron, sono una di queste precauzioni. Una piccolissima, forse, anche se a me piace credere il contrario.»

«E quale sarebbe il tuo ruolo?» chiese Alvin, che navigava ancora nel buio e cominciava a esasperarsi.

«Diciamo che io, Khedron, devo creare una quantità già stabilita di disordine nella città. Spiegare le mie operazioni sarebbe come distruggere l’effetto. Giudica dunque dai miei atti, anche se sono pochi, piuttosto che dalle mie parole, anche se sono molte.»

Alvin non si era mai imbattuto in un tipo come Khedron. Il Buffone aveva una spiccata personalità, un carattere che superava di parecchio il generale livello di uniformità tipico a Diaspar. Per quanto sembrasse difficile scoprire con esattezza quali erano i suoi compiti, come li portasse a termine, non erano queste le cose importanti. Quel che più importava, Alvin lo sentiva, era l’aver trovato una persona con cui poter parlare… quando gliene lasciava il tempo… e che gli avrebbe potuto dare una risposta ai tanti quesiti che lo tormentavano da sempre.

Ripercorsero insieme i corridoi della Torre di Loranne fino alla strada mobile. Solo quando raggiunsero il centro Alvin ricordò che Khedron non gli aveva nemmeno chiesto perché fosse andato nella Torre. Sospettò che Khedron sapesse già tutto e che fosse incuriosito ma non sorpreso. Qualcosa gli diceva che Khedron non si meravigliava mai di niente.

Si scambiarono i rispettivi numeri di matricola, per potersi mettere in contatto qualora l’avessero desiderato. Alvin sperava di rivedere presto il Buffone, anche se sospettava che quella compagnia, a lungo andare, avrebbe rischiato di diventare un peso. Prima del prossimo appuntamento, però, voleva scoprire tutto ciò che i suoi amici, Jeserac in particolare, potevano dirgli sul conto di Khedron.

«Al prossimo incontro» disse Khedron, e svanì. Alvin provò un senso di irritazione. Quando si incontra qualcuno con la proiezione della propria immagine, e non per presenza fisica, è buona regola farlo presente fin dall’inizio della conversazione. A volte, ignorarlo può mettere l’altro in uno svantaggio considerevole. Forse Khedron se n’era rimasto tranquillamente a casa sua per tutto il tempo… ovunque fosse la sua casa. Il numero che il Buffone aveva lasciato ad Alvin dava la possibilità di raggiungerlo con un messaggio in qualsiasi momento, ma non rivelava dove abitasse. Questo però era normale. Si poteva dare il numero di codice con estrema facilità, ma il vero indirizzo lo si confidava soltanto agli amici più intimi.

Mentre tornava in città, Alvin considerò tutto quanto Khedron gli aveva detto su Diaspar e sull’organizzazione sociale della città. Era strano che non avesse mai incontrato nessun altro scontento di quel modello di vita.

Diaspar e i suoi abitanti erano stati designati quale parte di un piano prestabilito. Città e cittadino formavano una simbiosi perfetta e, durante la loro vita lunghissima, gli abitanti della città non avrebbero avuto modo di stancarsi. Per quanto il loro mondo fosse ristretto, rispetto a quello delle epoche precedenti, la complessità di questo mondo aveva un fascino irresistibile, e offriva una quantità di meraviglie e di tesori che andava oltre l’immaginazione. A Diaspar l’Uomo aveva radunato tutti i frutti del suo genio, tutto ciò che era stato possibile salvare dalle rovine del passato. Tutte le città che erano esistite un tempo, così si diceva, avevano dato qualcosa a Diaspar. Prima che venissero gli Invasori, il nome della loro città era conosciuto in tutti i mondi che poi l’uomo aveva perso. Nella costruzione di Diaspar erano state impegnate tutte le tecniche e tutta l’arte dell’Impero: quando i giorni della grandezza stavano per giungere al termine, gli uomini di genio avevano rimodellato la città fornendola di tutte le macchine che l’avrebbero resa immortale. Anche se dimenticata, Diaspar sarebbe vissuta, per portare i discendenti dell’Uomo in salvo lungo il fiume del Tempo.

Non era rimasto loro altro che sopravvivere, e se ne accontentavano. Milioni di cose occupavano le loro vite tra il momento in cui uscivano, quasi completamente adulti, dalla Sala della Creazione, a quando, appena invecchiati nel fisico, tornavano alle Banche Memoria della città. In un mondo dove uomini e donne possedevano un’intelligenza che un tempo era retaggio dei geni, non esisteva il pericolo della noia. La gioia di conversare e discutere, le complicate formalità della vita sociale, bastavano da sole a tenerli occupati per gran parte della vita. Inoltre c’erano i grandi dibattiti pubblici, dove tutta la popolazione interveniva per ascoltare le menti più acute in uno scontro di idee, o per cercare di raggiungere le più alte vette della filosofia.

Nessuno, uomo o donna, mancava di qualche interesse intellettuale. Eriston, per esempio, passava gran parte del suo tempo in lunghi soliloqui con il Computer Centrale. L’apparecchio, che virtualmente governava la città, era in grado di condurre conversazioni simultanee con tutti coloro che volevano cimentarsi in uno scontro verbale con lui. Da trecento anni Eriston cercava di costruire paradossi logici che la macchina non fosse in grado di risolvere. Ma non sperava di riuscirci, nonostante tutto il tempo di vita che aveva a disposizione.

Gli interessi di Etania erano di natura più estetica. Disegnava e costruiva, con l’aiuto del generatore di materia, schemi tridimensionali intrecciati, di tanta bellezza e complessità da essere addirittura esperimenti estremamente avanzati di topologia. Il suo lavoro poteva essere visto in tutta Diaspar, e alcuni suoi schemi erano stati incorporati nel pavimento della gran sala della coreografia, dove venivano usati come base per creare nuovi balletti e nuovi passi di danza.

Simili occupazioni possono sembrare aride a chi non possieda l’intelligenza per apprezzare tali raffinatezze. Comunque, in tutta Diaspar, non c’era nessuno che non fosse in grado di capire cosa stessero facendo Eriston ed Etania, e che non nutrisse interessi analoghi.

L’atletica e gli sport in genere, inclusi quelli resi possibili dal controllo della gravità, risultavano piacevoli soltanto nei primi secoli della giovinezza. Per le avventure e gli esercizi di immaginazione, le saghe provvedevano tutto quanto si poteva desiderare. Queste saghe erano l’inevitabile prodotto dello sforzo per ottenere il realismo, sforzo cominciato quando l’uomo aveva scoperto come riprodurre le immagini in movimento e registrare i suoni, e finito con l’uso delle tecniche perfezionatissime per creare scene che, di vita reale o immaginaria, creavano sempre l’illusione della realtà, perché tutte le impressioni venivano convogliate direttamente nel cervello, e qualsiasi sensazione suscettibile di generare conflitto veniva dissolta. Lo spettatore, per tutta la durata dell’avventura, veniva a trovarsi completamente fuori della realtà: era come se vivesse in un sogno, ma con la convinzione di essere sveglio.

In un mondo di ordine e di stabilità, dove tutto era rimasto immutato per migliaia di milioni d’anni, forse non era sorprendente trovare tanto interesse per i giochi d’azzardo. L’umanità era sempre stata affascinata dal mistero dei dadi che rotolano, dalle carte scoperte a una a una, dal girare vorticoso della roulette. Vero che questi interessi basati soltanto sull’avidità davano un genere di emozione che non poteva trovare posto in un mondo dove tutti possedevano tutto ciò di cui avevano ragionevolmente bisogno.


Tuttavia, pur scomparso questo motivo d’interesse, il fascino puramente intellettuale del gioco delle probabilità seduceva ancora i cervelli più sofisticati. Filosofi e giocatori potevano trarre il massimo piacere da macchine che agivano in modo del tutto casuale, creando eventi di cui era impossibile predire gli esiti anche avendo a disposizione tutte le informazioni possibili.

Poi restavano sempre, per tutti gli uomini, i mondi collegati dell’Amore e dell’Arte. Collegati, perché amore senz’arte è solo soddisfazione di un desiderio, e l’arte non può essere apprezzata senza il complemento dell’amore.

Gli uomini avevano cercato la bellezza in molte forme: in sequenze di suoni, in linee sulla carta, nelle superfici solide, nei movimenti del corpo umano, nei colori disposti nello spazio. Tutto questo esisteva ancora a Diaspar e altro era stato aggiunto nel corso dei secoli. E nessuno aveva la certezza che tutte le possibilità offerte dall’arte fossero state sfruttate, o che esistesse, nell’arte, qualche significato oltre quelli assegnati dalla mente dell’Uomo. E lo stesso valeva per l’amore.

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