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Jeserac sedeva immobile in mezzo a un turbine di numeri. Il primo migliaio di numeri primi, espressi nella scala binaria usata per tutte le operazione aritmetiche da quando erano stati inventati i computer elettronici, marciavano in ordine davanti a lui. Infiniti ranghi di 1 e di 0 sfilavano in parata di fronte agli occhi di Jeserac. I numeri primi possedevano un mistero che aveva sempre affascinato l’Uomo, e ancora ne sollecitavano l’immaginazione.

Jeserac non era un matematico, a volte però gli piaceva pensare di esserlo. Poteva fare soltanto delle ricerche nell’infinita serie di numeri primi e scoprire le relazioni e le regole che uomini più esperti incorporavano nelle leggi generali. Poteva scoprire come si comportavano i numeri, ma non sapeva spiegarsene il perché. Provava piacere nel procedere in mezzo alla giungla aritmetica, e a volte scopriva delle meraviglie che anche gli esploratori più esperti non avevano notato.

Impostò la matrice di tutti i possibili numeri interi e ordinò al computer di disporre lungo quella superficie i numeri primi, come perline da sistemare ai punti di intersezione di una rete. L’aveva già fatto centinaia di volte senza mai ricavarne niente di nuovo, ma lo affascinava il modo in cui i numeri presi in esame si sparpagliavano, apparentemente senza regole, lungo lo spettro dei numeri interi. La legge delle distribuzioni era già stata scoperta, ma lui sperava sempre di scoprire qualcosa di più.

Quando venne interrotto non poté prendersela con nessuno: se avesse voluto rimanere indisturbato avrebbe dovuto chiudere il circuito di chiamata. Appena il leggero suono gli giunse all’orecchio, tutta la parete di numeri scomparve, e Jeserac tornò nel mondo della realtà.

Riconobbe Khedron all’istante, e non fu entusiasta della visita. Jeserac ci teneva alla sua vita tranquilla e ordinata, e Khedron rappresentava l’imprevisto, la novità. Tuttavia fece buona accoglienza al visitatore e cancellò ogni traccia d’irritazione

Quando due persone di Diaspar si incontrano, per la prima volta o per la centesima, era uso, prima di entrare nel vivo della discussione, passare un’ora o poco meno nello scambio di cortesie.

Khedron invece non perse molto tempo in convenevoli, e venne bruscamente al sodo. «Sono venuto per parlare di Alvin» disse, sbrigativo. «Voi siete il tutore, vero?»

«Infatti» rispose Jeserac. «Lo vedo ancora parecchie volte la settimana, e tutte le volte che lui desidera.»

«È un allievo sveglio?»

Jeserac rimase un attimo soprappensiero. Era difficile rispondere a quella domanda. Le relazioni tra pupillo e tutore erano cosa di estrema importanza e, infatti, stavano alla base della vita di Diaspar. In media entravano in città diecimila nuove menti all’anno, i cui precedenti ricordi erano ancora latenti. Per i primi venti anni di vita tutto quanto li circondava sarebbe risultato nuovo e strano. Era necessario insegnare loro come usare la miriade di macchine e apparecchi indispensabili alla vita di ogni giorno, e come comportarsi nella società più complessa che l’Uomo avesse mai edificata.

Parte delle istruzioni venivano impartite dalla coppia scelta per fare da genitori al nuovo cittadino. L’assegnazione veniva fatta a sorte, e il compito dei genitori non era mai troppo gravoso. Eriston ed Etania non avevano dedicato che un terzo del loro tempo all’educazione di Alvin, e avevano fatto tutto il loro dovere.

I compiti di Jeserac riguardavano gli aspetti più formali dell’insegnamento. I genitori dovevano istruirlo su come comportarsi nella società e presentarlo a una cerchia sempre più vasta di amici. A loro era affidata la responsabilità del carattere di Alvin. Jeserac doveva occuparsi della mente.


«Non è facile rispondere alla vostra domanda. Alvin ha un’intelligenza più che normale, ma resta indifferente di fronte a molte cose che dovrebbero riguardarlo. Mostra al contrario una morbosa curiosità per alcuni argomenti che di solito non vengono discussi.»

«Per il mondo esterno a Diaspar, per esempio?»

«Sì… ma come lo sapete?»

Khedron esitò un attimo, chiedendosi fino a che punto poteva sbottonarsi con Jeserac. Il tutore era un’ottima persona, ma era legato dalle stesse inibizioni di cui soffrivano tutti a Diaspar. Tutti, meno Alvin.

«Intuizione» fece in tono evasivo.

Jeserac si accomodò meglio nella poltrona che aveva materializzato. La situazione era interessante, e il tutore desiderava analizzarla a fondo. Ma non avrebbe saputo molto da quel colloquio, a meno che Khedron non volesse collaborare.

Avrebbe dovuto immaginarselo che Alvin un giorno o l’altro avrebbe incontrato il Buffone. Le conseguenze di questo incontro erano imprevedibili. Khedron era l’unica persona in tutta la città che potesse venir definita eccentrica, anche se quell’eccentricità era stata predisposta dai progettisti di Diaspar. Molto tempo prima si era scoperto che senza crimini o disordini, l’Utopia sarebbe ben presto diventata terribilmente monotona. D’altra parte non era possibile garantire che il crimine restasse sempre entro limiti desiderabili per la sicurezza sociale, e se veniva controllato e approvato cessava di essere un crimine.

La carica di Buffone rappresentava la soluzione, a prima vista ingenua e tuttavia profondamente sottile, che i creatori della città avevano escogitato.

In tutta Diaspar non erano più di duecento i caratteri adatti a ricoprire questa carica tutta speciale. Costoro godevano di privilegi che li proteggevano dalle conseguenze delle loro azioni, benché a volte qualche Buffone avesse oltrepassato i limiti e fosse stato punito con l’unica pena che Diaspar poteva imporre: quella di essere esiliato nel futuro prima che l’incarnazione in corso fosse giunta al termine.

In rare e imprevedibili occasioni, il Buffone metteva improvvisamente sottosopra la città combinando uno scherzo che a volte risultava estremamente innocuo, ma che poteva rivelarsi addirittura un attacco deliberato alle opinioni o ai modi di vivere del momento. Il termine «Buffone» aveva radici nel lontanissimo passato; infatti un tempo, quando esistevano ancora i re e le corti, c’erano stati uomini con incombenze analoghe, e avevano goduto della stessa libertà di azione.


«Sarà bene» rispose Jeserac «parlarci con la massima sincerità. Entrambi sappiamo che Alvin è Unico, che non ha mai avuto altre vite precedenti.

Forse intuite meglio di me ciò che questo significa. Nulla di ciò che accade in città è realmente imprevisto, quindi immagino che la sua nascita abbia uno scopo. Se Alvin riuscirà a raggiungere questo scopo, qualunque esso sia, non lo so. Tanto meno so se ciò sia bene o sia male. Non riesco nemmeno a immaginare quale sia questo scopo.»

«Se riguardasse qualcosa all’esterno della città?»

Jeserac sorrise; il Buffone stava tentando uno dei suoi scherzi.

«Ho detto ad Alvin come stanno le cose. Sa benissimo che fuori di Diaspar non c’è che deserto. Portatelo là, se potete: forsevoiconoscete qualche uscita segreta. Quando Alvin vedrà la realtà, gli passeranno i capricci.»

«Deve averla già vista» mormorò Khedron. Jeserac non udì.

«Non credo che Alvin sia felice» continuò il tutore. «Non è attaccato a nulla, e sarà difficile che possa trovare interesse in qualcosa finché soffrirà di questa forma di ossessione. D’altra parte, è molto giovane. Può darsi che superi questa fase e finisca con l’acclimatarsi a Diaspar.»

Jeserac parlava più che altro per rassicurare se stesso; Khedron si chiese se fosse veramente convinto di ciò che stava dicendo.

«Ditemi, Jeserac» l’interruppe bruscamente «Alvin lo sa di non essere il primo Unico?»

Il tutore lo guardò storto.

«Dunque lo sapete. C’era da aspettarselo» mormorò. «Quanti Unici sono esistiti nella storia di Diaspar? Una decina?»

«Quattordici» fece Khedron senza esitare. «Senza contare Alvin.»

«Siete meglio informato di me» osservò l’altro seccamente. «Sapreste anche dirmi cosa è accaduto agli altri Unici?»

«Sono scomparsi.»

«Grazie, lo sapevo già. Ecco perché ho detto ad Alvin il meno possibile sui suoi predecessori; apprendere queste cose potrebbe turbarlo anche di più. Posso contare sulla vostra cooperazione?»

«Per il momento sì. Voglio studiare meglio Alvin. I misteri mi attirano, e a Diaspar non ce ne sono molti. E poi, ho il sospetto che il Destino stia preparando una burla a confronto della quale tutti i miei sforzi sarebbero ben miseri. Se è così, voglio essere presente nel momento in cui si compie.»

«Vi divertite a parlare per enigmi» protestò Jeserac. «Quali sono in realtà le vostre previsioni?»


«Le mie ipotesi valgono quanto le vostre. Ma di una cosa sono certo: né voi né io né chiunque altro a Diaspar potrà fermare Alvin quando avrà deciso ciò che vorrà fare. Scommetto che vivremo alcuni secoli alquanto interessanti.»

Jeserac rimase seduto, immobile, completamente dimentico della sua matematica, anche dopo la scomparsa del Buffone. Aveva uno strano presentimento, cosa che non gli era mai capitata. Per un attimo ebbe la tentazione di chiedere udienza al Consiglio, ma forse stava esagerando e avrebbe provocato molto rumore per nulla. Forse tutta la faccenda era solo una complicata e oscura macchinazione di Khedron, anche se lui non riusciva a comprendere quale ne fosse lo scopo.

Ripensò a ciò che si erano detti, esaminando il problema da ogni possibile punto di vista. E dopo un’ora circa prese una decisione che gli era caratteristica: avrebbe aspettato lo svolgersi degli avvenimenti.


Alvin, senza perdere tempo, s’informò sul conto di Khedron; e Jeserac fu come al solito la sua principale fonte di informazione. Il vecchio tutore gli diede un accurato resoconto del colloquio avuto col Buffone, e aggiunse quel poco che sapeva delle abitudini di Khedron. Per quanto era possibile in una città come Diaspar, Khedron conduceva una vita ritiratissima: nessuno sapeva dove abitasse il Buffone e come vivesse. L’ultimo scherzo di Khedron, quello di paralizzare totalmente le strade mobili, si era rivelato abbastanza puerile. Quello scherzo risaliva a cinquant’anni prima. Un secolo prima aveva scatenato un mostruoso drago che si era messo a vagare per la città divorando tutte le sculture esistenti di un artista molto noto in quel periodo. L’artista stesso, giustificabilmente allarmato per quella particolare dieta del mostro, era andato a nascondersi, e non era uscito dal suo nascondiglio fino al giorno in cui il mostro non era scomparso nello stesso misterioso modo in cui aveva fatto la sua apparizione.

Una cosa era certa: Khedron doveva avere una profonda conoscenza delle macchine e delle forze che governavano la città, e sapeva farsi ubbidire da esse più di chiunque altro. Naturalmente doveva esistere un controllo superiore che impediva a Buffoni troppo ambiziosi di combinare danni irreparabili alla complessa struttura di Diaspar.

Alvin prese nota di questi fatti, ma non tentò di mettersi in contatto con Khedron. C’erano parecchie domande che avrebbe voluto fare al Buffone, ma un caparbio senso di indipendenza, qualità, forse, della sua natura unica, lo spingeva a scoprire da solo quanto più poteva. Si era imbarcato in un progetto che lo avrebbe probabilmente occupato per anni, ma, fintanto che sentiva di avvicinarsi alla meta, era felice.

Come l’esploratore che studia le vecchie carte di una terra sconosciuta, Alvin aveva cominciato l’esplorazione sistematica di Diaspar. Passò intere settimane a visitare le torri solitarie ai margini della città, nella speranza di trovare la via che portava al mondo esterno. Nel corso di quelle ispezioni scoprì almeno una dozzina di aperture che guardavano sul deserto. Le aperture, però, erano tutte sbarrate, e del resto lo strapiombo di oltre un chilometro era un ostacolo più che sufficiente.

Non trovò uscite, per quanto avesse esplorato almeno mille corridoi e diecimila celle vuote. Tutte queste costruzioni erano in perfetto stato, fatto che gli abitanti di Diaspar consideravano come parte del normale ordine delle cose. Ogni tanto incontrava qualche robot intento al suo giro di guardia, e non mancava mai di interrogarlo. Ma non apprese niente: quelle macchine non erano state progettate per rispondere al linguaggio e ai pensieri umani. Si rendevano conto della sua presenza, e si spostavano cortesemente da una parte per lasciarlo passare, ma rifiutavano di iniziare una qualsiasi conversazione.

C’erano volte in cui Alvin non vedeva altri esseri umani per giorni interi.

Quando aveva fame entrava in uno dei compartimenti alimentari e ordinava il pasto. Lì c’erano macchine miracolose che si risvegliavano, forse, dopo secoli di inoperosità. I dati inseriti nella loro memoria meccanica, richiamati in efficienza dai comandi, davano il via a tutta una serie di operazioni, così che un pasto preparato da un cuoco cento milioni di anni prima poteva ancora essere portato all’esistenza per deliziare il palato o semplicemente per soddisfare l’appetito.

La solitudine di quel mondo deserto, quella conchiglia vuota che circondava il cuore vivo della città, non riuscì a deprimerlo. Era abituato a stare solo, anche quando si trovava in mezzo a coloro che chiamava amici.

Quella appassionante esplorazione assorbiva tutte le sue energie e i suoi interessi, e per il momento aveva dimenticato il mistero della sua eredità, l’anomalia che lo rendeva diverso dai suoi coetanei.

Aveva esplorato meno di un centesimo della cinta esterna di Diaspar quando si rese conto che stava sprecando il suo tempo. Non era l’impazienza a suggerirgli quella conclusione, ma il più elementare buon senso.

Ci fosse stata qualche speranza, sarebbe stato pronto a continuare le ricerche, anche se avesse dovuto spenderci tutto il resto della sua vita. Quel che aveva visto era sufficiente per fargli capire che, se anche esisteva un’uscita dalla città, trovarla doveva essere un’impresa pazzesca. Se non voleva correre il rischio di sprecare qualche secolo in ricerche infruttuose, doveva decidersi a chiedere consiglio ai più anziani.

Jeserac gli aveva già detto di non conoscere alcuna via d’uscita e di dubitare che ne esistesse qualcuna. Aveva interrogato le macchine informative.

Queste avevano frugato invano nella loro infinita memoria. Avevano saputo dirgli ogni particolare della storia della città, fino alle origini della storia ricordata; non erano però state in grado di rispondere alla semplice domanda di Alvin, o almeno qualche potenza superiore aveva proibito loro di rispondere.

Bisognava assolutamente parlare di nuovo con Khedron.

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