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«Sapevo che prima o poi mi avresti cercato» sorrise Khedron.

Il tono irritò Alvin; era seccante che qualcuno potesse predire il suo comportamento con tanta precisione. Si chiese se il Buffone avesse osservato tutte le sue vane perlustrazioni e conoscesse tutte le mosse che aveva fatto.

«Cerco una via per uscire dalla città» disse senza preamboli. «Cideveessere, e forse tu puoi aiutarmi a trovarla.»

Khedron restò un momento in silenzio. Faceva ancora in tempo, se lo desiderava, a voltare le spalle al cammino che gli si stendeva dinanzi e conduceva a un futuro che andava oltre tutte le sue possibilità di immaginazione. Nessun altro avrebbe esitato. Nessun altro uomo della città, se anche avesse potuto, avrebbe osato disturbare i fantasmi di un’epoca morta da milioni di secoli. Forse non c’era pericolo, forse niente avrebbe potuto alterare la perpetua immutabilità di Diaspar. Ma se c’era il rischio che qualcosa di strano e di nuovo avvenisse nel loro mondo, quella poteva essere l’ultima possibilità per scongiurare il pericolo.

Khedron era soddisfatto di come stavano le cose. Certo poteva sovvertire l’ordine di tanto in tanto, ma solo un poco. Era un critico, non un rivoluzionario. Mirava a creare qualche mulinello nella placida corrente del tempo, non a deviarne il corso. Lo spirito avventuroso era stato eliminato da lui come da qualsiasi altro cittadino di Diaspar. Tuttavia, il Buffone possedeva ancora una scintilla di quella curiosità che un tempo era stata la dote suprema dell’Uomo, ed era ancora preparato a correre un rischio.

Osservò Alvin, e cercò di ricordare la sua propria giovinezza. E tutti i sogni che aveva fatto cinquecento anni prima. Ogni e qualsiasi momento del suo passato era ancora perfettamente chiaro nella sua memoria. Quella vita, e tutte le altre precedenti, erano lì tutte allineate davanti ai suoi occhi, come palline infilate in una corda. Poteva riesaminarle a suo piacimento.

Le primissime vite gli sembravano ormai molto strane. Lo schema-base poteva essere identico, ma il peso delle esperienze lo separava da queste vite per sempre. Volendo, il giorno in cui fosse rientrato nella Sala della Creazione per dormire fino a quando la Città non lo avesse richiamato, avrebbe potuto cancellare dalla mente il ricordo di quelle primissime incarnazioni. Ma sarebbe stata una specie di morte, e lui non era ancora pronto per una cosa del genere. Voleva raccogliere tutto ciò che la vita poteva offrire; come un nautilus, voleva pazientemente aggiungere nuove celle alla spirale della conchiglia in lenta espansione.

In gioventù non era stato molto diverso dai suoi compagni. Soltanto quando aveva raggiunto l’età dei ricordi latenti gli era tornato alla mente il ruolo cui era stato destinato molto tempo prima. A volte provava risentimento verso l’intelligenza che aveva concepito Diaspar e che poteva ancora, dopo tutte le epoche trascorse, farlo muovere come una marionetta sul palcoscenico. Ora, forse, si presentava la possibilità di prendersi la vendetta. Era comparso un nuovo attore che poteva far calare per sempre il sipario su una commedia di cui erano già stati rappresentati troppi atti.

La simpatia di qualcuno che doveva sentirsi ancora più solo di lui, la noia prodotta da millenni di monotonia e ripetizioni, infine un maligno senso dell’umorismo spinsero Khedron all’azione.

«Forse posso aiutarti» disse ad Alvin «forse no. Non voglio darti speranze inutili. Ci troviamo tra mezz’ora nell’intersezione del Raggio 3 con il Cerchio 2. Se proprio non potrò far altro, ti prometto fin d’ora un viaggio molto interessante.»

Alvin arrivò all’appuntamento con dieci minuti di anticipo. Aspettò, impaziente, mentre la strada mobile, a pochi passi da lui, continuava la sua eterna corsa trasportando la popolazione placida e soddisfatta a Diaspar, intenta nelle sue inutili occupazioni. Finalmente scorse in lontananza l’alta figura di Khedron, e un attimo dopo si trovò per la prima volta alla presenza fisica del Buffone. Stavolta non era un’immagine proiettata; si strinsero la mano nell’antichissimo saluto.

Il Buffone sedette su una delle balaustre di marmo e fissò Alvin, con intensa curiosità.

«Chissà se ti rendi conto di quello che chiedi» disse. «Seiveramenteconvinto che oseresti lasciare la città, ammesso che tu riesca a trovare la maniera di uscire?»

«Certissimo» replicò Alvin spavaldo, ma Khedron colse in quel tono una sfumatura di incertezza.

«Allora lascia che ti dica qualcosa che forse non sai. Vedi quelle due torri?» Khedron indicò le due costruzioni gemelle del Consiglio e della Centrale Energia che si ergevano una di fronte all’altra, separate da uno strapiombo di cinquecento metri. «Supponi per un attimo di gettare un piano perfettamente stabile tra le due torri, un piano non più largo di due spanne.

Te la sentiresti di camminarci sopra?»

Alvin esitò.

«Non so» rispose. «Non vorrei neppure tentare.»

«Sono certo che non riusciresti a farlo. Ti verrebbe il capogiro e cadresti di sotto dopo pochi passi. Eppure, se lo stesso piano fosse sistemato poco al di sopra del livello dei suolo, ci cammineresti sopra con la massima disinvoltura.»

«E questo cosa prova?»

«Un fatto semplicissimo che sto cercando di stabilire. Nei due esperimenti che ti ho descritto, il piano sarebbe esattamente lo stesso. Uno di quei robot che a volte si incontrano sarebbe in grado di attraversarlo comunque.Noinon possiamo, perché abbiamo paura dell’altezza. Sarà anche un fatto illogico, ma è troppo importante per ignorarlo. Esiste dentro di noi, lo portiamo in noi fin dalla nascita. Allo stesso modo, abbiamo paura dello spazio. Mostra a qualsiasi individuo di Diaspar una via che conduca fuori città, una strada identica a questa che abbiamo davanti, e lui non se la sentirà di percorrerla. Non potrebbe fare a meno di voltarle le spalle, come tu volteresti le spalle inorridito trovandoti di fronte a un abisso di cinquecento metri.»

«Ma perché?» chiese Alvin. «Ci dev’essere stata un’epoca…»

«Lo so, lo so. Un tempo gli uomini non solo giravano per il mondo, ma avevano addirittura raggiunto le stelle. Qualcosa li ha cambiati e ha dato loro questo istinto che ora portano in sé. Tu credi di essere l’unico a non averlo. Vedremo. Ora ti porterò nella Torre del Consiglio.»

La Torre era una delle costruzioni più grandi della città ed era quasi completamente occupata dalle macchine che regolavano l’esistenza di Diaspar. Quasi in cima c’era la saia dove in rare occasioni il Consiglio si riuniva per discutere qualche questione importante.

L’ampio ingresso li inghiottì e Khedron avanzò nel silenzioso edificio.


Alvin non aveva mai visitato la Torre: nessun regolamento lo vietava, ma Alvin, come tutti, portava un rispetto quasi religioso per il luogo. In un mondo senza divinità, la Torre del Consiglio era la casa che più dava l’idea di un tempio.

Khedron condusse Alvin per corridoi e rampe che, evidentemente, erano state fatte per essere percorse a zigzag. Formavano angoli così acuti che sarebbe stato impossibile reggersi in piedi senza l’opportuno controllo del campo gravitazionale.

Infine giunsero a una porta chiusa che si spalancò silenziosamente davanti a loro per richiudersi subito alle loro spalle. Si trovarono ben presto davanti a un’altra porta. Khedron vi si fermò davanti, e restò immobile ad aspettare. Qualche secondo dopo, una voce chiese: «Come vi chiamate?».

«Sono Khedron, il Buffone. Il mio compagno è Alvin.»

«Perché volete entrare?»

«Semplice curiosità.»

Tra la meraviglia di Alvin, la porta si aprì immediatamente. Il giovane sapeva per esperienza che quando si dava alle macchine una risposta scherzosa si finiva sempre col generare confusione e bisognava ricominciare da capo. La macchina che aveva interrogato Khedron doveva essere molto complicata, molto in su nella gerarchia del Computer Centrale.

Non incontrarono altri ostacoli, ma Alvin sospettò che avessero superato diversi esami senza rendersene conto. Un breve corridoio immetteva in una vastissima sala circolare. Il pavimento della sala restava un poco più basso.

Per un attimo, Alvin restò paralizzato dalla sorpresa. Ai suoi piedi si stendeva tutta Diaspar in miniatura. Gli edifici più alti gli arrivavano circa alla spalla.

Il giovane rimase per un bel pezzo assorto in contemplazione, e solo quando riuscì a scuotersi dedicò un po’ d’attenzione al resto della stanza.

Le pareti erano coperte da uno schema in bianco e nero minutamente dettagliato. La decorazione era assolutamente irregolare, e muovendo in fretta gli occhi si aveva l’impressione che tutte le pareti si mettessero in movimento, senza mai cambiare disegno. Tutt’attorno, a intervalli regolari, c’erano macchine a tastiera, ciascuna munita di un monitor e di un sedile per l’operatore.

Khedron lasciò che Alvin osservasse bene ogni cosa, poi indicò la città in miniatura. «Sai cos’è quella?» chiese.

Alvin fu tentato di rispondere che si trattava di un modello, ma la risposta gli parve troppo semplice per essere esatta. Si limitò a scuotere il capo e guardò Khedron in attesa di spiegazioni.

«Ricorderai» fece il Buffone «che una volta ti dissi come veniva tenuta in vita la città, come le Banche Memoria ne mantengano lo schema cristallizzato per sempre. Le Banche sono qui attorno a noi, con la loro sterminata ricchezza di informazioni, e determinano la città come si presenta oggi.

Forze da noi dimenticate legano ogni atomo di Diaspar alle matrici racchiuse in queste pareti.»

Agitò la mano verso il simulacro perfetto e minuziosamente dettagliato che giaceva davanti a loro.

«Questo non è un modello; in realtà non esiste. Non è che l’immagine proiettata dello schema nelle Banche Memoria, ed ecco perché è assolutamente identico alla città stessa. Le macchine che vedi qui attorno sono in grado di presentare sui loro schermi l’ingrandimento di qualsiasi punto o particolare di Diaspar. Vengono usate quando si desidera portare qualche cambiamento allo schema, anche se da parecchio tempo non ne vengono più fatti. Se vuoi sapere esattamente com’è fatta Diaspar, puoi scoprire più cose trascorrendo qualche giorno in questa stanza che impiegando la vita a esplorare la città di persona.»

«È meraviglioso» disse Alvin. «Quante persone conoscono la sua esistenza?»

«Oh, parecchie, ma se ne ricordano di rado. Il Consiglio si riunisce in questa sala, di tanto in tanto. Se non sono tutti presenti non è possibile apportare modifiche alla città. E ogni modifica viene apportata soltanto se il Computer Centrale l’approva. Dubito che questa sala venga visitata più di due o tre volte all’anno.»

Alvin pensò di chiedere come mai Khedron avesse libero accesso alla sala, poi ricordò che per portare a termine gli scherzi più elaborati era necessaria una perfetta conoscenza della città, e una assoluta libertà di movimento; quindi, entrare in qualsiasi luogo doveva essere un privilegio dei Buffoni. Se voleva conoscere tutti i segreti di Diaspar, lui non avrebbe potuto scegliere guida migliore.

«Può darsi che quel che cerchi non esista, ma se c’è lo scoprirai più presto qui che altrove. Lascia che ti spieghi il funzionamento dei comandi.»

Nell’ora seguente Alvin sedette davanti a uno degli schermi, addestrandosi a usare tasti e manopole. Si poteva scegliere a piacere qualsiasi particolare della città ed esaminarlo a qualsiasi ingrandimento. Strade, torri, mura e strade mobili passavano sullo schermo seguendo i movimenti di Alvin sui comandi. Alvin si sentiva quasi uno spirito onnipresente, capace di muoversi senza sforzo per tutta la città senza che alcun impedimento materiale potesse trattenerlo o ostacolarlo.

In effetti, tuttavia, non stava esaminando Diaspar. Stava muovendosi attraverso le celle delle Banche Memoria, osservando l’immagine pura della città, quell’immagine che aveva avuto il potere di conservare la vera Diaspar immutata e inalterata dal tempo per milioni di anni. Poteva vedere soltanto la parte fissa della città, fissa e permanente. La gente che camminava per le strade non faceva parte dell’immagine registrata. Ma questo non aveva importanza. Il suo interesse era rivolto alla creazione di pietra e metallo che lo teneva rinchiuso, non alle persone che condividevano, anche se felici di farlo, la sua prigionia.

Riuscì a portare sul monitor la Torre di Loranne, e osservò rapidamente i corridoi e le stanze che aveva già visitato nella realtà. Appena inquadrò la griglia di pietra, gli parve quasi si sentire il vento gelido che vi soffiava incessantemente. Portò in primo piano la griglia, cercò di vedere al di là…

ma non vide nulla. Per un attimo la sorpresa fu così forte che quasi fu portato a dubitare della propria memoria: la sua visione del deserto non era stata altro che un sogno?

Poi comprese. Il deserto non faceva parte di Diaspar, quindi il fantomatico mondo che stava esplorando non ne conservava l’immagine. Qualsiasi cosà fosse esistita al di là della griglia di pietra non sarebbe mai apparsa sullo schermo.

Tuttavia, lo schermo poteva mostrargli qualcosa che nessun uomo vivente aveva mai visto. Alvin girò la manopola fino al limite massimo, poi fece scattare il convertitore in modo da poter esaminare il cammino percorso dalla direzione opposta. Ed ecco che sullo schermo tornò di nuovo la griglia di pietra, vista dall’esterno.

Per i computer, i circuiti-memoria e tutti gli altri innumerevoli meccanismi che creavano l’immagine che Alvin stava contemplando, non si trattava che di un semplice problema di prospettiva. Le macchine «conoscevano» la forma della città, ragione per cui potevano mostrarla anche vista dall’esterno. Alvin, però, che pure si rendeva conto benissimo di come veniva prodotto quell’effetto, restò quasi sopraffatto dalla scoperta. In spirito, se non materialmente, era riuscito a evadere dalla città. Gli pareva di fluttuare nello spazio, a poche spanne di distanza dalla liscia parete della Torre di Loranne. Restò per un attimo a fissare la superficie levigata, poi manovrò la manopola e fece scorrere l’immagine dall’alto al basso.

Ora che conosceva le possibilità di quel meraviglioso apparecchio, il suo piano di azione si concretò. Era inutile sprecare tempo a esplorare Diaspar dall’interno, stanza per stanza, corridoio per corridoio. Poteva invece sfruttare il vantaggio di far scorrere sullo schermo tutta la parete esterna della città, in modo da essere in grado di scorgere immediatamente qualsiasi apertura che conducesse verso il deserto.

Provò un senso di eccitazione, di vittoria, e sentì l’impulso di comunicare a qualcuno la sua gioia. Si voltò verso Khedron per ringraziarlo di ciò che gli aveva insegnato. Ma Khedron era scomparso, ed era facile capire il motivo di quella fuga.

Alvin era forse l’unico uomo che in tutta Diaspar poteva fissare tranquillamente le immagini che apparivano ora sullo schermo. Khedron poteva aiutarlo nelle ricerche, ma anche lui era schiavo del misterioso terrore dell’universo che da così lungo tempo comprimeva l’umanità entro i confini limitati di Diaspar. Aveva lasciato che Alvin continuasse da solo le sue indagini.

Alvin si sentì immediatamente riafferrare dal senso di solitudine che lo opprimeva continuamente. Ma non c’era tempo per le malinconie, aveva troppo da fare. Riportò l’attenzione sul monitor, e fece scorrere lentamente l’immagine della parete della città e cominciò le sue ricerche.


Diaspar nelle settimane seguenti quasi non vide Alvin, anche se poche persone notarono la sua assenza. Quando scoprì che il suo pupillo stava passando tutto il tempo nella Sala del Consiglio, e che aveva smesso di girare lungo i corridoi della città, Jeserac provò un senso di sollievo. In quel luogo Alvin non avrebbe potuto cacciarsi nei guai. Eriston ed Etania lo chiamarono una o due volte a casa, ma non si preoccuparono nel non trovarlo. Alystra fu alquanto più insistente.

Per la sua tranquillità era un vero peccato che si fosse infatuata di Alvin, mentre c’erano tante altre possibilità di scelta. Alystra non aveva mai avuto difficoltà nel trovare compagni, ma a paragone di Alvin tutti gli altri uomini le sembravano nullità, usciti da un identico anonimo stampo, e lei non avrebbe ceduto le armi senza combattere. La scontrosità e l’indifferenza di Alvin erano una sfida alla quale lei non sapeva resistere.

Tuttavia, i suoi motivi non erano del tutto egoistici, ed erano materni piuttosto che sessuali. Per quanto la nascita fosse un evento dimenticato, l’istinto femminile di protezione e affetto restava. Alvin poteva sembrare cocciuto, deciso e pieno di fiducia, ma Alystra riusciva a sentirne l’intima solitudine che lo tormentava.


Quando scoprì che Alvin era scomparso, domandò subito a Jeserac cos’era successo. E Jeserac, dopo un attimo di esitazione, le disse la verità.

Se Alvin non voleva compagnia, la risposta doveva esserle chiara. Il tutore non approvava né disapprovava la relazione. Tutto sommato, Alystra gli piaceva, e lui nutriva la speranza che la ragazza riuscisse a convincere Alvin a conformarsi alla vita della città.

Il fatto che Alvin stesse trascorrendo tutto il suo tempo nella Torre del Consiglio poteva soltanto significare che stava facendo delle ricerche, e questo riuscì a placare le gelosie di Alystra. Ma se i sospetti si erano spenti, la curiosità era aumentata. A volte si rimproverava per aver abbandonato Alvin nella Torre di Loranne, anche sapendo benissimo che se le circostanze si fossero ripetute lei avrebbe fatto esattamente la stessa cosa. Non c’era modo di capire ciò che Alvin stava pensando, si disse, a meno di non scoprire cosa stesse cercando di fare.

Avanzò decisa nel grande atrio, e rimase impressionata, non intimorita, dal grande silenzio che l’aveva avvolta non appena varcata la soglia. Le macchine d’informazione erano allineate lungo la parete opposta, e lei ne scelse una, a caso.

Aspettò che si accendesse il segnale, poi disse: «Sto cercando Alvin. È

in questo edificio. Dove lo posso trovare?».

Anche dopo tutta una vita è impossibile abituarsi alla rapidità con cui una macchina risponde a una domanda normale. Ci sono persone che sanno, o dicono di sapere, come tutto questo avviene, e parlano di «tempo di accesso» e di «spazio d’immagazzinamento», ma la sorpresa data dalla sorprendente rapidità rimane. Una qualsiasi domanda, tra tutte quelle che potevano essere fatte nella città, riceveva normalmente una risposta immediata. Soltanto se venivano richiesti calcoli complessi si doveva aspettare la risposta per una leggera frazione di tempo.

«È con i Monitor» disse la macchina. Non fu di grande aiuto, dato che quel nome non le diceva niente. Nessuna macchina poi dava altre informazioni oltre quella richiesta. Formulare domande alle macchine era un’arte che a volte richiedeva un lungo studio.

«Come lo posso raggiungere?» domandò Alystra. Cos’erano i Monitor lo avrebbe scoperto dopo aver trovato Alvin.

«Non posso dirvelo, a meno che non abbiate il permesso del Consiglio.»

Quello era lo sviluppo più inaspettato e sconcertante. C’erano pochi luoghi in tutta Diaspar ai quali non si potesse accedere liberamente. Inoltre Alystra era certissima che Alvinnonaveva ottenuto il permesso del Consiglio. E questo poteva significare soltanto che veniva aiutato da un’autorità posta ancora più in alto.

Il Consiglio governava Diaspar, ma il Consiglio stesso era sottomesso a una forza superiore: all’intelligenza infinita del Computer Centrale. Era difficile considerarlo un’entità vivente, localizzata in un punto, perché era la somma globale di tutte le macchine esistenti nella città. Anche se non era vivo in senso biologico, possedeva almeno tanta intelligenza e sensibilità quanto un essere umano. Doveva sapere ciò che Alvin stava facendo, e, di conseguenza, doveva avergli dato la sua approvazione. In caso contrario, lo avrebbe fermato, o demandato al Consiglio, come la Macchina delle Informazioni aveva fatto con Alystra.

Non c’era ragione di restare. Alystra sapeva che un qualsiasi tentativo per trovare Alvin, anche sapendo con esattezza dov’era la sala dei Monitor, si sarebbe risolto in un fallimento. Le porte non si sarebbero aperte, i corridoi si sarebbero mossi in senso inverso non appena lei avesse tentato di imboccarli, portandola indietro anziché avanti, e i campi elevatori si sarebbero misteriosamente rifiutati di sollevarla da un piano all’altro. Se poi avesse insistito, sarebbe comparso un robot che l’avrebbe gentilmente riaccompagnata in strada, o fatta girare per tutti i corridoi dell’edificio finché non si fosse stancata.

Era di cattivo umore quando uscì dal palazzo. Ed era anche alquanto perplessa. Per la prima volta si rendeva conto che doveva esserci un grosso mistero. Al confronto, tutti i suoi desideri e interessi personali diventavano meschini. Ma non per questo perdevano, per lei, la loro importanza. Non sapeva cosa fare, ma era certa di una cosa. Alvin non era la sola persona cocciuta e ostinata a Diaspar.

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