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Alvin girò la manopola e vuotò i circuiti. Per un attimo rimase seduto immobile, gli occhi fissi allo schermo che aveva tenuto occupata la sua mente per tante settimane. Aveva circumnavigato il suo mondo; attraverso lo schermo era passato ogni centimetro quadrato dalla parete esterna di Diaspar. Conosceva la città meglio di ogni altro essere umano, salvo forse Khedron, e adesso sapeva che attraverso quella muraglia non esisteva via d’uscita.

Non era del tutto scoraggiato, però. Sapeva fin dall’inizio che le cose non sarebbero state facili, e che non avrebbe certo trovato quel che cercava al primo tentativo. L’aver esaminato una possibilità rappresentava già qualcosa. Ora poteva passare a occuparsi delle altre.

Si alzò, e si avvicinò all’immagine della città che riempiva quasi tutta la stanza. Era difficile pensare che non fosse un modello plastico, anche sapendo che si trattava di una proiezione ottica di tutto ciò che era conservato nelle celle-memoria da lui esplorate. Quando spostava i comandi del monitor e vagava con le inquadrature per le strade di Diaspar, un punto luminoso si muoveva sulla replica indicando la zona che appariva sullo schermo. Era stata una guida utile durante i primi giorni, poi lui era diventato tanto abile nel disporre le coordinate che non aveva più avuto bisogno del piccolo aiuto. Diaspar si stendeva ai suoi piedi, poteva guardarla dall’alto come un dio; ma lui la vedeva appena, tanto era immerso nelle sue riflessioni.

Se ogni altro tentativo falliva, a lui sarebbe rimasta un’unica soluzione.

Diaspar poteva esser tenuta in perpetua stasi dai circuiti di eternità, fissi sugli schemi stabiliti nelle celle di memoria. Ma questi schemi potevano venire cambiati, e la città sarebbe cambiata di conseguenza.

Sarebbe bastato ridisegnare un tratto di parete esterna in modo da inserirvi una porta, registrare la correzione nelle Banche Memoria e lasciare che la città assumesse una nuova caratteristica.

Alvin ebbe il sospetto che i comandi del pannello che Khedron non gli aveva illustrati riguardassero proprio le alterazioni. Inutile tentare esperimenti. Senza dubbio i comandi che potevano cambiare la struttura della città dovevano essere sigillati e potevano essere azionati solo dall’autorità del Consiglio con l’approvazione del Computer Centrale. Era assurdo sperare che il Consiglio accettasse la sua proposta, anche mettendo in bilancio decadi e forse secoli di paziente attesa. No, meglio scartare addirittura l’idea.

Quasi involontariamente guardò verso l’alto. A volte aveva sognato, fantasticherie che quasi si vergognava di ricordare, di aver riconquistato la signoria dell’aria cui l’uomo aveva da tanto tempo rinunciato. Un tempo le navi spaziali avevano solcato i cieli, tornando cariche di tesori ormai dimenticati al leggendario Porto di Diaspar. Ma il Porto sorgeva oltre i limiti della città, e da tempi immemorabili era stato seppellito dalle sabbie. Alvin ogni tanto sognava che una di quelle macchine volanti si trovasse nascosta in qualche punto di Diaspar, ma non osava sperarlo. Anche nei giorni in cui i piccoli apparecchi personali erano una cosa comune, probabilmente non era permesso usarli entro i limiti della città.


Per un attimo si perse nel suo vecchio sogno. Immaginò di essere il padrone del cielo, e che la Terra si stendesse sotto di lui, invitandolo ad andare dove avesse voluto. Non era il mondo dei suoi tempi quello che vedeva, ma il mondo perduto del passato, con un lussureggiante panorama cosparso di colline, di laghi e di foreste.

Provò invidia, e collera, per i suoi sconosciuti antenati, che avevano volato in piena libertà su tutta la Terra e che avevano lasciato morire tutte le sue bellezze.

Ma le fantasticherie erano inutili; ritornò al presente e al suo problema.

Se la via del cielo era sconosciuta, quella della terra preclusa, cosa restava?

Si trovava di nuovo al punto in cui non poteva fare alcun progresso basandosi solo sulle sue forze e aveva bisogno di aiuto. Gli seccava ammettere quel fatto, ma era abbastanza onesto da non negarlo. Come era inevitabile, i suoi pensieri andarono subito al Buffone.

Alvin non riusciva a stabilire se il Buffone gli fosse simpatico o no. Era contentissimo di averlo conosciuto, ed era grato a Khedron per l’aiuto e la simpatia che gli aveva dimostrato. Con nessun altro, in tutta Diaspar, sentiva d’avere tante cose in comune, eppure c’era un nonsoché nella personalità dell’amico che lo lasciava sconcertato. Forse l’aria di ironico distacco di Khedron gli aveva dato a volte l’impressione che l’altro se la ridesse dei suoi sforzi anche nei momenti in cui faceva del suo meglio per aiutarlo.

Per questo Alvin, già indipendente e testardo per natura, si rivolgeva al Buffone solo quando si vedeva alle strette.

Combinarono di incontrarsi in un piccolo cortile rotondo, poco distante dalla Torre del Consiglio. C’erano parecchi luoghi tranquilli nella città, magari a pochi metri dal traffico caotico e tuttavia completamente isolati e quieti. Di solito ci si poteva arrivare soltanto a piedi, dopo un breve cammino; altri invece si trovavano al centro di complicati labirinti che ne aumentavano l’isolamento. Era tipico di Khedron scegliere un posto simile per un appuntamento.

Il cortile era largo una cinquantina di passi e si trovava al centro di un immenso edificio. Tuttavia, essendo le pareti rivestite di un materiale fosforescente che brillava di luce verde-azzurra, sembrava non avere limiti definiti. Ma ciò nonostante non si aveva la sensazione di essere persi nello spazio infinito. Balaustre alte un metro, con diverse aperture di passaggio, davano l’impressione di trovarsi in un recinto di sicurezza.

Khedron stava esaminando una delle balaustre quando Alvin arrivò. Era coperta da un complicato mosaico di piastrelle colorate, tanto fantasticamente elaborato che Alvin non tentò neppure di comprenderlo.

«Guarda questo mosaico, Alvin» disse il Buffone, indicando l’intricato disegno di piastrelle colorate. «Non noti niente di strano?»

«No» confessò Alvin dopo un breve esame. «Non mi piace, però mi sembra normalissimo.»

Khedron fece scorrere le dita sulle piastrelle. «Non sei un buon osservatore» commentò. «Tocca questi orli, senti come sono smussati, rotondi. È

raro vedere una cosa del genere a Diaspar, Alvin. Il mosaico è corroso dal tempo. Ricordo benissimo quando fu fatto questo disegno, circa ottomila anni fa, durante la mia precedente esistenza. Se tornerò qui tra una decina di vite, queste piastrelle saranno completamente scomparse.»

«Non vedo niente di strano in questo. Ci sono altre opere d’arte in città non abbastanza buone da essere conservate nei circuiti di memoria, né tanto brutte da venire distrutte immediatamente. Un giorno, un altro artista si occuperà di decorare questo muro, e forse il suo lavoro verrà eternato.»

«Conoscevo l’uomo che ha disegnato questa decorazione» disse Khedron, continuando a esplorare con le dita le screpolature che si erano aperte nel mosaico. «Strano che ricordi ancora il fatto, mentre non mi riesce di ricordare la persona. Forse non mi piaceva, così devo averla cancellata dalla mente.» Fece una breve risata. «Forse sono stato io a disegnarlo, durante una delle mie fasi artistiche. E devo essermi tanto seccato quando la città si è rifiutata di renderlo eterno che ho deciso di dimenticare la mia opera. Ecco… Sapevo che qualcosa si sarebbe staccata!»

Khedron, che era riuscito a togliere una piastrella colorata, pareva soddisfattissimo. Gettò il frammento a terra e soggiunse: «Ora i robot della manutenzione dovranno occuparsene!».

Alvin comprese che l’altro stava tentando di dargli una lezione. Lo capì per quello strano istinto definito intuizione, quell’istinto che sembrava seguire scorciatoie non accessibili alla logica. Guardò il quadratino colorato, cercando di collegarlo in qualche modo al problema che lo assillava. Non gli fu difficile trovare la risposta, una volta stabilito che doveva esserci.

«Ci sono, Khedron!» esclamò. «Volevi farmi capire che alcune cose di Diaspar non vengono conservate nelle Banche Memoria e quindi non potrei mai localizzarle sugli schermi della Sala del Consiglio. Se cercassi questa balaustra, ad esempio, non la troverei.»

«Troveresti la balaustra, forse, ma non certo il mosaico.»

«Sì, capisco» disse Alvin, troppo impaziente per badare a simili sottigliezze. «Allo stesso modo, possono esistere parti della città che non sono mai state inserite nei circuiti d’eternità, ma neppure distrutte dal tempo. Però non vedo come questo possa servirmi. Le mura esterne esistono, e sicuramente non hanno aperture.»

«Può darsi che non esista via d’uscita» replicò il Buffone. «Non posso prometterti nulla. Ma sono certo che gli schermi potranno insegnarci molte altre cose, se il Computer Centrale lo permetterà… E pare che per te abbia una speciale simpatia.»

Alvin rimuginò sull’idea mentre si avviavano alla Torre del Consiglio.

Finora, gli era parso che fosse un effetto della autorità di Khedron se si era potuto avvicinare agli schermi. Non l’aveva neppure sfiorato il sospetto che quell’autorità risiedesse proprio in lui. Essere un Unico presentava parecchi svantaggi; era giusto che esistesse anche qualche compenso…

L’immagine della città dominava come sempre la stanza in cui Alvin aveva trascorso tante ore. Il giovane la guardò con un atteggiamento diverso; tutto ciò che si vedeva esisteva di certo, ma non tutta Diaspar era lì riflessa. Tuttavia, le cose mancanti dovevano essere di poco conto, trascurabili.

«Molto tempo fa feci un tentativo» mormorò Khedron, prendendo posto davanti a un teleschermo «ma i comandi non vollero obbedirmi. Forse ora mi obbediranno.»

Dapprima incerte, poi con crescente sicurezza, le dita del Buffone manovrarono i tasti di comando. Poi fermò le mani sul pannello che nascondeva le griglie sensibili.

«Penso di non aver sbagliato» disse alla fine. «A ogni modo vedremo subito.»

Lo schermo si accese, ma anziché l’immagine che Alvin si aspettava comparve la scritta di un messaggio alquanto sconcertante.

«La regressione comincerà non appena avrete stabilito la velocità di indagine.»

«Che stupido» borbottò Khedron. «Ho fatto tutto e mi sono dimenticato la cosa più importante.» Le dita del Buffone ripresero a muoversi con sicurezza sul pannello, e non appena la scritta scomparve, lui girò la sedia per osservare l’immagine della città.

«Attento, Alvin! Stiamo per imparare qualcosa di nuovo su Diaspar.»

Alvin aspettò paziente, ma non accadde nulla. L’immagine della città si stendeva davanti ai suoi occhi con tutte le bellezze e le cose sorprendenti che gli erano familiari, anche se in quel momento non le notava. Stava già per chiedere a Khedron cosa mai doveva avvenire, quando un movimento subitaneo colse la sua attenzione. Volse rapido la testa, ma troppo tardi.

Niente era cambiato. Diaspar era là, assolutamente identica. Khedron, però, lo stava osservando con espressione ironica. Riportò lo sguardo sulla città e questa volta la cosa si ripeté sotto i suoi occhi.

Uno degli edifici al limite del Parco svanì all’improvviso, e al suo posto ne comparve un altro totalmente diverso. La trasformazione fu improvvisa, tanto che un battito di ciglia sarebbe stato sufficiente a non fargliela notare.

Fissò sbalordito la città trasformata, ma nonostante lo stupore, la sua mente cercava la risposta al fenomeno. Poi ricordò le parole che aveva letto sullo schermo. «La regressione comincerà…» e subito si rese conto di quanto stava accadendo.

«Questa è la metropoli come era mille anni fa» disse a Khedron. «Stiamo andando indietro nel tempo.»

«Una definizione pittoresca ma non del tutto precisa» disse il Buffone.

«In realtà il monitor sta ricordando le versioni precedenti della città.

Quando viene apportata una modifica, i circuiti-memoria vengono scaricati e l’informazione contenuta in essi viene raccolta da unità di memoria sussidiarie, in modo da poter essere ritrovata qualora ce ne sia bisogno. Ho regolato il monitor in modo che indaghi attraverso queste unità alla velocità di mille anni al secondo. Stiamo già osservando la Diaspar di mezzo milione di anni fa. Per vedere qualche cambiamento sostanziale, dobbiamo andare molto più indietro… Aumenterò la velocità.»

Si voltò al quadro di comando, e in quel momento un intero isolato di case, non un semplice edificio, scomparve per far posto a un ampio anfiteatro ovale.

«Ah! l’Arena!» fece Khedron. «Ricordo ancora il baccano che è stato fatto quando abbiamo deciso di eliminarla. Non veniva mai usata però molti nutrivano per lei un affetto sentimentale.»

Il monitor prese a riesaminare le sue memorie a velocità massima; l’immagine di Diaspar continuava a recedere nel passato a milioni di anni al minuto, e i cambiamenti si succedevano così rapidi che l’occhio non riusciva a seguirli. Alvin notò che quei cambiamenti si verificavano ciclicamente; a lunghi periodi di stasi seguivano periodi di larga ricostruzione, poi altre pause e così via. Era come se Diaspar fosse un organismo vivente, che dovesse recuperare le forze tra una fase e l’altra del suo sviluppo.

Nonostante tutti i cambiamenti, il disegno base della città non mutava.

Edifici apparivano e scomparivano, ma il tracciato delle strade sembrava eterno, e il Parco continuava a restare il verde cuore di Diaspar. Alvin cercò di immaginare fino a che periodo potesse retrocedere il monitor. Poteva arrivare fino ai giorni in cui avevano fondato la città e superare quel velo che separava la storia vera e conosciuta dai miti e dalle leggende delle origini?

Erano già retrocessi di cinquecento milioni di anni. Fuori dalle mura di Diaspar, oltre ciò che conoscevano i monitor, doveva esserci una Terra differente. Forse c’erano oceani e foreste, e forse anche altre città, quelle che l’uomo non aveva ancora abbandonato prima di ritirarsi in una città unica.

I minuti passavano, e ogni minuto, nel piccolo universo dei monitor, erano eoni. Presto avrebbero raggiunto le primissime memorie conservate nelle macchine, pensò Alvin, e la regressione sarebbe finita. Ma, per quanto affascinante fosse quella lezione, non riusciva a comprendere di che utilità gli sarebbe stata per evadere dalla città.

Con un’improvvisa e silenziosa implosione Diaspar divenne una frazione di quella attuale. Il Parco svanì. La muraglia che collegava le torri titaniche evaporò in un istante. La città era aperta, dato che le strade radiali si spingevano, senza incontrare barriere, fino ai limiti di immagine del monitor.

Quella era la Diaspar dei giorni in cui l’umanità non era ancora cambiata.

«Impossibile andare oltre» disse Khedron a un tratto, indicando lo schermo del monitor. Sul pannello era apparsa la scritta: «Termine della regressione». «Dev’essere la versione più antica della città conservata dalle celle-memoria. Prima di allora è probabile che non fossero usati i circuiti di eternità; gli edifici si logoravano e invecchiavano secondo leggi naturali.»

Alvin restò a lungo a fissare il modello della città antica, prima della grande trasformazione della storia del genere umano. Pensava al traffico che si era svolto su quelle strade che si spingevano oltre i limiti della città, quando gli uomini erano liberi di spostarsi da un capo all’altro del mondo…

e addirittura su altri mondi. Quegli uomini erano suoi antenati; sentì d’essere molto più affine a loro che ai suoi contemporanei. Desiderò di vederli, di conoscere i loro pensieri mentre si muovevano per le strade della Diaspar di un miliardo di anni prima. Eppure quei pensieri non dovevano essere stati sereni, poiché l’umanità era vissuta allora sotto la minaccia degli Invasori. In pochi secoli, quegli uomini avevano dovuto chinare lo sguardo a terra e costruire una parete che nascondesse loro il resto dell’universo.

Khedron azionò il monitor avanti e indietro una dozzina di volte, lungo il breve periodo di storia in cui si era verificata la trasformazione. Il passaggio della piccola città aperta alla metropoli chiusa era avvenuto in mille anni all’incirca. Durante quel tempo dovevano essere state disegnate e costruite le macchine che avevano servito Diaspar così fedelmente, e pure in quel tempo erano state registrate su circuiti-memoria le cognizioni che le avrebbero messe in grado di esplicare il loro compito. In quei circuiti, inoltre, erano entrati anche gli schemi essenziali degli uomini viventi a quell’epoca, così che, ogni volta che l’impulso vitale li avesse richiamati, avrebbero potuto essere rivestiti di materia e sarebbero usciti rinati dalla Sala della Creazione. Alvin era certo di essere già esistito in quel mondo remoto. Forse, addirittura, la sua personalità era stata costruita con attrezzi di inconcepibile complessità da un artista-tecnico che aveva un suo scopo particolare. Tuttavia gli sembrava molto più probabile che lui fosse semplicemente la fusione di parecchi uomini che avevano camminato sulla Terra tanto tempo prima.

Nella nuova Diaspar restava ben poco della vecchia città; quasi l’intera area antica era stata assorbita dal Parco. Ma anche prima della trasformazione, nel centro di Diaspar c’era una spianata erbosa, dalla quale si dipartivano radialmente tutte le strade. In quel periodo era stata costruita la Tomba di Yarlan Zey; aveva preso il posto di una grossa costruzione circolare che un tempo sorgeva al punto d’incontro di tutte le strade. Alvin, che non aveva mai creduto alle leggende che parlavano dell’antichità della Tomba, era adesso costretto a ricredersi.

«Scommetto» disse, colpito da un’intuizione improvvisa «che è possibile esplorare la vecchia Diaspar così come si fa con la moderna.»

Le dita di Khedron azionarono subito il monitor e lo schermo rispose alla proposta di Alvin. La città d’un tempo cominciò a sfilare sotto i loro occhi. L’immagine della vecchia Diaspar era nitida e precisa quanto quella della città attuale. Per mille milioni di anni i circuiti di informazione l’avevano conservata, in attesa di qualcuno che volesse vedere com’era fatta.

Quello che stava osservando non era un puro e semplice ricordo, pensò Alvin. Era il ricordo di un ricordo…

Non riusciva ancora a capire se tutto ciò poteva essergli di aiuto, o se avrebbe trovato una soluzione alle sue ricerche. Ma non aveva importanza.

Era affascinante guardare nel passato, e vedere un mondo che era esistito nei giorni in cui gli uomini vagavano ancora in mezzo alle stelle.

Indicò il basso edificio circolare che sorgeva nel cuore della città.

«Cominciamo da quello» disse a Khedron. «Dobbiamo pur partire da un punto, no?»

Forse fu una combinazione fortunata, forse una rimembranza vaga del subcosciente, o forse effetto di logica elementare. La cosa non aveva importanza, poiché prima o poi sarebbero arrivati a quel punto, proprio dove convergevano tutte le strade radiali della città.

Alvin impiegò dieci minuti per capire che le strade non s’incontravano là per ragioni di semplice simmetria… Dieci minuti per scoprire che la sua lunga ricerca era stata compensata.

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