20

Il pianeta al quale erano diretti distava solo pochi milioni di chilometri, una bellissima sfera di luci multicolori. Non poteva esserci oscurità in nessun punto della superficie, perché ruotando attorno al Sole Centrale riceveva la luce delle altre stelle sparse in cerchio nel cielo. In quel momento Alvin comprese le parole che il Maestro aveva pronunciato in punto di morte. «È bello guardare le ombre colorate dei pianeti di luce eterna.»

Ben presto poterono distinguerne i continenti e gli oceani. C’era qualcosa di strano, però. Le linee di demarcazione tra la terra e le acque erano troppo regolari. I continenti del pianeta non sembravano avere una disposizione data dalla Natura… ma disporre i continenti doveva essere stato un compito facilissimo per chi aveva costruito quei soli.

«Ma quelli non sono oceani!» esclamò a un tratto Hilvar. «Guarda! Non vedi delle linee?»

Quando furono più vicini al pianeta, Alvin capì che l’amico aveva ragione. C’erano infatti delle linee anche nelle zone che gli erano sembrate occupate dall’acqua. Gli venne un dubbio improvviso, perché conosceva il significato di quelle screpolature. Le aveva già viste nel deserto oltre Diaspar. Il lungo viaggio, dunque, era stato inutile.

«Questo pianeta è arido come la Terra» disse in tono cupo. «Quelle linee sono letti di sale, dove l’acqua dei mari è evaporata.»

«Non avrebbero dovuto permettere che succedesse» disse Hilvar. «Temo che siamo arrivati troppo tardi.»

La delusione di Hilvar era così amara che Alvin non osò aggiungere altro, ma rimase in silenzio a fissare lo schermo. Con impressionante lentezza la superficie del pianeta pareva venir loro incontro. Ora si vedevano degli edifici, piccole incrostazioni bianche sparse dovunque, tranne che nei letti degli oceani.

Una volta quel mondo era stato il centro dell’Universo. Adesso era morto, l’aria era deserta, e sulla sua superficie non si vedevano quelle macchie in movimento che parlano di vita. Tuttavia lo scafo continuava a scivolare deciso sopra il mare di pietra… un mare che qua e là formava grandi onde che sfidavano il cielo.

Tutt’a un tratto la nave si arrestò, come se il robot avesse raggiunto il punto di origine dei suoi ricordi. Sotto di loro una colonna di pietra bianchissima si ergeva nel mezzo di un immenso anfiteatro di marmo. Alvin aspettò un poco, poi, visto che l’astronave non accennava a muoversi, ordinò di atterrare ai piedi della colonna.

Fino a quel momento, nonostante tutto, aveva sperato di trovare la vita sul pianeta. La speranza svanì non appena ebbe aperto il compartimento stagno. Mai, nemmeno a Shalmirane, si era trovato immerso in un silenzio così impressionante. Sulla Terra c’era sempre un suono di voci, il movimento delle creature, o il mormorio del vento. Lì, tutto questo mancava, e non ci sarebbe mai più stato niente di vivo.

«Perché ci hai portati qui?» domandò Alvin. Non gli importava molto la risposta, ma lo spirito della ricerca continuava a spronarlo, anche se aveva perso le speranze.

«Il Maestro è partito da qui» disse il robot.

«Immaginavo che ci avrebbe dato questa risposta» disse Hilvar. «Hai osservato l’ironia? Il Maestro è stato scacciato da questo mondo… e guarda il monumento che gli hanno costruito!»

La grande colonna di pietra era alta almeno quanto cento uomini, e poggiava su un cerchio di metallo che sporgeva leggermente dal livello della pianura. Non c’erano decorazioni, né iscrizioni. Per quante migliaia o milioni di anni, si domandò Alvin, i discepoli del Maestro si erano raccolti in quel luogo a rendergli onore? E avevano mai saputo che era morto in esilio sulla Terra lontana?

Comunque, ora non aveva più importanza. Maestro e discepoli erano tutti sepolti nell’oblio.

«Usciamo all’aperto» propose Hilvar, cercando di scuotere Alvin dalla depressione in cui era caduto. «Abbiamo attraversato mezzo universo per vedere questo posto. Puoi fare anche lo sforzo di muovere due passi.»

Alvin riuscì a sorridere e seguì Hilvar. Fuori, si rianimò un poco. Anche se quel mondo era morto, poteva contenere qualche traccia interessante che lo aiutasse a risolvere il mistero del passato.

L’aria era stagnante, ma respirabile. Nonostante tutti i soli su nel cielo la temperatura era bassa. Solo il disco bianco del Sole Centrale emanava un certo calore; gli altri mandavano soltanto luce.

Impiegarono pochi minuti per accertarsi che l’obelisco non poteva dare loro nessuna indicazione. Il materiale con cui era costruito mostrava i segni del tempo, e il metallo su cui poggiava era stato consumato dai passi di generazioni di discepoli e pellegrini. Era strano pensare che dopo chissà quanti miliardi di esseri umani, loro potevano essere gli ultimi due visitatori del luogo. Hilvar stava per proporre di tornare alla nave e volare fino all’agglomerato di edifici più vicini, quando Alvin notò una crepa stretta e lunga nel pavimento di marmo dell’anfiteatro. La seguirono per un bel tratto; la spaccatura si faceva sempre più larga, finché li condusse a un enorme avvallamento del terreno lungo un paio di chilometri. Non occorreva molta intelligenza o fantasia per capire da cosa era stato provocato. In epoche remote, certo molto prima che la vita sul pianeta si esaurisse, un’immensa forma cilindrica si era fermata in quel punto per poi librarsi di nuovo nello spazio.

Chi erano? E da dove erano venuti? Alvin non avrebbe mai saputo se avevano mancato quei precedenti visitatori per un migliaio o un milione di anni.

Ritornarono verso la loro nave (sarebbe sembrato un giocattolo, vicino al mostro che una volta era atterrate sul pianeta) e sorvolarono l’arena fino al più imponente degli edifici che la circondavano. Mentre atterravano davanti all’ingresso, Hilvar indicò qualcosa che Alvin aveva notato contemporaneamente.

«Queste costruzioni hanno l’aria pericolante: è un miracolo se si reggono ancora. Guarda quanti massi caduti! Se sul pianeta ci fossero state delle tempeste, queste case sarebbero a terra da chissà quanto. Mi sembra imprudente entrare.»

«Bene, manderemo il robot. È più rapido di noi e non provocherà spostamenti d’aria che possano far crollare il tetto.»

Hilvar approvò la precauzione, ma ne fece presente un’altra che Alvin non aveva tenuta in considerazione e che accettò subito. Prima di mandare il robot in ispezione, Alvin fece dare una serie di istruzioni al cervello dell’astronave. In questo modo, qualsiasi cosa fosse accaduta al loro pilota, avrebbero potuto tornare in salvo sulla Terra.

Ci volle poco per convincerli che quel pianeta non aveva niente da offrire. Per mezzo del robot, i due esploratori visitarono un’infinità di corridoi e di stanze vuote. Tutti gli edifici costruiti da esseri intelligenti, di qualsiasi forma sia il loro corpo, devono ottemperare a certe leggi base, e dopo qualche istante anche le più stravaganti forme di architetture o di disegno smettono di sorprendere. La mente dei visitatori rimase quasi ipnotizzata dalla continua ripetizione, sino a diventare incapace di assorbire qualsiasi altra impressione. Quegli edifici, così pareva, dovevano essere palazzi residenziali, e gli individui che li avevano abitati dovevano aver avuto all’incirca la statura dell’uomo. Potevano anche essere stati uomini. Vero che un sorprendente numero di stanze e vani potevano essere raggiunti soltanto da creature volanti, ma questo non significava che i costruttori della città avessero avuto le ali. Forse si erano serviti di apparecchi antigravità personali, del tipo che era stato in uso anche sulla Terra, ma che poi era completamente scomparso.

«Alvin» disse infine Hilvar «possiamo continuare così per l’eternità. Gli abitanti non hanno abbandonato le case, le hanno vuotate con cura di tutti i beni che possedevano. Stiamo sprecando il nostro tempo.»

«Che si fa, allora?»

«Diamo un’occhiata a qualche altra zona del pianeta, tanto per vedere se è così dappertutto, poi dovremmo fare una rapida esplorazione anche degli altri pianeti, e atterrare solo se ne vale la pena, o se appaiono totalmente diversi. È l’unica cosa da fare, a meno che tu non voglia restar qui per tutta la vita.»

Hilvar aveva ragione: erano venuti per mettersi in contatto con altre intelligenze, non per fare ricerche archeologiche. Il loro compito si sarebbe potuto svolgere in pochi giorni, se lì fosse esistita ancora un’intelligenza.

Per le ricerche sarebbero occorsi secoli di lavoro di uomini e di robot. Lasciarono il pianeta due ore dopo, ben contenti di andarsene. Quel mondo di edifici cadenti doveva essere stato piuttosto deprimente anche ai tempi in cui era abitato. Non esisteva traccia di parchi, di luoghi aperti dove potesse essere cresciuto un po’ di verde, qualche pianta. Quel mondo era stato spaventosamente sterile, ed era difficile immaginare la psicologia di coloro che l’avevano abitato. «Se il prossimo pianeta è identico a questo», pensò Alvin, «probabilmente abbandonerò le ricerche.»

Tutt’altro, invece: anzi, sarebbe stato impossibile immaginare un contrasto più forte.

Quest’altro pianeta era più vicino al sole, e perfino osservandolo dallo spazio si capiva che era caldissimo. Era parzialmente nascosto da nuvole, che denunciavano molta abbondanza di acqua, ma non si vedeva traccia di oceani. Né si notava alcun segno di intelligenza; fecero due volte il giro del pianeta senza vedere una sola costruzione. L’intero globo, dai poli all’equatore, era ricoperto da una coltre di un verde violento.

«Dobbiamo usare prudenza qui» osservò Hilvar. «Questo mondo è vivo, e non mi piace il colore di quella vegetazione. Sarà meglio restare sulla nave e non aprire il compartimento stagno.»

«Nemmeno per far uscire il robot?»

«Nemmeno. Voi avete dimenticato cosa siano le malattie. La mia gente sa come curarle, ma siamo molto lontani da casa, e qui possono esserci pericoli sconosciuti. Secondo me, questo mondo è degenerato. Ammetto che quand’era abitato potesse essere un immenso parco, ma poi la Natura deve aver preso il sopravvento. Di certo le cose non potevano stare così quando il pianeta era abitato.»

Alvin non dubitava che Hilvar avesse ragione. C’era qualcosa di malvagio, qualcosa di ostile all’ordine e alla regolarità su cui erano basate sia Lys che Diaspar, nell’anarchia biologica sotto di loro. Lì, per un miliardo d’anni, era stata combattuta un’incessante battaglia; nutrire la massima diffidenza per i superstiti era un’ottima misura precauzionale.

Si abbassarono cautamente su una grande pianura levigata e uniforme in modo anormale. Il piano era circondato da un sopralzo di terreno, tutto coperto da alberi di altezza smisurata che crescevano fittissimi e i cui tronchi erano letteralmente sepolti dal sottobosco. Esseri alati volavano tra i rami più alti, ma si muovevano così rapidi che era assolutamente impossibile dire se si trattava di uccelli, di insetti o di animali sconosciuti.

Qua e là i giganti della foresta avevano cercato di elevarsi di qualche metro sopra le piante circostanti, e queste avevano formato una breve alleanza per distruggere il vantaggio conquistato dalle altre. Certo era stata una guerra silenziosa, combattuta troppo lentamente per essere seguita a occhio, ma si aveva la netta impressione di un conflitto, spietato, implacabile.

La pianura, al confronto, sembrava tranquilla e monotona. Si stendeva piatta fino all’orizzonte, e sembrava coperta da una sottile erba rigida. Per quanto fossero scesi a pochi metri dal suolo non riuscirono a scorgere il minimo segno di vita animale, cosa che Hilvar trovò sorprendente. Forse, pensò, gli animali si erano nascosti sotto terra, impauriti dal loro arrivo.

Volteggiarono sul piano a quota bassissima. Alvin tentava di convincere Hilvar che non c’era alcun pericolo ad aprire il compartimento stagno, mentre Hilvar ribatteva pazientemente parlando di batteri, funghi, virus e microbi, concetti che Alvin stentava ad afferrare. La discussione si protraeva da qualche minuto quando accadde un fatto molto strano. Lo schermo visivo, che un attimo prima rifletteva la foresta, si fece opaco.

«L’hai spento tu?» chiese Hilvar.


«No» rispose Alvin, e subito un brivido gli corse per la schiena all’idea dell’unica spiegazione plausibile. «Forse l’hai spento tu?» chiese al robot.

«No.»

Con un respiro di sollievo, Alvin scacciò il sospetto che il robot avesse agito di propria volontà. Non gli sarebbe piaciuto dover affrontare l’ammutinamento di un meccanismo.

«Allora perché lo schermo è scuro?» chiese.

«I ricevitori sono stati coperti.»

«Non capisco» disse Alvin, dimenticando per un attimo che il robot poteva reagire solo a ordini o domande precise. Ma lo ricordò in fretta, e chiese: «Cosa ha coperto i ricevitori?»

«Non lo so.»

La laconicità dei robot poteva essere a volte più esasperante della loquacità degli umani. Prima che Alvin potesse formulare un’altra domanda, Hilvar l’interruppe.

«Digli di far alzare la nave… adagio» disse. Nella sua voce c’era una nota di urgenza.

Alvin trasmise l’ordine. Come sempre, non ci fu alcuna sensazione di movimento, ma qualche istante dopo l’immagine cominciò a riformarsi sullo schermo; per un momento restò offuscata e contorta, ma mostrò quanto bastava per mettere fine alla discussione sull’atterraggio.

La pianura non era più piana. Proprio sotto di loro si era formata una grande gibbosità, che rivelava uno squarcio nel punto da cui la nave era riuscita a liberarsi. Enormi pseudopodi si agitavano al di sopra dell’apertura, cercando di ricatturare la preda sfuggita. Alvin, che fissava inorridito e affascinato, colse la visione di un pulsante orifizio scarlatto, frangiato di tentacoli che battevano all’unisono, trascinando tutto ciò che potevano afferrare dentro la sacca spalancata.

Rimasto privo della vittima, il mostro affondò lentamente nel terreno, e fu allora che Alvin comprese. La pianura là sotto non era che un sottile strato di scorie alla superficie di un mare stagnante.

«Cos’era quella cosa?» balbettò.

«Dovrei scendere e studiarla per poterti dire cos’è» replicò calmo Hilvar.

«Può trattarsi di una specie di animale primitivo, forse parente del nostro amico di Shalmirane. Di sicuro non è intelligente, altrimenti non gli sarebbe venuta l’idea di mangiarsi una nave spaziale.»

Alvin si sentì scosso, anche sapendo di non aver corso un vero pericolo.

E si domandò cos’altro vivesse tra quegli innocenti fili d’erba.


«Ci sarebbe da trascorrere parecchio tempo su questo pianeta» disse Hilvar, affascinato da ciò che aveva appena visto. «L’evoluzione deve aver prodotto fenomeni molto interessanti. Non solo l’evoluzione, del resto, ma anche l’involuzione, perché le forme superiori di vita sono regredite da quando il pianeta è stato abbandonato. A quest’ora dev’essersi stabilito un equilibrio e… Come, andiamo già via?» terminò, dispiaciuto, vedendo che il pianeta si allontanava sotto di loro.

«E subito, anche. Ho visto un mondo senza vita e un altro dove ce n’è troppa. Non saprei dire quale sia il peggiore.»

A duemila metri sopra la pianura, il pianeta diede loro l’ultima sorpresa.

Incontrarono una flottiglia di flaccidi palloni trasportati dal vento. Da ogni superficie semi-trasparente penzolavano masse di viticci che formavano una specie di foresta. Evidentemente alcune piante, nello sforzo di sfuggire al feroce conflitto che si svolgeva sulla superficie, avevano imparato a conquistare l’aria. Con un miracolo di adattamento avevano scoperto come produrre idrogeno e accumularlo nelle radici, in modo da sollevarsi nell’aria e vivere nella tranquilla pace dell’atmosfera.

Tuttavia non si poteva dire che avessero trovato la sicurezza. I loro rami e le foglie erano infestati da un’intera fauna di animali a forma di ragno, costretti a trascorrere la vita lontani dalla superficie del pianeta e a continuare nell’aria l’eterna battaglia per l’esistenza. Presumibilmente, di tanto in tanto, dovevano aver bisogno di qualche contatto con il suolo. Alvin vide uno dei palloni scoppiare all’improvviso, distendere l’involucro a forma di rudimentale paracadute, e cadere a terra. Si domandò se era stata una disgrazia, o se faceva parte del ciclo di vita delle strane entità.

Hilvar dormì per tutta la durata del viaggio di avvicinamento al nuovo pianeta. Il robot non ne seppe spiegare la ragione ma, ora che si trovavano all’interno del sistema, l’astronave viaggiò a una velocità assai ridotta in raffronto a quella con cui avevano attraversato l’universo. Ci vollero quasi due ore per raggiungere il mondo scelto come terza stazione, e Alvin fu alquanto sorpreso che quel semplice viaggio interplanetario fosse durato così a lungo.

Svegliò Hilvar nel momento in cui entravano nell’atmosfera.

«Che ne pensi diquesto?» domandò, indicando lo schermo.

Sotto di loro si stendeva un paesaggio grigio e nero, che non mostrava alcuna traccia di vegetazione e sembrava assolutamente deserto. C’erano però segni indiretti di vita: basse colline e vallate erano punteggiate da calotte semisferiche, disposte secondo schemi complessi e simmetrici.


Alvin e Hilvar, che dopo l’ultima avventura si erano fatti molto cauti, mandarono il robot in esplorazione. Attraverso i suoi occhi poterono esaminare una delle calotte dalla superficie rotonda e liscia.

Non si scorgeva alcuna apertura d’ingresso, né era possibile capire a quale scopo fosse destinata la strana struttura. Era molto larga, alta circa trenta metri. Se era un edificio, mancava però di porte e di finestre.

Alvin ordinò al robot di avvicinarsi e toccare la cupola. Con sua immensa meraviglia, la macchina si rifiutò di obbedirgli. Un ammutinamento, o così sembrava.

«Perché non vuoi fare quel che ti dico?» chiese Alvin, superato il primo momento di stupore.

«È proibito.»

«Proibito da chi?»

«Non so.»

«Allora come mai… No, cancella. L’ordine è registrato dentro di te?»

«No.»

Questo sembrava eliminare una possibilità: quella che i costruttori delle cupole fossero la razza che aveva fabbricato i robot e che avessero incluso nelle istruzioni originali il divieto di avvicinarsi.

«Quando hai ricevuto quell’ordine?»

«Quando ho toccato terra.»

Alvin si voltò a guardare Hilvar. Una luce di speranza gli brillava negli occhi. «C’è intelligenza, qui? Riesci a sentirla?»

«No. Questo pianeta è morto come il primo che abbiamo visitato.»

«Vado a raggiungere il robot. Se qualcosa ha comunicato con lui, può comunicare anche con me.»

Hilvar non si oppose, benché non avesse un’aria troppo convinta. Atterrarono a una trentina di metri dalla cupola, poco lontano dal robot che li aspettava, e aprirono il compartimento stagno.

Alvin sapeva che il compartimento non si sarebbe aperto se il cervello della nave non avesse stabilito che l’aria era respirabile, ma per un attimo dubitò che si fosse verificato un errore. L’aria era scarsissima, insufficiente. Poi, respirando a fondo, capi che immagazzinava abbastanza ossigeno; tuttavia, avrebbero potuto fermarsi solo pochi minuti.

Si avviarono verso il robot e la parete curva dell’enigmatica cupola.

Mossero ancora qualche passo, poi si fermarono di colpo, simultaneamente. Un identico messaggio era risuonato nella loro mente come il suono di un potente gong: pericolo. Non avvicinarti.


Nient’altro. Un messaggio fatto di pensiero puro, non di parole. Alvin era certo che qualunque creatura, a prescindere dal livello d’intelligenza, avrebbe ricevuto lo stesso avvertimento, trasmesso in maniera inconfondibile dallo stesso identico mezzo: la mente.

Era un semplice avvertimento, non una minaccia. Sentivano in qualche modo che non era diretto contro di loro. Era stato impartito a loro protezione. Qui, sembrava dire, c’è qualcosa di estremamente pericoloso, e noi, costruttori delle cupole, non vogliamo che qualcuno corra incidentalmente un grave pericolo.

Alvin e Hilvar fecero alcuni passi indietro, poi si guardarono; ciascuno aspettava che l’amico si pronunciasse per primo. Fu Hilvar a parlare.

«Avevo ragione io, Alvin. Qui non c’è intelligenza viva. L’avvertimento è automatico, scatta non appena qualcuno supera la distanza fissata.»

Alvin annuì. «Mi chiedo cos’abbiano cercato di proteggere» disse. «Ci saranno abitazioni… o altro, chissà, sotto quelle cupole.»

«Non potremo scoprirlo se tutte le cupole ci daranno lo stesso segnale.

Interessante, però, la differenza tra questi tre pianeti! Il primo l’hanno abbandonato portando via quasi tutto. Il secondo l’hanno abbandonato senza curarsi di nulla, qui invece pare che si siano dati molto da fare. Forse speravano di tornare un giorno o l’altro e volevano che tutto rimanesse com’era.»

«Ma non sono più tornati, ed è trascorso un tempo immemorabile.»

«Avranno cambiato idea.»

«Strano», pensò Alvin. «Hilvar e io abbiamo parlato entrambi riferendoci a ’loro’. Chiunque o qualunque cosa ’loro’ siano stati, la loro presenza è ancora avvertibile sul primo pianeta, e più che mai su questo. Ecco un mondo che è stato accuratamente impacchettato e conservato nel caso che potesse tornare utile…»

«Torniamo alla nave» ansimò. «Faccio fatica a respirare.»

Quand’ebbero richiuso il compartimento stagno e si furono un po’ rinfrancati, discussero sul da farsi. Per compiere un’investigazione accurata dovevano accostarsi a un buon numero di cupole, nella speranza di trovarne una in cui fosse possibile entrare. Se invece l’avvertimento si fosse ripetuto regolarmente… Ma Alvin preferiva non pensarci.

Dovette pensarci meno di un’ora dopo, e in uno stato d’animo molto più drammatico di quanto avrebbero mai immaginato. Il robot era sceso su una dozzina di cupole, sempre con lo stesso risultato, quando si trovarono di fronte a una scena che appariva fuori posto in un mondo dove regnava un ordine così assurdo.

Sotto di loro si stendeva un’ampia vallata; sparse qua e là, le solite cupole impenetrabili. Al centro c’erano le tracce inconfondibili di una grande esplosione. Un’esplosione che aveva proiettato frammenti per miglia all’intorno e scavato un enorme cratere nel terreno.

Accanto al cratere c’era il relitto di una nave spaziale.

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