13

Il Maestro era giunto sulla Terra durante il caos dei Secoli di Transizione, quando già l’Impero Galattico stava andando in rovina, ma quando ancora le linee di comunicazione tra le stelle non erano completamente interrotte. Aveva avuto un’origine umana, anche se la sua patria era un pianeta che ruotava attorno a uno dei Sette Soli. Ancora giovane, era stato costretto a lasciare il mondo natale, il cui ricordo l’aveva perseguitato per tutta la vita. Dava la colpa di quell’espulsione a nemici vendicativi, ma in verità soffriva di una malattia che, a quanto pare, attaccava solo l’homo sapiens tra tutte le specie intelligenti dell’universo. Quella malattia era la mania religiosa.

Durante i primi periodi della propria storia, la specie umana aveva prodotto una serie interminabile di profeti, veggenti, messia ed evangelisti capaci di convincere se stessi e i loro seguaci che solo a loro erano stati rivelati i segreti dell’universo. Alcuni avevano fondato religioni che erano sopravvissute e avevano influenzato miliardi di uomini; altri erano stati dimenticati ancor prima di morire.

Il progredire della scienza, che con monotona regolarità rifiutava le cosmologie dei profeti e produceva miracoli contro cui non si potevano mettere a confronto, aveva distrutto tutte queste fedi. Non aveva distrutto, però, il rispetto, né la riverenza e l’umiltà che tutti gli esseri intelligenti provavano nel contemplare lo stupendo universo in cui vivevano. Quelle che indebolirono, e vennero alla fine dimenticate, furono le innumerevoli religioni, tutte intente a proclamare con incredibile arroganza di essere le uniche depositarie della verità, dichiarando che i milioni di rivali, e i predecessori, erano in errore.

Tuttavia, per quanto non avessero mai posseduto una qualsiasi vera potenza dopo che l’umanità aveva raggiunto un livello elementare di civiltà, durante le ere erano continuati a comparire culti isolati, e per quanto fantastico fosse il loro credo, erano sempre riusciti a radunare alcuni discepoli.

Questi culti avevano prosperato soprattutto nei periodi di confusione e di disordine, e non era strano che i Secoli di Transizione avessero visto una forte esplosione di irrazionalità. Quando la realtà è deprimente, gli uomini si rifugiano nei miti.

Il Maestro, sebbene espulso dal proprio mondo, non si era lasciato abbattere. I Sette Soli erano stati il centro del potere galattico e della scienza, ed egli doveva aver avuto alcuni amici influenti… Aveva compiuto la sua Egira in una piccola ma velocissima nave, una delle più veloci che fossero state costruite. In esilio aveva portato con sé un altro perfetto prodotto della scienza galattica: il robot che ancora oggi stava fissando Alvin e Hilvar.

Nessuno aveva mai conosciuto a fondo tutte le facoltà e le funzioni di quel robot. In un certo senso esso era divenuto l’alter ego dei Maestro; senza quel robot, la religione dei Grandi sarebbe probabilmente scomparsa dopo la morte del suo profeta. Insieme avevano vagabondato in mezzo alle stelle, seguendo un cammino a zig-zag che portava al mondo dal quale erano partiti gli antenati del Maestro.

Intere biblioteche erano state scritte su quella leggenda, e ogni opera aveva ispirato una quantità di commenti, fino al giorno in cui, come per una specie di reazione a catena, i volumi originali si erano persi dietro montagne di esami critici e interpretazioni.

Il Maestro si era fermato in molti mondi e aveva adunato discepoli tra molte razze. Doveva aver avuto una personalità immensamente forte, tanto da convertire razze umane e non umane, e senza dubbio, per aver esercitato tale richiamo, la sua religione doveva aver contenuto parecchi nobili concetti. Forse era stato l’ultimo e il più ascoltato di tutti i messia dell’umanità. Nessuno dei suoi predecessori aveva mai avuto tanti seguaci, né i loro insegnamenti avevano mai superate tali barriere di tempo e di spazio.

Ma né Alvin né Hilvar riuscirono a scoprire quali fossero stati i suoi insegnamenti. Il grosso polpo faceva del suo meglio per comunicarli, ma usava termini privi di significato, e ripeteva frasi e citazioni con tale meccanica rapidità che era impossibile seguirlo. Hilvar cercò di stornare la conversazione da quell’incomprensibile filastrocca teologica per scendere a fatti più concreti.

Il Maestro e un gruppo dei più fedeli discepoli erano scesi sulla Terra prima che le città fossero scomparse, e quando ancora l’astroporto di Diaspar era aperto alle stelle. Dovevano essere arrivati su astronavi di specie diverse. I polpi, per esempio, in un’astronave piena di quell’acqua che era il loro elemento naturale. Non era chiaro se la nuova dottrina era stata bene accolta sulla Terra, comunque non aveva incontrato opposizioni violente.

E dopo diversi vagabondaggi i discepoli si erano stabiliti tra le foreste e le montagne di Lys.

Alla fine della sua lunga vita, i pensieri del Maestro si erano nuovamente rivolti verso il mondo da cui era esiliato, e aveva chiesto agli amici di portarlo all’aperto, per poter contemplare le stelle. Aveva aspettato di vedere i Sette Soli, e verso la fine, quando le forze lo stavano abbandonando, aveva mormorato alcune frasi che nelle età future avrebbero ispirato altre miriadi di interpretazioni. Aveva parlato in continuazione dei «Grandi» che avevano lasciato questo universo di spazio e materia; aveva incaricato i suoi seguaci di rimanere ad attendere per dare loro il benvenuto. Quelle erano state le sue ultime parole razionali. Poi aveva perso conoscenza. Ma poco prima della fine aveva pronunciato una frase che avrebbe tormentato le menti di tutti coloro che erano in ascolto. Aveva detto: «È bello guardare le ombre colorate sui pianeti di luce eterna». Poi era morto.

Con la scomparsa del Maestro molti seguaci si erano dispersi, ma altri erano rimasti fedeli ai suoi insegnamenti, elaborandoli lentamente attraverso i secoli. In un primo tempo avevano creduto che i Grandi, chiunque fossero, sarebbero presto tornati. Poi la speranza si era indebolita. A questo punto la storia divenne confusa, e verità e leggenda parvero mescolarsi con frequenza. Alvin ebbe solo un’immagine di fanatici in attesa di un grande evento che non capivano e che sarebbe accaduto in un momento non precisato del futuro.

I Grandi non tornarono mai. La morte e la delusione dei discepoli fecero via via perdere forza al movimento. Gli esseri umani dalla breve vita furono i primi ad andarsene. E non era senza ironia che l’ultimo seguace di un profeta umano fosse una creatura completamente diversa dall’uomo.

Il grosso polpo era l’ultimo dei discepoli del Maestro, e per una semplice ragione: era immortale. I miliardi di cellule che formavano il suo corpo erano soggette alla morte, ma prima di morire si riproducevano. A lunghi intervalli il mostro si disintegrava in miliardi di cellule separate che, in ambiente adatto, avrebbero avuto una loro vita e si sarebbero moltiplicate per scissione. Durante questa fase il polpo cessava d’esistere come entità intelligente e autocosciente… E qui Alvin ricordò, per associazione di idee, il modo in cui gli abitanti di Diaspar passavano i loro quiescenti millenni nelle Banche Memoria della città.

A tempo opportuno, misteriose forze biologiche rimettevano insieme le componenti disperse, e il polpo cominciava un nuovo ciclo di esistenza.

Tornava alla coscienza e ricordava le esistenze trascorse, anche se spesso in modo imperfetto: talora, qualche incidente danneggiava le delicate cellule che contenevano gli schemi della memoria.

Forse nessun’altra forma di vita avrebbe potuto tener fede a un credo ormai dimenticato da milioni di anni. Il grosso polpo, in fondo, era una vittima della sua stessa natura. La sua immortalità non gli permetteva di cambiare, e lo costringeva a riprodurre eternamente lo stesso schema.

La religione dei Grandi aveva finito per identificarsi con la venerazione dei Sette Soli. Poiché i Grandi non si decidevano a ritornare, venivano fatti dei segnali per richiamare la loro attenzione. Da lungo tempo, ormai, la segnalazione era però un rito senza alcun significato, e veniva osservato soltanto da un animale che non sapeva più apprendere e da un robot che non aveva mai saputo dimenticare.

Mentre la voce antichissima moriva nell’aria tranquilla, Alvin si sentì sopraffare da un’ondata di pietà. Quell’inutile devozione, quella lealtà che aveva tenuto fede al suo inutile scopo mentre soli e pianeti erano tramontati… Alvin non avrebbe mai potuto credere a una simile favola se non avesse constatato l’evidenza coi suoi stessi occhi. E si rese conto con tristezza di quanto immensa fosse la sua ignoranza. Un piccolo frammento del passato lo aveva illuminato per qualche istante: ora il buio completo lo avvolgeva nuovamente.

La storia dell’Universo doveva essere un cumulo di frammenti sconnessi, dei quali nessuno avrebbe saputo dire con sicurezza se erano importanti o senza significato. Il fantastico racconto sul Maestro e sui Grandi sembrava una delle innumerevoli leggende che erano in qualche modo sopravvissute dai tempi delle primitive civiltà. Tuttavia l’esistenza del polpo immenso e del silenzioso robot rendeva impossibile credere che la storia fosse frutto di illusioni fondate su basi sciocche.

Quale poteva essere la relazione tra quelle due entità, tanto differenti tra loro, che avevano mantenuto la loro straordinaria unione per epoche intere? Alvin aveva la sensazione che il robot fosse in qualche modo il più importante dei due. Era stato il confidente del Maestro, e doveva conoscere tutti i suoi segreti.

Fissò l’enigmatico robot. Perché non voleva parlare? Quali pensieri passavano attraverso la sua mente complicata e sconosciuta? Eppure, se era stato costruito per servire il Maestro, doveva saper rispondere agli ordini umani.

Alvin, pensando a tutti i segreti che la macchina muta doveva contenere, provò il desiderio quasi spasmodico di conoscerli. Gii sembrava un delitto che tanta conoscenza fosse sprecata e celata al mondo. Doveva conoscere cose ignorate anche dal Computer Centrale di Diaspar.

«Perché il tuo robot non vuole parlare con noi?» chiese al polpo, approfittando di un momento di silenzio di Hilvar. E la riposta fu quasi quella che si aspettava.

«Il Maestro voleva che il robot parlasse solo per suo ordine, e ora la voce del Maestro è spenta.»

«Ma a te obbedirebbe?»

«Sì. Il Maestro l’ha messo ai nostri ordini. Possiamo vedere attraverso i suoi occhi, dovunque esso vada. Il robot fa funzionare la macchina che preserva e tiene pure le acque di questo lago. Noi lo consideriamo un nostro simile, non il nostro servo.»

Alvin tacque, meditando. Un’idea ancora vaga cominciava a prendere forma nella sua mente. Forse era ispirata da un semplice desiderio di conoscenza e di potere. Quando, in seguito, gli capitò di ripensare a quel momento, non seppe mai definire quali fossero stati i suoi veri motivi. Potevano essere largamente egoistici, ma potevano anche contenere qualche elemento di compassione. Se fosse riuscito, avrebbe posto termine a quell’inutile stato di cose, e avrebbe liberato quelle creature dal loro fantastico e assurdo destino. Forse non poteva fare niente per il polpo, ma sperava almeno di recuperare il robot, e farsi dire tutti i preziosi ricordi che la sua mente conteneva.

«Sei certo» disse lentamente, guardando il polpo, ma indirizzando le sue parole al robot «che rimanendo qui esegui realmente i desideri del Maestro? Lui voleva che il mondo conoscesse i suoi insegnamenti, che sono andati perduti mentre voi ve ne stavate qui a Shalmirane. Noi vi abbiamo scoperto solo per caso, e forse altri vorrebbero apprendere queste dottrine.»

Hilvar gli lanciò un’occhiata penetrante. Il polpo sembrava agitato: il fremito del suo apparato respiratorio si arrestò per un attimo, poi l’essere disse con voce alterata: «Abbiamo discusso questo problema per molti anni. Ma noi non possiamo lasciare Shalmirane, per cui il mondo deve venire a noi. Il tempo non conta».

«Ho un’idea migliore» fece Alvin. «È vero chetudevi restare nel lago, ma non c’è ragione che il tuo compagno non debba venire con noi. Può tornare quando vuole o ogni volta che ne avrai bisogno. Da quando il Maestro è morto, sono accadute tante cose, cose che dovreste sapere ma che non comprendereste mai se resterete sempre qui.»

Il robot era sempre immobile, ma il polpo, nella sua angosciosa indecisione, s’immerse completamente nel lago e restò sott’acqua per parecchi minuti. Diverse volte parve riemergere, ripensarci, e sparire nuovamente sott’acqua. Hilvar colse l’occasione per scambiare qualche parola con Alvin.

«Che cerchi di fare?» mormorò, tra il serio e il faceto. «O non lo sai nemmeno tu?»

«Non ti fanno pena queste creature? Non credi che sarebbe una buona azione liberarle?»

«Ah, lo so. Ma credo di conoscerti piuttosto bene. L’altruismo non è il tuo sentimento dominante. Tu hai qualcosa in mente, Alvin.»

Alvin sorrise un po’ a disagio. Se Hilvar non gli stava leggendo il pensiero, perché di nascosto non l’avrebbe mai fatto, leggeva però molto bene il suo carattere.

«La tua gente ha dei notevoli poteri mentali» disse, per stornare un argomento troppo pericoloso. «Potranno fare qualcosa per il robot, se non per il polpo.» Parlò a bassa voce, per non essere sentito. La precauzione poteva essere inutile, comunque il robot non diede segno di aver ascoltato.

Per fortuna, prima che Hilvar potesse fare altre domande, il polpo riemerse dal lago. Negli ultimi minuti si era fatto sensibilmente più piccolo e i movimenti erano ancora più caotici. Mentre Alvin lo guardava, un altro pezzo del corpo trasparente si staccò e si disintegrò in una miriade di particelle minutissime che si dissolsero rapidamente. La creatura stava sfaldandosi davanti ai loro occhi.

La voce, quando parlò, era malsicura e poco comprensibile.

«Comincia il prossimo ciclo» rantolò. «Non me lo aspettavo tanto presto… Mi restano pochi minuti… Stimoli troppo forti… Non potrò resistere molto.»

I due giovani fissavano la creatura, sconvolti e affascinati. Anche se il processo che stavano osservando era naturale, non era piacevole vedere una creatura intelligente negli attimi dell’agonia. Loro poi sentivano un oscuro senso di colpa. Era irrazionale, dato che non aveva particolare importanzaquandoil polpo avrebbe ricominciato un nuovo ciclo di vita, ma avevano la sensazione che lo sforzo e l’agitazione causati dalla loro presenza potevano essere responsabili della prematura metamorfosi.

Alvin capì che doveva far presto, o la sua occasione sarebbe sfumata, forse per pochi anni, forse per secoli.

«Cos’hai deciso?» incalzò. «Vuoi che il robot venga con noi?»

Ci fu una pausa penosissima, mentre il polpo tentava di dominare con la volontà il corpo agonizzante. Il diaframma parlante palpitò, ma non ne uscì alcun suono. Poi, in un disperato gesto d’addio, l’essere agitò debolmente i palpi e li lasciò ricadere nell’acqua, dove immediatamente si dispersero in frammenti minutissimi. La trasformazione si concluse in pochi secondi.

Della creatura non rimasero altro che frammenti non più grandi di un centimetro. L’acqua si riempì di piccole macchie verdastre con una loro vita e mobilità, che rapidamente si dispersero nella vastità del lago.

Le onde che increspavano la superficie erano scomparse, e Alvin comprese che anche la pulsazione della profondità doveva essere cessata. Il lago era di nuovo morto… O così sembrava. Ma un giorno le misteriose forze che mai avevano mancato di compiere il loro dovere in passato sarebbero tornate a esercitarlo, e il polpo sarebbe rinato. Era uno strano e meraviglioso fenomeno. Ma era poi molto più strano dell’organizzazione del corpo umano? Non si trattava anche qui di una grande colonia di cellule viventi separate?

Alvin non perse tempo a pensarci. Si sentiva oppresso da un senso di fallimento, anche se non aveva mai ben capito quale fosse la meta che voleva raggiungere. Aveva perso un’occasione che forse non si sarebbe mai più ripresentata. Guardò con amarezza il lago, e passò parecchio tempo prima che Alvin potesse registrare ciò che Hilvar stava mormorandogli all’orecchio.

«Alvin» stava dicendo l’amico «hai vinto.»


Si girò di scatto. Il robot, che fino a quel momento non si era mai avvicinato a più di cinque o sei metri, era fermo poco al di sopra di lui. Gli occhi immobili non fissavano alcun punto in particolare, ma Alvin ebbe la certezza che l’attenzione della macchina convergesse su di lui.

Il robot aspettava una sua mossa; era, almeno in un certo senso, sotto il suo controllo. Poteva seguirlo a Lys, forse anche a Diaspar. Almeno per il momento, Alvin poteva considerarsene padrone.

Загрузка...