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Nella corte esterna, quando Rand vi giunse portando le bisacce della sella e il fagotto con l’arpa e il flauto, c’era agitazione, ma non disordine. Il sole volgeva a mezzodì. Gli uomini s’affaccendavano intorno ai cavalli per controllare le cinghie della sella e i finimenti da carico; alcuni correvano con le ultime aggiunte ai bagagli, o portavano acqua a chi lavorava, o andavano a prendere qualcosa di cui si erano ricordati solo in quel momento. Ma pareva che tutti sapessero esattamente il fatto proprio. I camminamenti e le balconate per gli arcieri erano di nuovo affollati e l’entusiasmo scoppiettava nell’aria del mattino. Si udivano zoccoli raschiare le pietre del lastrico. Un cavallo da soma si mise a scalciare e alcuni stallieri accorsero a calmarlo. C’era un gran puzzo di sterco di cavallo. Il mantello di Rand cercò di sbattere nella brezza che increspava le bandiere col falco in picchiata, in cime alle torri, ma l’arco di traverso sulla schiena lo tenne a posto.

Dalle porte aperte provennero i rumori dei picchieri e degli arcieri dell’Amyrlin che prendevano posizione nella piazza: erano giunti a passo di marcia da una porta laterale. Un trombettiere provò il proprio corno.

Alcuni Custodi lanciarono un’occhiata a Rand che attraversava la corte; un paio inarcò il sopracciglio, nel vedere la spada col marchio dell’airone, ma nessuno aprì bocca. Metà di loro portava quel mantello cangiante che dava la nausea a guardarlo. Nella corte c’era Mandarb, il destriero di Lan, alto e nero, dagli occhi feroci; ma Lan non si vedeva, né si vedevano le Aes Sedai e neppure le donne. La giumenta bianca di Moiraine, Aldieb, andò a mettersi con movimenti eleganti al fianco di Mandarb.

Il baio di Rand era nel gruppo dall’altra parte della corte, che comprendeva Ingtar, un portabandiera con lo stendardo col Gufo Grigio e venti uomini in armatura, armati di lancia, già in sella. Le barre dell’elmo coprivano le facce; le sopravvesti dorate, col Falco Nero sul petto, nascondevano le corazze a piastre e a maglia. Solo l’elmo di Ingtar aveva la cresta, una mezzaluna a punte in alto, sopra la fronte. Rand riconobbe alcuni uomini: Huno, dalla lingua tagliente, con una cicatrice sulla guancia e un solo occhio; Ragan e Masema; altri con cui aveva chiacchierato o giocato qualche partita a sassolini. Ragan lo salutò agitando la mano, Huno gli rivolse un cenno, però Masema non fu l’unico a guardarlo con freddezza e a distogliere gli occhi. I cavalli da soma muovevano tranquillamente la coda.

Il baio si agitò, mentre Rand legava dietro la sella le bisacce e il fagotto. Rand mise nella staffa il piede e mormorò: «Buono, Red.» Con un volteggio montò in arcione, ma lasciò che il cavallo si muovesse per scaricare parte delle energie accumulate.

Dalla zona delle stalle comparve Loial. Il cavallo dell’Ogier, dai nodelli irsuti, era grande e grosso quanto un destriero dhurrano di prima scelta; accanto a lui, gli altri sembravano piccolini come Bela; ma con Loial in sella, l’animale pareva quasi un pony.

Loial non portava armi visibili, ma Rand non aveva mai sentito dire che gli Ogier usassero armi. Per loro, gli stedding erano protezione sufficiente. E Loial aveva le proprie priorità, le proprie idee delle cose necessarie per un viaggio. Le tasche della lunga giubba erano gonfie in modo rivelatore e le bisacce mostravano il rilievo quadrato dei libri.

L’Ogier si fermò a qualche passo da Rand, lo guardò e agitò le orecchie, incerto.

«Non sapevo che venissi anche tu» disse Rand. «Ti credevo stufo di viaggiare con noi. Stavolta non sappiamo neppure quanto staremo via, né dove andremo.»

«Come quando ci siamo conosciuti» disse Loial. «Inoltre, i motivi di allora sono validi anche adesso. Non posso perdere l’occasione di vedere la storia intessersi realmente intorno ai ta’veren. E se collaboro a trovare il Corno...»

Mat e Perrin arrivarono dietro Loial ed esitarono. Mat aveva l’aria stanca, ma pareva in buona salute.

«Mat» disse Rand «ti chiedo scusa per quel che ho detto. Perrin, non lo pensavo sul serio. Mi sono comportato da stupido.»

Mat si limitò a dargli un’occhiata, poi scosse la testa e mormorò a Perrin qualcosa che Rand non riuscì a capire. Mat aveva solo arco e faretra, ma Perrin portava alla cintura anche l’ascia, con la grossa lama a mezzaluna bilanciata da una spessa punta.

«Mat? Perrin? Davvero, non intendevo...» I due continuarono verso Ingtar.

«Quella non è una giubba adatta ai viaggi, Rand» disse Loial.

Rand diede un’occhiata alle spine d’oro che ornavano le maniche scarlatte e fece una smorfia. C’era poco da stupirsi se Mat e Perrin ritenevano ancora che si fosse montato la testa. Tornato nella sua stanza, aveva trovato che ogni cosa era stata già impacchettata e mandata via. Tutte le giubbe normali erano sui cavalli da soma, gli avevano detto i domestici; e quelle rimaste nell’armadio erano eleganti quanto la giubba che aveva indosso. Nelle bisacce non aveva abiti, a parte qualche camicia, calze di lana e un paio di brache di ricambio. Se non altro si era tolto dalla manica la cordicella d’oro e aveva messo in tasca la spilla con l’aquila rossa. Lan gliel’aveva regalata, in fin dei conti.

«Mi cambierò stasera, quando ci fermeremo» borbottò. Inspirò a fondo. «Loial, ti ho detto cose che non dovevo dirti e ti chiedo di perdonarmi. Hai tutti i diritti di rinfacciarmele, ma spero che tu non lo faccia.»

Loial sorrise e irrigidì le orecchie. Spostò il cavallo per farsi più vicino. «Ogni momento dico anch’io cose che non dovrei dire» replicò. «Secondo gli Anziani, parlo sempre un’ora prima di pensare.»

A un tratto Lan fu alla staffa di Rand; indossava l’armatura a scaglie grigie e verdi che l’avrebbe reso quasi invisibile nei boschi o nel buio. «Devo parlarti, pastore» disse. Guardò Loial. «Da solo, se non ti spiace, Costruttore.» Loial annuì e si allontanò.

«Forse non dovrei darti retta» replicò Rand al Custode. «Questi abiti eleganti e tutte le istruzioni che mi hai dato non mi sono stati di molto aiuto.»

«Quando non puoi ottenere una grande vittoria, pastore, impara ad accontentarti delle piccole. Se hai fatto in modo che ti ritengano qualcosa di più d’un contadino facile da manovrare, allora hai ottenuto una piccola vittoria. Adesso fai silenzio e ascolta. Ho tempo solo per un’ultima lezione, la più difficile. Inguainare la spada.»

«Per un’ora tutte le mattine non hai fatto altro che farmi estrarre questa maledetta spada e rimetterla nel fodero. In piedi, seduto, disteso. Ormai credo di riuscirci senza tagliarmi.»

«Ti ho detto d’ascoltare, pastore» brontolò il Custode. «Verrà un tempo in cui dovrai raggiungere una meta a tutti i costi. Sia che attacchi, sia che ti difendi. E l’unico modo sarà quello di lasciare che il tuo stesso corpo faccia da fodero alla spada.»

«Che pazzia. Perché mai dovrei...»

«Lo saprai al momento giusto, pastore» lo interruppe il Custode. «Quando il gioco vale la candela e non ti rimane altra scelta. Questo si chiama Inguainare la spada.»

L’Amyrlin attraversò la corte, con Leane che reggeva il bastone, accompagnata da lord Agelmar. Anche nella giubba di velluto verde, il signore di Fal Dara non sembrava fuori posto fra tanti uomini in armatura. Ancora non c’era segno delle altre Aes Sedai. Mentre il gruppetto passava, Rand colse alcune frasi.

«Madre» protestava Agelmar «non hai ancora avuto tempo di riposarti del viaggio. Rimani qualche giorno. Stasera terremo un banchetto come difficilmente se ne vedono, a Tar Valon.»

L’Amyrlin scosse la testa senza fermarsi. «Non posso, Agelmar. Mi fermerei, lo sai. Altre faccende richiedono al più presto la mia presenza nella Torre Bianca. Già ora dovrei essere lì.»

«Madre, sono offeso che tu riparta dopo un solo giorno. Ti giuro che non si ripeteranno gli eventi di ieri notte. Ho triplicato la guardia anche alle porte della città, oltre che della rocca. Ho fatto venire saltimbanchi dalla città e da Mos Shirare sta per giungere un bardo. Perfino re Easar è per strada, da Fal Moran. L’ho informato appena...»

Le voci svanirono nella confusione dei preparativi, mentre il gruppetto attraversava la corte. L’Amyrlin non diede nemmeno un’occhiata nella direzione di Rand.

Intanto il Custode era sparito. Loial riportò il cavallo a fianco di Rand. «È un uomo difficile da tenere fermo, vero?» disse. «Prima non c’è, poi è qui, poi scompare: nemmeno lo vedi andare e venire.»

"Inguainare la spada" pensò Rand. “I Custodi sono tutti pazzi,"

All’improvviso il Custode che parlava con l’Amyrlin balzò in sella: ancora prima d’arrivare alle porte spalancate, già galoppava a rotta di collo. L’Amyrlin rimase in piedi a guardarlo, quasi potesse spingerlo a correre più velocemente.

«Chissà dove va con tanta fretta» si domandò Rand, a voce alta.

«Ho sentito dire» rispose Loial «che oggi avrebbe mandato qualcuno giù nell’Arad Doman. Corre voce che ci siano guai nella Piana di Almoth e l’Amyrlin Seat vuole sapere esattamente di cosa si tratta. Ma non capisco perché proprio ora. La voce è giunta da Tar Valon, con le Aes Sedai.»

Rand sentì freddo. A casa, il padre di Egwene aveva una grande mappa, che Rand aveva esaminato più d’una volta, sognando di viaggiare per il mondo. Era antica e mostrava ancora terre e nazioni che secondo i mercanti di passaggio non esistevano più; ma vi era segnata la Piana di Almoth, che terminava contro le alture di Capo Toman. Rand ricordò la scritta: ‘Ci incontreremo di nuovo a Capo Toman’. Quel promontorio era dall’altra parte del mondo e dava sull’oceano Aryth. «Non ha niente a che fare con noi» mormorò. «Niente a che fare con me.»

Loial parve non udire: col dito grosso come salsiccia si strofinava la narice e fissava ancora la porta dalla quale era passato il Custode. «Se l’Amyrlin voleva informazioni» disse «perché non ha inviato un Custode prima di lasciare Tar Valon? Ma voi esseri umani siete sempre istintivi ed eccitabili, non fate che saltare qua e là e gridare.» Irrigidì le orecchie, imbarazzato. «Scusami, Rand. Vedi cosa intendo, quando dico di parlare senza riflettere. A volte anch’io sono avventato ed eccitabile.»

Rand si mise a ridere, ma senza tanta convinzione. «Forse» disse «se vivessimo quanto voi Ogier, saremmo anche noi più posati.» Loial aveva novant’anni; secondo il metro degli Ogier, gli sarebbero mancati dieci anni per poter uscire da solo dallo stedding; il fatto che ne fosse uscito era una prova d’avventatezza. Se Loial era un Ogier eccitabile, pensò Rand, allora molti di loro erano fatti di pietra.

«Può darsi» replicò Loial, pensieroso. «Ma voi esseri umani fate un mucchio di cose, anche se avete vita breve. Noi invece ce ne stiamo ammucchiati nel nostro stedding. Piantare i boschetti, e anche costruire, sono cose che risalgono a prima della fine del Lungo Esilio.» Loial amava i boschetti, non le città costruite per gli uomini. E aveva lasciato la casa proprio per vedere i boschetti, piantati per ricordare ai Costruttori Ogier gli stedding. «Da quando abbiamo trovato il modo di tornare negli stedding, noi...» S’interruppe, vedendo avvicinarsi l’Amyrlin.

Ingtar e gli altri si mossero a disagio sulla sella, preparandosi a smontare e a piegare il ginocchio, ma lei indicò di restare dov’erano. Aveva al fianco Leane; Agelmar si teneva indietro d’un passo e con la faccia cupa lasciava intuire d’avere rinunciato a convincerla a trattenersi ancora qualche giorno.

L’Amyrlin li guardò uno per uno, prima di parlare. Su Rand soffermò lo sguardo tanto a lungo quanto sugli altri.

«La pace favorisca la tua spada, lord Ingtar» disse infine. «Gloria ai Costruttori, Loial Kiseran.»

«Ci onori, Madre. Possa la pace favorire Tar Valon.» Ingtar s’inchinò e gli shienaresi lo imitarono.

«Ogni onore a Tar Valon» disse Loial, con un inchino.

Solo Rand e i suoi due amici dall’altra parte del gruppetto non s’inchinarono. Rand si domandò che cosa avesse detto agli altri due l’Amyrlin. Il cipiglio di Leane comprese tutti e tre, e Agelmar sgranò gli occhi, ma l’Amyrlin non si accorse di niente.

«Voi andate a cercare il Corno di Valere» disse «e la speranza del mondo cavalca al vostro fianco. Non si può lasciare nelle mani sbagliate, soprattutto nelle mani degli Amici delle Tenebre, il Corno di Valere. Coloro che rispondono alla sua chiamata non badano a chi lo suona e sono legati al Corno, non alla Luce.»

Fra gli uomini passò un fremito. Tutti erano convinti che gli eroi richiamati in vita dal Corno avrebbero combattuto per la Luce. Se invece potevano anche combattere per l’Ombra...

L’Amyrlin proseguì, ma Rand non ascoltava più. Si sentiva di nuovo osservato da occhi invisibili. Gli si rizzarono i capelli. Scrutò le balconate piene di gente, le persone ammassate sui camminamenti in cima alle mura. Da qualche parte, in mezzo a loro, c’era il paio d’occhi che l’aveva seguito, non visto. Quello sguardo gli restava appiccicato addosso come olio sporco. Ma non poteva trattarsi di un Fade, lì nella rocca. E allora, di chi si trattava? O di che cosa? Si girò sulla sella, scrutò da tutte le parti. Il baio ricominciò a fare il balletto.

All’improvviso un oggetto saettò davanti al viso di Rand. Un uomo che passava alle spalle dell’Amyrlin lanciò un grido e cadde: dal fianco gli sporgeva una freccia dall’impennatura nera. L’Amyrlin, calma, guardò lo strappo sulla propria manica e la macchia di sangue che a poco a poco si allargava sulla seta grigia.

Una donna strillò e di colpo nella corte risuonarono urla e grida. La gente sulle mura si agitò furiosamente e ogni uomo nella corte aveva in pugno la spada. Perfino Rand.

Agelmar agitò la spada. «Trovatelo!» ruggì, rosso di rabbia. «Portatelo qui davanti a me!» Impallidì di colpo, nel vedere il sangue sulla manica dell’Amyrlin. Cadde in ginocchio, a testa china. «Perdono, Madre, Non sono riuscito a garantire la tua sicurezza, Me ne vergogno.»

«Sciocchezze, Agelmar» rispose l’Amyrlin. «Leane, smettila di agitarti intorno a me e pensa a quell’uomo, Pulendo pesce mi sono fatta tagli peggiori di questo; ma quell’uomo ha bisogno d’aiuto. Agelmar, in piedi. Alzati, Signore di Fal Dara. Non hai motivo di vergognarti. L’anno scorso, nella Torre Bianca, con le mie stesse guardie alla porta e Custodi tutt’intorno, un uomo armato di pugnale è giunto a cinque passi da me. Un Manto Bianco, senza dubbio, anche se non ne ho le prove, Per favore, alzati, altrimenti sarò io a vergognarmi.» Mentre Agelmar si alzava, lei sfiorò col dito la manica lacerata. «Un tiro assai scadente, per un arciere dei Manti Bianchi o degli Amici delle Tenebre.» Scoccò una rapida occhiata a Rand e soggiunse: «Se ha mirato a me.»

A un tratto Rand ebbe voglia di smontare di sella e di nascondersi.

La freccia non era diretta a lei e l’Amyrlin lo sapeva!

Leane si rialzò. Qualcuno aveva steso un mantello sul viso dell’uomo colpito dalla freccia. «È morto, Madre» disse l’Aes Sedai, con voce stanca. «Era già morto prima di toccare terra, Anche se fossi stata al suo fianco...»

«Hai fatto quanto potevi, Figlia. Non si guarisce la morte.»

Agelmar venne più vicino. «Madre, se in giro ci sono sicari dei Manti Bianchi o degli Amici delle Tenebre, devi permettermi di mandare con te un drappello di miei uomini. Almeno fino al fiume. Non vivrei più, se ti accadesse qualcosa nello Shienar. Ti prego, torna negli alloggi delle donne. Li proteggerò a costo della vita, finché non sei pronta a partire.»

«Non preoccuparti» lo tranquillizzò l’Amyrlin. «Un semplice graffio non mi farà tardare d’un minuto. Sì, sì, accetto volentieri una scorta fino al fiume, se insisti. Ma non voglio che l’incidente faccia perdere tempo a Ingtar. Ogni secondo è prezioso, finché il Corno non sarà ritrovato. Mi permetti, lord Agelmar, di dare l’ordine?»

Agelmar assentì: in quel momento le avrebbe dato anche Fal Dara, se lei l’avesse chiesta.

L’Amyrlin si girò verso Ingtar e gli uomini raccolti alle sue spalle. Non guardò Rand. E con sorpresa il giovane la vide sorridere all’improvviso.

«Sono sicura che Illian non darà alla Grande Cerca del Corno un via così eccitante» disse, «Ma la vera Grande Cerca è la vostra. Siete in pochi, per muovervi rapidamente, ma bastate ad assolvere il compito. Io t’incarico, lord Ingtar di Casa Shinowa, e incarico voi tutti, di trovare il Corno di Valere e di non lasciare che nessuno vi ostacoli.»

Da sopra la spalla Ingtar estrasse la spada e ne baciò la lama. «Per la mia vita e la mia anima, per la mia Casa e il mio onore, lo giuro, Madre.»

«Allora parti.»

Ingtar girò il cavallo e si diresse alle porte. Rand diede di tallone e spinse Red dietro la colonna.

All’oscuro dell’accaduto nella corte, i picchieri e gli arcieri dell’Amyrlin, con la Fiamma di Tar Valon sul petto, formavano due pareti umane dalle porte della rocca alla città vera e propria. Tamburini e trombettieri aspettavano accanto alle porte. Dietro le file d’uomini in armatura, la gente affollava la piazza antistante la rocca. Alcuni salutarono a gran voce la bandiera di Ingtar e altri senza dubbio pensarono che il drappello precedesse la partenza dell’Amyrlin Seat.

Rand raggiunse Ingtar più avanti, dove case dalle gronde basse e botteghe fiancheggiavano la via lastricata a pietre e altra gente si era raccolta a guardare. Anche lì alcuni salutarono la bandiera di Ingtar. Mat e Perrin cavalcavano in testa alla colonna, con Ingtar e Loial; ma quando Rand si unì a loro, rimasero più indietro.

«Changu e Nidao sono scomparsi» disse a un tratto Ingtar. Pareva freddo e infuriato, ma anche scosso. «Abbiamo fatto l’appello di ogni uomo della rocca, vivo o morto, ieri notte e di nuovo stamattina. Sono gli unici due mancanti.»

«Ieri Changu era di guardia alle prigioni» disse piano Rand.

«Anche Nidao. Avevano il secondo turno. Stavano sempre insieme, anche a costo di scambiare il turno con altri o di fare servizio extra. Non erano di guardia, al momento dell’attacco, ma... E pensare che un mese fa hanno combattuto al passo di Tarwin e hanno salvato lord Agelmar, quando i Trolloc gli hanno abbattuto il cavallo. E ora... Amici delle Tenebre.» Sospirò profondamente. «Tutto va a rotoli.»

Un uomo a cavallo si aprì un varco tra la gente che affollava i lati della via e si unì al drappello, ponendosi dietro Ingtar. A giudicare dagli abiti, era uno della città, magro, col viso rugoso e capelli brizzolati, lunghi. Dietro la sella portava un fagotto e alcune ghirbe d’acqua, una corta spada e un frangilama ammaccato appesi alla cintura insieme con un randello.

Ingtar notò le occhiate di Rand. «Questo è Hurin, il nostro annusatore» spiegò. «Meglio che le Aes Sedai non ne sappiano niente. Intendiamoci, lui non fa nulla di sbagliato: il re ha un annusatore a Fal Moran e ce n’è un altro a Ankor Dail. Ma di rado alle Aes Sedai piace ciò che non capiscono; e uno col suo talento... Il Potere non c’entra, però. Uff! Spiegagli tu, Hurin.»

«Sì, lord Ingtar» disse l’uomo. Senza smontare di sella, s’inchinò profondamente a Rand. «Onorato di servirti, milord.»

«Mi chiamo Rand» replicò questi. Tese la mano e dopo un istante Hurin sorrise e la strinse.

«Come vuoi, milord Rand. Lord Ingtar e lord Kajin non badano alle formalità... e anche lord Agelmar, naturalmente; ma in città si dice che sei un principe forestiero delle terre meridionali e alcuni signori meridionali esigono che ognuno stia al proprio posto.»

«Non sono un lord. Solo Rand.»

Hurin batté le palpebre. «Come vuoi, milo... ah... Rand. Sono un annusatore, sai. Da quattro anni, fra qualche mese. Prima d’allora, non sapevo neppure che esistesse gente come me; ma ora so che ce ne sono altri. È cominciato un po’ alla volta: sentivo cattivi odori senza che nessun altro li sentisse. Ho impiegato un anno intero, prima di capire. Sento a fiuto la violenza, le uccisioni, i ferimenti. Fiuto dove si sono verificati. Fiuto la pista lasciata dai responsabili. Ogni pista ha un odore diverso, quindi non si mischiano. Lord Ingtar ha sentito parlare di me e mi ha assunto per servire la giustizia del re.»

«Fiuti la violenza?» disse Rand. Non riuscì a trattenersi e guardò il naso di Hurin: era un naso ordinario, né grosso né piccolo. «Riesci davvero a seguire le tracce di uno che abbia ucciso un altro? A fiuto?»

«Certo, milo... ah... Rand. Col tempo la pista si affievolisce, ma più grave è stata la violenza, più la traccia dura. Oh, sì, fiuto un campo di battaglia vecchio di dieci anni, anche se le tracce degli uomini che vi si scontrarono sono ormai svanite. Vicino alla Macchia, le piste dei Trolloc sono quasi incancellabili: non tanto dei Trolloc, quanto delle uccisioni e dei ferimenti. L’odore di una rissa di taverna, però, dove al massimo c’è un braccio rotto, dura solo qualche ora.»

«Non capisco perché non vuoi che le Aes Sedai lo sappiano.»

«Ah, lord Ingtar ha ragione, sulle Aes Sedai, la Luce le illumini... ah... Rand. Ce n’era una a Cairhien, una volta... dell’Ajah Marrone; ma giuro che mi pareva della Rossa, prima che mi lasciasse andare... Mi tenne un mese, nel tentativo di scoprire come facevo. Non le piaceva l’ignoranza. Continuava a borbottare: “È il ritorno di un antico Talento o si tratta di una novità?" E mi fissava come se usassi davvero l’Unico Potere. Sono arrivato quasi a dubitare di me stesso. Ma non sono impazzito e non faccio niente. Sento solo l’odore.»

Rand ricordò le parole di Moiraine. «Antiche barriere s’indeboliscono. Nel nostro tempo c’è odore di rovina e di cambiamento. Antiche creature camminano di nuovo e ne nascono di nuove. Forse vedremo la fine di un’Epoca.» Rabbrividì. «Così, grazie al tuo naso, seguiremo la pista di quelli che hanno preso il Corno» disse.

Ingtar annuì. Hurin sogghignò, orgoglioso. «Certo... ah... Rand. Una volta ho seguito un assassino fino a Cairhien e un altro fino a Maradon, per riportarli alla giustizia del re.» Perdette il sorriso e parve preoccupato. «Questo è peggio, però. L’omicidio ha un odore orribile e la pista dell’omicida puzza, ma questo...» Arricciò il naso. «C’erano uomini, l’altra notte. Amici delle Tenebre, di sicuro, ma a fiuto non si distinguono. Noi seguiremo i Trolloc e i Mezzi Uomini. E anche di peggio...» Lasciò morire la frase, corrugò la fronte e continuò a borbottare. Rand riuscì a udire le ultime parole: «Anche di peggio, la Luce m’aiuti.»

Arrivarono alle porte della città. Appena dopo le mura, Hurin sollevò il viso alla brezza, dilatò le narici e sbuffò, disgustato. «Da questa parte, milord Ingtar.» Indicò il meridione.

Ingtar parve sorpreso. «Non verso la Macchia?»

«No, lord Ingtar. Puah!» Si puh la bocca contro la manica. «Ne sento quasi il sapore. Sono andati a meridione.»

«Allora aveva ragione l’Amyrlin Seat» disse lentamente Ingtar. «Una donna grande e saggia, che merita servitori migliori di me. Segui la pista, Hurin.»

Rand si girò a guardare la via fino alla rocca. Si augurò che Egwene stesse bene. Nynaeve avrebbe badato a lei, si disse. Forse era meglio così: un taglio netto, troppo rapido per far male sul momento.

Cavalcò, dietro Ingtar e la bandiera del Gufo Grigio, verso meridione. Il vento aumentò di forza, gelido contro la schiena nonostante il sole. Gli parve di udire, portata dal vento, una risata, fievole e beffarda.

La luna crescente illuminò le vie di Illian, umide e buie, ancora rumorose per le celebrazioni della giornata. Fra qualche giorno sarebbe iniziata la Grande Cerca del Corno, con lo sfarzo e le cerimonie che secondo la tradizione datavano dall’Epoca Leggendaria. Le feste per i Cercatori si erano combinate con la Festa di Teven, famosa per le gare di menestrelli e per i premi ai vincitori. Il premio più alto, come sempre, sarebbe toccato alla migliore narrazione della Grande Cerca del Corno.

Quella notte i menestrelli erano all’opera nei palazzi e nelle dimore signorili della città, dove i grandi e i potenti si divertivano; e i Cercatori giungevano da ogni paese per trovare, se non il Corno stesso, almeno l’immortalità dei poemi e della storia. Ci sarebbero stati musiche e balli, ventagli e ghiaccio per disperdere il primo vero caldo della stagione; ma i festeggiamenti riempivano anche le vie, nella notte afosa illuminata dalla luna. Fino all’inizio della Cerca, ogni giorno e ogni notte c’erano festeggiamenti.

Uomini e donne in maschere e costumi bizzarri e fantasiosi, con grande esposizione di pelle nuda, oltrepassavano Bayle Domon; correvano gridando e cantando, in piccoli gruppi, si scambiavano compagno ridacchiando scioccamente e stringendosi l’uno all’altro, formavano gruppi più numerosi. Fuochi d’artificio accendevano la notte: esplosioni d’oro e d’argento contro il nero del cielo. In città gli Illuminatori erano numerosi almeno quanto i menestrelli.

Domon non pensava ai fuochi d’artificio, né alla Cerca. Si recava a un incontro con uomini che forse avrebbero tentato d’ucciderlo.

Attraversò il Ponte dei Fiori, sopra uno dei numerosi canali della città, ed entrò nel Quartiere Odoroso, il distretto portuale di Illian. Il canale puzzava del contenuto di troppi vasi da notte e non c’era il minimo segno che ci fosse mai stato un fiore, nei pressi del ponte. Il quartiere odorava di canapa e di pece dei cantieri navali e dell’acre fanghiglia del porto: puzzo reso più intenso dall’aria calda che pareva tanto umida da colare. Domon respirava a fatica; era nato a Illian, ma a ogni ritorno dalle terre settentrionali rimaneva sorpreso dal caldo d’inizio estate.

In una mano stringeva un robusto randello e teneva l’altra sull’elsa della corta spada, spesso usata per difendere dai briganti le murate del suo mercantile fluviale. Non pochi malfattori si aggiravano in quelle notti di baldoria, quando il bottino era ricco e gran parte della gente era sbronza.

Eppure Domon era muscoloso e largo di spalle; inoltre, nessuno a caccia di preda, vista la giubba di taglio modesto, l’avrebbe ritenuto tanto ricco da metterne alla prova robustezza e randello. I pochi che lo videro chiaramente, mentre passava nella luce d’una finestra, si ritrassero, finché non fu passato. Capelli neri lunghi alla spalla e una fitta barba che lasciava scoperto il labbro superiore inquadravano un viso rotondo, ma un viso che non era mai stato morbido e ora aveva un’espressione torva, come se Domon intendesse farsi strada sfondando un muro. Non era molto contento dell’incontro in programma.

Altra gente festante lo oltrepassò stonando canzoni e storpiando le parole, come fanno gli ubriachi. “Il Corno di Valere, mia nonna!" pensò, cupo, Domon. “Mi ci gioco la nave. E la vita."

Entrò in una locanda con l’insegna di un grosso tasso a strisce che, ritto sulle zampe posteriori, ballava con un uomo che reggeva una pala d’argento. Il Tasso Alleggerito, si chiamava la locanda; ma neppure Nieda Sidoro, la proprietaria, sapeva il significato del nome: c’era sempre stata una locanda con quel nome, a Illian.

La sala comune, col pavimento cosparso di segatura e un musicante che strimpellava su di una tarabusa a dodici corde una malinconica canzone del Popolo del Mare, era ben illuminata e tranquilla. Nieda non voleva confusione nel locale e suo nipote, Bili, era grande e grosso quanto bastava a portare fuori di peso un cliente servendosi di una mano sola. Marinai, scaricatori di porto e commercianti all’ingrosso venivano al Tasso per una bevuta, quattro chiacchiere, una partita a sassolini o a freccette. Al momento la sala era mezzo vuota; anche gli amanti della tranquillità erano stati attirati dalla festa. Gli avventori chiacchieravano a bassa voce, ma Damon colse allusioni alla Cerca e al falso Drago catturato dai murandiani e a quello cui i Taren davano la caccia nell’Haddon Mirk. Pareva che si discutesse se era meglio vedere la morte del falso Drago o dei taren.

"Falsi Draghi!" pensò Domon, con una smorfia. “Oggigiorno non c’è più un posto sicuro," Ma a lui non interessavano i falsi Draghi, non più della Cerca.

La robusta padrona della locanda, con i capelli raccolti a crocchia, in quel momento puliva un boccale e teneva d’occhio la sala. Non smise di pulire e non guardò dalla parte di Domon, ma abbassò la palpebra sinistra e spostò l’occhio in direzione di tre uomini seduti a un tavolo d’angolo. I tre erano silenziosi anche per un locale come il Tasso, quasi tetri; portavano berretto a campana, di velluto, e giubba scura, ricamata sul petto a bande color argento, scarlatto e oro, che risaltavano fra gli abiti normali degli altri avventori.

Domon sospirò e prese per sé un altro tavolo d’angolo. Gente del Cairhien, questa volta, si disse, Da una cameriera prese un boccale di birra scura e bevve una lunga sorsata. Quando abbassò il boccale, i tre uomini in giubba a strisce erano fermi davanti al suo tavolo. Con un gesto discreto Domon segnalò a Nieda che l’intervento di Bili non era necessario.

«Capitan Domon?» disse uno. Tutt’e tre avevano un’aria scialba, ma nella voce di quello che aveva fatto la domanda c’era qualcosa che indusse Domon a ritenerlo il capo. Non parevano armati: nonostante gli abiti eleganti, avevano l’aria di non ritenerlo necessario. C’erano occhi duri, in quei visi così ordinari. «Capitano Bayle Domon, della Spray? »

Domon annuì e i tre si sedettero senza aspettare l’invito. A parlare fu sempre lo stesso: gli altri due si limitarono a osservare. Guardie del corpo, nonostante gli abiti eleganti, pensò Domon. E si domandò perché all’uomo occorresse la protezione di un paio di guardie.

«Capitan Domon, abbiamo bisogno che una persona sia trasportata da Mayene a Illian.»

«La Spray è una barca fluviale» lo bloccò subito Domon. «Pesca poco e non ha chiglia per acque profonde.» Non era proprio esatto, ma per gente di terra questa spiegazione bastava. Almeno, pensò, era un approccio nuovo, rispetto a quello tentato a Tear: diventavano più furbi.

L’uomo parve non badare all’interruzione. «Abbiamo sentito dire che intendevi smettere il traffico fluviale.»

«Può anche darsi. Non ho ancora deciso.» Invece, aveva già deciso. Non avrebbe risalito il fiume su fino alle Marche di Confine neppure per tutte le sete spedite nelle navi da carico del Taren. Non valeva la pena rischiare la pelle per pellicce della Saldaea e pepe dei ghiacci; e la decisione non era legata al falso Drago di cui aveva sentito parlare lassù. Però si domandò di nuovo come mai qualcuno sapesse. Non ne aveva parlato a nessuno, eppure anche gli altri sapevano.

«Puoi costeggiare abbastanza facilmente fino a Mayene. Certo, capitano, sarai disposto a bordeggiare lungo costa, per mille marchi d’oro.»

Nonostante tutto, Domon strabuzzò gli occhi. L’offerta era quattro volte più alta dell’ultima e già quella era tale da lasciare a bocca aperta. «Cosa vuoi che trasporti, per questa somma? La sovrana stessa di Mayene? Tear finalmente l’ha costretta ad andarsene?»

«Non occorre che tu sappia il nome, capitano.» L’uomo posò sul tavolo una grossa borsa e una pergamena sigillata. La borsa tintinnò, quando la spinse verso Damon, insieme con la pergamena. Il grosso sigillo di cera rossa, che chiudeva la pergamena piegata, aveva l’emblema del Cairhien, il multiraggiato Sole Nascente. «Duecento in anticipo. Per mille marchi puoi fare a meno di nomi. Consegna questa pergamena, col sigillo intatto, al Capitano di Porto di Mayene: riceverai altri trecento marchi e il passeggero. Ti darò il saldo alla consegna del passeggero, qui. Purché tu non abbia tentato di scoprirne l’identità.»

Domon trasse un respiro profondo: valeva la pena fare il viaggio anche senza un altro centesimo oltre il contenuto della borsa. E mille marchi erano una somma superiore a quella che avrebbe guadagnato in due anni o anche più. Se avesse sondato un poco, sospettò, avrebbe trovato indizi, solo indizi, che il viaggio coinvolgeva accordi segreti fra il Consiglio dei Nove illiano e la sovrana di Mayene. Quella città stato, solo nominalmente provincia di Tear, senza dubbio avrebbe apprezzato l’aiuto di Illian. E a Illian erano in molti a dire che i tempi erano maturi per un’altra guerra, che Tear prendeva più della giusta parte nel commercio sul Mare delle Tempeste. Una rete credibile per allettarlo, si disse Domon; ma ne aveva già viste tre simili, nell’ultimo mese.

Allungò la mano per prendere la borsa e l’uomo che aveva sostenuto tutta la conversazione gli afferrò il polso. Domon lo fissò con astio, ma lui gli restituì lo sguardo, impassibile.

«Devi partire al più presto, capitano.»

«Alla prima luce» borbottò Domon; l’altro annuì e gli lasciò il polso.

«Alla prima luce, allora, capitano Domon. Ricorda, la discrezione permette di vivere per spendere il denaro.»

Domon guardò i tre uomini andare via; fissò acidamente la borsa e la pergamena rimaste sul tavolo. Qualcuno voleva che andasse a levante. Tear o Mayene, poco importava, purché andasse a levante. E lui credeva di sapere chi fosse questo qualcuno. Ma non aveva indizi. Impossibile distinguere gli Amici delle Tenebre. Però lui sapeva che Amici delle Tenebre gli erano stati alle calcagna, ancora prima della partenza da Marabon per discendere il fiume. Amici delle Tenebre e Trolloc. Di questo era sicuro. La vera domanda, quella per cui non aveva nemmeno un briciolo di risposta, era un’altra: perché?

«Guai, Bayle?» domandò Nieda. «Hai l’aria di chi ha visto un Trolloc.» Mandò una risatina chioccia, sorprendente per una donna della sua mole. Come molte persone mai state nelle Marche di Confine, Nieda non credeva che i Trolloc esistessero. Domon aveva tentato di convincerla; lei apprezzava le sue storie e pensava che fossero tutte invenzioni. Non credeva neppure alla neve.

«Niente guai, Nieda» rispose Domon. Aprì i cordoni della borsa, senza guardare pescò una moneta e la lanciò alla donna. «Da bere per tutti. Se non basta, te ne darò un’altra.»

Nieda guardò la moneta, sorpresa. «Un marco di Tar Valon!» esclamò. «Ti sei messo a commerciare con le streghe, Bayle?»

«No» rispose lui, con voce rauca. «Questo, mai!»

Nieda saggiò con i denti la moneta e si affrettò a riporla nella cintura. «Be’, non si sa mai. Comunque, forse le streghe non sono così cattive come alcuni le descrivono. Al contrario di parecchi uomini. Conosco un cambiamonete che accetterà il marco. Non dovrai darmene un secondo, visti i pochi clienti di stasera. Vuoi un altro boccale di birra, Bayle?»

Domon annuì, cupo, anche se non aveva ancora terminato la prima birra, e Nieda si allontanò. Era un’amica, non avrebbe parlato di quel che aveva visto. Lui rimase a fissare la borsa di pelle. Gli portarono un altro boccale, prima che si facesse forza, aprisse la borsa e guardasse le monete. Le smosse col dito. Marchi d’oro scintillarono alla luce dei lumi e ciascuno aveva la maledetta Fiamma di Tar Valon. Domon legò in fretta la borsa. Monete pericolose. Un paio poteva passare, ma tante avrebbero detto a molti proprio quel che aveva pensato Nieda. In città c’erano Figli della Luce; a Illian nessuna legge proibiva i commerci con le Aes Sedai, ma lui non sarebbe mai arrivato davanti ai magistrati, se i Manti Bianchi avessero saputo che aveva tutti quei marchi. I tre si erano garantiti che non avrebbe preso semplicemente il denaro e se ne sarebbe restato a Illian.

Mentre sedeva lì a preoccuparsi, Yarin Maeldan, il suo secondo sulla Spray, entrò nella locanda e si fermò al tavolo di Domon. «Carn è morto, capitano» disse.

Domon lo fissò, corrucciato. Già tre dei suoi uomini erano stati uccisi, uno ogni volta che rifiutava un incarico che l’avrebbe mandato a levante. I magistrati non avevano fatto niente; le vie erano pericolose di notte, dicevano, e i marinai sono gente dura e attaccabrighe. Di rado i magistrati si preoccupavano di quel che accadeva nel Quartiere Odoroso, se non rimanevano feriti cittadini rispettabili.

«Stavolta ho accettato» borbottò Damon.

«Non è tutto, capitano» proseguì Yarin. «L’hanno lavorato di coltello, povero Carn, come per costringerlo a rivelare qualcosa. E neanche un’ora fa, altri hanno tentato di salire di nascosto a bordo della Spray. La ronda del molo li ha messi in fuga. Tre volte in dieci giorni: non sapevo che i topi dei moli fossero così insistenti. In genere, prima di riprovarci lasciano calmare le acque. E la notte scorsa hanno messo a soqquadro la mia stanza al Delfino d’Argento. Hanno preso qualche moneta per far credere che si trattava di ladri, ma non hanno toccato la fibbia della cintura, quella con incastonati granati e lunarie, che pure era in piena vista. Cosa succede, capitano? Gli uomini hanno paura e anch’io sono un po’ nervoso.»

Domon si alzò. «Raduna l’equipaggio, Yarin. Trova ogni uomo e digli che la Spray salpa appena ci saranno a bordo braccia sufficienti a manovrarla.» Infilò nella tasca della giacca la pergamena. Prese la borsa d’oro e spinse fuori della porta il suo secondo. «Radunali, Yarin, perché lascerò a terra chiunque non sia presente.»

Gli diede una spinta per farlo correre, poi si diresse ai moli. Anche se udirono il tintinnio della borsa, i briganti si tennero alla larga, perché camminava con il passo deciso di chi va a uccidere.

Quando giunse alla Spray, c’erano già uomini che salivano a bordo; altri arrivavano di corsa, scalzi, lungo il molo. Non badavano ai timori del capitano, o li ignoravano, ma sapevano che Domon faceva buoni affari e che, alla maniera illiana, distribuiva all’equipaggio una parte dei guadagni.

La Spray, lunga ottanta piedi, aveva due alberi maestri e spazio per il carico sia sul ponte sia nella stiva. Anche se ai tre cairhienesi (se erano davvero tali) aveva detto il contrario, Domon la riteneva in grado di navigare in acque aperte. Il Mare delle Tempeste era calmo, d’estate.

«Deve farcela» borbottò tra sé; e scese di sotto, nella sua cabina.

Gettò sul letto, imbullonato allo scafo come il resto dell’austero arredamento, il sacchetto di monete d’oro e prese la pergamena, Accese una lanterna, l’appese al gancio ed esaminò il documento sigillato, rigirandolo come per leggerlo senza aprirlo. Bussarono alla porta.

«Entra» disse, accigliato.

Yarin sporse la testa. «Sono tutti a bordo, capitano, tranne tre che non ho trovato. Ma ho sparso la voce in ogni taverna e in ogni bordello del quartiere. Saranno a bordo prima che ci sia luce sufficiente a risalire il fiume.»

«La Spray salpa subito» rispose Domon. «In mare» soggiunse. Tagliò corto alle proteste di Yarin sulla luce e la marea e sul fatto che la Spray non era costruita per il mare aperto. «Subito! La Spray può superare le secche della bassa marea. E tu non hai dimenticato come si naviga basandosi sulle stelle, no? Portala fuori, Yarin. Portala fuori subito e torna ad avvisarmi appena abbiamo superato il frangimare.»

Il secondo esitò un momento, poi annuì e scomparve. Domon non lasciava mai che si affrontasse un tratto di navigazione mediamente pericoloso senza stare sul ponte a dare ordini; e portare fuori la Spray di notte non sarebbe stato privo di rischi, nonostante il suo basso pescaggio. Nel giro di qualche istante nella cabina di Domon giunsero le grida di Yarin e il rumore di piedi scalzi sul ponte. Il capitano non vi badò, anche quando sentì la nave sbandare nel prendere la marea.

Alla fine si decise: alzò la reticella metallica della lanterna e scaldò alla fiamma la punta d’un coltello. Riccioli di fumo si levarono dalla lama, ma Domon non lasciò che il metallo s’arroventasse: si servì del coltello caldo per staccare piano piano il sigillo di cera. Sollevò il foglio di chiusura della pergamena.

Il documento era semplice, senza preamboli né saluti, ma lo fece sudare.

Il latore della presente è un Amico delle Tenebre ricercato nel Cairhien per omicidio e altri crimini, fra i quali furto nei confronti della Nostra Persona. Ti chiediamo d’imprigionare quest’uomo e di prendergli tutto ciò che ha in possesso, fino alla minima cosa. Un nostro rappresentante verrà a portare via quel che lui Ci ha rubato. Tutto quel che possiede, salvo quello da Noi reclamato, vada a te come ricompensa per la cattura. Il malefico miscredente stesso sia impiccato immediatamente, in modo che la sua malignità generata dall’Ombra non contamini più la Luce.

sigillato per Nostra Mano

Galldrian su Riatin Rie

Re del Cairhien

Difensore del Muro del Drago

Sotto la firma, un velo sottile di cera rossa portava l’impronta del Sole Nascente del Cairhien e le Cinque Stelle di Casa Riatin.

«Difensore del Muro del Drago, mia nonna» gracchiò Domon. «Ha proprio una bella faccia a farsi chiamare ancora in questo modo.»

Esaminò attentamente sigillo e firma, tenendo il documento a breve distanza dalla lanterna, ma non riuscì a trovare difetti nel sigillo; d’altro canto, non aveva mai visto la calligrafia di Galldrian. Se a firmare non era stato il re in persona, il falsario aveva di sicuro eseguito una buona imitazione. In ogni caso, non faceva molta differenza. A Tear, la lettera sarebbe valsa la condanna immediata, in mano a un illiano. O anche a Mayene, vista la forte influenza dei taren. Al momento non c’era guerra e la gente andava e veniva liberamente dai due porti, ma c’era ben poca simpatia fra Illian e Tear. Soprattutto con una scusa del genere.

Per un momento pensò di bruciare la pergamena — era pericoloso possederla, a Tear, a Illian o altrove — ma alla fine la ripose in un nascondiglio dietro il tavolo: un pannello che solo lui sapeva come aprire.

«Le cose che possiedo, eh?» brontolò.

Raccoglieva oggetti antichi, per quanto gli era possibile, vivendo su di una barca. Quelli che non poteva comprare, perché troppo cari o troppo ingombranti, li raccoglieva guardandoli e ricordandoli. Tutti i resti del tempo passato, le meraviglie sparse per il mondo che l’avevano spinto, da ragazzo, a imbarcarsi. Nel Maradon, durante l’ultimo viaggio, aveva fatto quattro aggiunte alla collezione e proprio da quel momento gli Amici delle Tenebre si erano messi a inseguirlo. E anche i Trolloc, per un poco. Aveva sentito dire che Whitebridge era stata bruciata e rasa al suolo, proprio dopo la sua partenza da lì; e si parlava dell’intervento di un Myrddraal, oltre che dei Trolloc. Quest’ultimo particolare l’aveva convinto di non soffrire di fissazioni e l’aveva messo in guardia, quando gli avevano offerto il primo incarico bizzarro: troppo denaro per un semplice viaggio a Tear, con un motivo che non stava in piedi.

Dal baule prese gli oggetti comprati nel Maradon e li dispose sul tavolo. Un bastone luminoso, resto dell’Epoca Leggendaria, o così si diceva. Certo, nessuno sapeva più fabbricarli. Carissimo, e più raro d’un magistrato onesto. Aveva l’aspetto d’una semplice verga di vetro, più spessa del suo pollice e lunga meno dell’avambraccio, ma che, tenuta in mano, mandava un bagliore vivido come quello d’una lanterna. I bastoni luminosi si rompevano come vetro, però; aveva rischiato di perdere la Spray, nell’incendio provocato dalla rottura del primo che aveva posseduto. Una statuetta d’avorio scurito dal tempo, a forma d’uomo con in pugno la spada. Il tipo che gliel’aveva venduta sosteneva che, se la si teneva in mano a lungo, si sentiva caldo. Domon non aveva mai provato: la statuetta era antica e questo bastava. Il cranio di un gatto grosso quanto un leone e così antico da essersi mutato in pietra. Ma nessun leone aveva mai avuto zanne lunghe un piede. E uno spesso disco grosso quanto una mano, metà bianco e metà nero, con i colori separati da una linea sinuosa. Il bottegaio di Maradon aveva detto che risaliva all’Epoca Leggendaria pensando di mentire; ma Domon aveva contrattato solo un poco, prima di pagare, perché sapeva che cos’era: l’antico simbolo Aes Sedai, del tempo precedente la Frattura del Mondo. Non un oggetto sicuro da possedere, a dire il vero, ma nemmeno da lasciar perdere, per un appassionato di cose antiche.

Ed era autentica Pietra dell’Anima. Il bottegaio non aveva osato aggiungere anche questa, a quelle che riteneva menzogne: nessun commerciante del fronte del porto di Maradon si poteva permettere anche solo un pezzetto di prezioso cuendillar.

Il disco pareva duro e liscio al tatto, e privo di valore, se non per l’antichità, ma Domon temeva che i suoi inseguitori cercassero proprio quello. Bastoni luminosi, statuette d’avorio, perfino ossa pietrificate, erano tutta roba già vista altre volte, in altri luoghi. Però non sapeva perché lo volessero e ora aveva seri dubbi sulla natura dei suoi inseguitori. Marchi di Tar Valon e un antico simbolo Aes Sedai. Sulla lingua aveva il gusto amaro della paura.

Un colpo alla porta. Domon posò il disco e con una carta nautica coprì gli oggetti sul tavolo. «Entra.»

Era Yarin. «Abbiamo passato il frangimare, capitano.»

Domon provò un attimo di sorpresa e di rabbia verso se stesso. Non avrebbe dovuto farsi prendere da quegli oggetti al punto da non sentire la Spray alzarsi sulle onde. «Rotta a ponente, Yarin. Provvedi.»

«Ebou Dar, capitano?»

Non era abbastanza lontano. «Ci fermeremo il tempo sufficiente a trovare delle carte e riempire i barili d’acqua, poi faremo vela verso ponente.»

«Ponente, capitano? Tremalking? Il Popolo del Mare non vede di buon occhio i mercanti forestieri.»

«L’oceano Aryth, Yarin. C’è commercio in abbondanza fra il Tarabon e l’Arad Doman. E poche navi da carico taraboniane e domanesi di cui preoccuparci. Non amano il mare, a quanto ho sentito. E tutte le cittadine di Capo Toman, piccole ma indipendenti. Possiamo anche acquistare pellicce della Saldaea e pepe dei ghiacci, portati giù a Bandar Eban.»

Yarin scosse la testa. Vedeva sempre il lato brutto delle cose, ma era un buon marinaio. «Pellicce e pepe avranno un prezzo più alto, capitano. E corre voce che ci sia una sorta di guerra. Se il Tarabon e l’Arad Doman sono in guerra, forse non ci sarà commercio. Non credo che faremo grossi guadagni dalle sole città di Capo Toman, anche se sono sicure. Falme, la più vasta, è una cittadina.»

«Taraboniani e domanesi hanno sempre litigato per la Piana di Almoth e per Capo Toman. Anche se stavolta sono passati alle vie di fatto, una persona accorta riesce sempre a commerciare. A ponente, Yarin.»

Quando il secondo risalì sul ponte, Domon si affrettò a mettere nel nascondiglio il disco bianco e nero e a riporre in fondo al baule gli altri oggetti. Amici delle Tenebre o Aes Sedai, non avrebbe preso la direzione che volevano imporgli. Nient’affatto.

Sentendosi al sicuro per la prima volta in molti mesi, Domon salì sul ponte, mentre la Spray s’ingavonava per prendere il vento e virava a ponente nel mare nero per la notte.

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