42 Falme

Nynaeve sospinse Elayne di nuovo nello stretto vicolo fra la bottega d’un mercante stoffe e quella d’un vasaio: nella via acciottolata passavano due donne unite da un guinzaglio argenteo, dirette giù al porto di Falme. Nynaeve non osava lasciare che la coppia s’avvicinasse troppo a loro. La gente nella via dava spazio alle due donne più in fretta di quanto non facesse per i soldati Seanchan o per l’occasionale portantina d’un nobile, dalle tendine ben chiuse, vista la temperatura gelida. Perfino gli artisti di strada non si offrivano di fare loro il ritratto, a gessetto o a matita, anche se infastidivano chiunque altro. A labbra serrate, Nynaeve seguì con gli occhi tra la folla la sul’dam e la damane. Anche dopo alcune settimane trascorse nella cittadina, si sentiva nauseata solo a vederle. Non concepiva l’idea d’incatenare a quel modo una qualsiasi donna, neppure Moiraine o Liandrin.

Be’, Liandrin forse sì, ammise amaramente tra sé. A volte, di notte, nella stanzetta puzzolente presa in affitto e posta sopra la bottega d’un pescivendolo, pensava a quel che le sarebbe piaciuto fare a Liandrin, quando l’avesse avuta fra le mani. Liandrin, anche più di Suroth. Più d’una volta, pur deliziata per l’inventiva, era rimasta sorpresa per la propria crudeltà.

Cercando sempre di tenere d’occhio le due donne, notò per caso un uomo ossuto, in fondo alla via, prima che il movimento della folla tornasse a nasconderlo. Scorse solo fuggevolmente un grosso naso in un viso stretto.

L’uomo indossava un’elegante sopravveste di velluto color bronzo, di taglio Seanchan, ma lei ritenne che non fosse un Seanchan, anche se lo era il valletto che lo seguiva, un valletto d’alto livello, con il cranio rapato da una parte sola. Le gente del posto non aveva copiato la moda Seanchan, quest’ultima in particolare. L’uomo sembrava Padan Fain, pensò Nynaeve, incredula; ma era impossibile che Fain si trovasse lì.

«Nynaeve» disse sottovoce Elayne «ora possiamo muoverci? Quel tipo che vende mele guarda il banchetto con l’aria di chi è convinto che gliene manchi qualcuna e non voglio che si domandi cosa ho in tasca io.»

Indossavano tutt’e due lunghi soprabiti di pelle di pecora, col vello all’interno, e spirali rosso vivo ricamate sul petto. Era un abbigliamento da contadine, ma passava abbastanza inosservato anche a Falme, dove si era rifugiata parecchia gente delle fattorie e dei villaggi. Fra tanti forestieri, anche loro erano riuscite a non farsi notare. Nynaeve si era sciolta la treccia e aveva nascosto l’anello d’oro a forma di serpente che si morde la coda; lo teneva sotto la veste, accanto al pesante anello di Lan, appeso a una cordicella di pelle.

Le ampie tasche del soprabito di Elayne avevano un rigonfiamento sospetto.

«Hai rubato tu quelle mele?» sibilò Nynaeve, sottovoce, tirando Elayne nella via affollata. «Non abbiamo bisogno di rubare. Ancora per un poco, almeno.»

«No? Quanto denaro ci resta? Negli ultimi giorni, molto spesso ‘non avevi fame’, a pranzo e a cena.»

«Be’, non ho fame» rispose Nynaeve, brusca, cercando d’ignorare il languorino alla bocca dello stomaco. Tutto costava più di quanto non s’aspettasse e la gente del posto si lamentava dell’aumento dei prezzi in seguito all’arrivo dei Seanchan. «Dammene una» disse Nynaeve. Elayne pescò dalla tasca una mela piccola e dura, ma dolcissima. Nynaeve si leccò le labbra. «Come sei riuscita a...» Bloccò di colpo Elayne e la guardò negli occhi. «Hai... Hai...» Non riusciva a trovare il modo di spiegarsi, con tanta gente che passava accanto a loro, ma Elayne capì.

«Un pochino. Ho fatto cadere la pila di meloni troppo maturi è quando lui era occupato a rimetterli a posto...» Non ebbe neppure il buon gusto, agli occhi di Nynaeve, d’arrossire o di fingersi imbarazzata. Continuò a mangiare con noncuranza una mela e si strinse nelle spalle. «Non c’è bisogno di farmi gli occhiacci. Ho guardato attentamente che nelle vicinanze non ci fossero damane.» Tirò su col naso. «Se fossi in prigione, non aiuterei chi mi ha imprigionato a trovare altre donne da rendere schiave. Anche se, dal modo come si comportano, si direbbe che questi falmesi siano da tutta una vita i servi di coloro che dovrebbero essere i loro nemici fino alla morte.» Guardò, con aperto disprezzo, la gente che passava di fretta: era possibile seguire il percorso di ogni Seanchan, anche se normalissimo soldato, dalle increspature degli inchini. «Dovrebbero opporre resistenza. Dovrebbero ribellarsi.»

«Come? Contro... quello.»

Furono costrette ad accostarsi al ciglio, come tutti gli altri, perché dalla direzione del porto arrivava una pattuglia Seanchan. Nynaeve riuscì a inchinarsi, mani sulle ginocchia, viso perfettamente sereno; Elayne fu più lenta e s’inchinò piegando le labbra in una smorfia di disgusto.

La pattuglia comprendeva venti fra uomini e donne, in armatura e a cavallo. Nynaeve fu lieta di quest’ultimo particolare, perché ancora non si era abituata a vedere persone in groppa a creature che avevano l’aspetto di grossi gatti privi di coda e coperti di scaglie; inoltre, quelle in groppa alle creature volanti, poche per fortuna, le davano sempre un senso di vertigine. Tuttavia a fianco della pattuglia trotterellavano due creature al guinzaglio, simili a uccelli senza ali, con pelle ruvida e coriacea, becco aguzzo, più alte dei soldati; le loro zampe, lunghe e muscolose, lasciavano pensare che corressero più velocemente dei cavalli.

Passati i Seanchan, Nynaeve si raddrizzò lentamente. Alcuni di quelli che si erano inchinati alla pattuglia parevano sul punto di mettersi a correre. Nessuno era a proprio agio, se vedeva gli animali dei Seanchan, a parte i Seanchan stessi.

«Elayne» disse piano Nynaeve, mentre riprendevano la salita. «Se ci prendono, ti giuro che, prima che ci uccidano o ci incatenino, li supplicherò in ginocchio di lasciare che ti riempia di segni dalla testa ai piedi, con lo scudiscio più resistente che trovo! Se ancora non hai imparato la prudenza, forse sarà meglio rimandarti a Tar Valon, o a casa tua, a Caemlyn, o da qualsiasi altra parte, tranne qui.»

«Sono prudente! Ho guardato che in giro non ci fossero damane. Ma tu? Hai usato il Potere, con una di loro in piena vista.»

«Mi sono assicurata che non guardasse dalla mia parte» brontolò Nynaeve. «E l’ho fatto solo una volta. Era un semplice rivolo.»

«Un rivolo? Abbiamo passato tre giorni, nascoste nella nostra stanza a respirare puzza di pesce, mentre loro frugavano la città alla ricerca della colpevole. E lo chiami fare attenzione?»

«Dovevo sapere se esiste un modo per aprire quei collari» replicò Nynaeve. Era convinta che il modo esistesse. Doveva fare la prova ancora su almeno un collare, prima d’esserne sicura, ma non credeva che avrebbe avuto l’occasione. Aveva pensato, come Elayne, che tutte le damane fossero prigioniere ansiose di fuggire; invece era stata proprio la donna col collare a far scoppiare il putiferio.

Un uomo con una carriola che sobbalzava sui ciottoli passò accanto a loro offrendo a gran voce i suoi servigi per affilare forbici e coltelli.

«Dovrebbero opporre resistenza» brontolò Elayne. «Si comportano come se non vedessero nemmeno cosa accade intorno a loro, se c’è di mezzo un Seanchan.»

Nynaeve si limitò a sospirare. Non serviva a niente pensare che Elayne avesse almeno in parte ragione. Sulle prime aveva creduto che la sottomissione dei falmesi fosse una posa, ma non aveva scoperto prove d’un eventuale movimento di resistenza. All’inizio aveva tenuto gli occhi aperti, con la speranza di trovare aiuto per liberare Egwene e Min, ma tutti si spaventavano al minimo accenno che ci si potesse ribellare ai Seanchan e lei smise di fare domande, prima d’attirare l’attenzione della gente sbagliata. A essere sincera, non riusciva a immaginare come il popolo potesse combattere. Creature mostruose e Aes Sedai: begli avversari davvero!

Più avanti c’erano cinque alte case di pietra, fra le più spaziose della città, che insieme formavano un isolato. Una via prima di queste case Nynaeve trovò un vicolo accanto a una bottega di sarto, da dove era possibile tenere d’occhio alcuni ingressi. Non si vedevano tutte le porte nello stesso tempo (e Nynaeve non voleva rischiare che Elayne andasse per proprio conto a guardare qualche ingresso in più) ma la prudenza raccomandava di tenersi a una certa distanza. Al di sopra dei tetti, nella via seguente, sventolava la bandiera col falco d’oro, quella del Sommo Signore Turak.

Solo donne entravano in quelle case o ne uscivano; quasi tutte erano sul’dam, da sole o con la damane a rimorchio. I Seanchan avevano occupato quegli edifici per ospitarvi le damane. Egwene era di sicuro lì dentro e probabilmente c’era anche Min, Fino a quel momento Nynaeve ed Elayne non avevano visto segno di Min, anche se c’era sempre la possibilità che, come loro, si nascondesse tra la folla. Nynaeve aveva udito che donne e ragazze, rapite per le vie o portate in città dai villaggi, finivano in quegli edifici; e, se ne uscivano, portavano tutte il collare.

Si mise a sedere su di una cassa di legno e infilò la mano nella tasca di Elayne per prendere alcune mele. In quelle vie c’erano meno falmesi. Tutti sapevano che cos’erano quelle case e le evitavano, così come evitavano le stalle dove i Seanchan tenevano i loro animali. Non era difficile tenere d’occhio le porte, fra un passante e l’altro; in quel modo non attiravano l’attenzione: erano soltanto due donne che mangiavano in pace un boccone, due donne che, come tante, non potevano permettersi di pranzare in una locanda.

Nynaeve provò ancora a fare un piano. Aprire il collare, ammesso che le riuscisse, non serviva, se non avesse trovato Egwene. Le mele non le parvero più dolci come prima.

Dalla stretta finestra della stanzetta sotto le gronde, una delle tante ricavate modificando i locali precedenti, Egwene vedeva il giardino dove le sul’dam portavano a spasso la propria damane. Un tempo, al posto di un solo giardino ce n’erano diversi, ma quando i Seanchan si erano presi le case, avevano abbattuto i muri di divisione. Gli alberi erano quasi spogli, ma le damane, lo volessero o meno, uscivano a prendere una boccata d’aria. Egwene guardava il giardino perché lì c’era Renna, occupata a parlare con un’altra sul’dam, e finché lei la teneva d’occhio, Renna non poteva rientrare a sorpresa.

Poteva entrare un’altra sul’dam (c’erano più sul’dam che damane e ogni sul’dam voleva il proprio turno nel portare un bracciale, per essere complete, come dicevano loro) ma Renna era responsabile del suo addestramento e quattro volte su cinque era lei a portare il suo bracciale. Chiunque poteva entrare nella stanzetta: non c’erano catenacci, nella porta delle stanze delle damane. La stanza di Egwene conteneva un letto, un lavabo con una brocca sbreccata e una bacinella, una sedia e un tavolino, ma non aveva spazio per altro. Le damane non avevano bisogno di comodità, riservatezza, proprietà personali: erano loro stesse proprietà personale. Min aveva una stanzetta simile, in un’altra casa, ma poteva andare e venire a piacere, o quasi. I Seanchan erano patiti delle regole: ne avevano, per tutti, più di quante la Torre Bianca non ne avesse per le novizie.

Egwene si teneva lontana dalla finestra: non voleva che una delle donne in basso alzasse lo sguardo e notasse l’alone che la circondava, mentre manipolava l’Unico Potere, sondava con delicatezza il proprio collare, cercava inutilmente; non aveva nemmeno capito se la banda era intessuta o fatta ad anelli, ma sembrava sempre tutta d’un pezzo. Usava solo un piccolissimo rivolo del Potere, la goccia più piccola che riuscisse a immaginare, eppure aveva la fronte imperlata di sudore e lo stomaco aggrovigliato. Questa era una delle proprietà del collare: se la damane manipolava il Potere senza essere legata a una sul’dam, era colta da nausea che aumentava con l’aumentare del Potere adoperato. Se Egwene avesse acceso una candela a un braccio di distanza, avrebbe vomitato. Una volta, su ordine di Renna, aveva giocato con le palline luminose, mentre il bracciale era sul tavolo: rabbrividiva ancora al ricordo.

In quel momento il guinzaglio argenteo pareva un serpente che risalisse lungo la parete di legno grezzo fino al piolo a cui era agganciato il bracciale. A quella vista, Egwene serrò con rabbia i denti: un cane incatenato con tanta trascuratezza sarebbe scappato. Ma se la damane spostava il proprio bracciale anche solo d’una spanna da dove l’aveva lasciato la sul’dam... Su ordine di Renna, Egwene aveva provato a spostarlo... a portarlo in giro per la stanza. Per meglio dire, aveva fatto il tentativo. E aveva urlato, in preda a crampi che la facevano torcere sul pavimento e le era sembrato che durassero delle ore.

Bussarono alla porta. Egwene sobbalzò, prima di rendersi conto che non poteva trattarsi d’una sul’dam: sarebbe entrata senza bussare. Si staccò da Saldar. Tanto, cominciava a sentire la nausea. «Min?» disse.

«Eccomi qui, per la visita settimanale» annunciò Min, con un tono allegro che suonava un po’ forzato; ma faceva sempre il possibile per sollevare il morale di Egwene. Entrò e chiuse la porta. «Ti piace?» Girò su se stessa per mettere in mostra l’abito di lana verde scuro, di taglio Seanchan. Sul braccio teneva un pesante mantello in tinta. Aveva perfino un nastro verde nei capelli, lunghi il minimo indispensabile per legarli. Alla cintura portava ancora il coltello: pareva che i Seanchan si fidassero di tutti, finché non infrangevano le regole.

«Grazioso» disse Egwene, «Come mai?»

«Non sono passata al nemico, se è questo che pensi. O mi adattavo, o trovavo un’altra sistemazione in città e forse non potevo più venire a farti visita.» Cercò di mettersi a cavalcioni sulla sedia, come quando portava le brache; scosse la testa e si sedette normalmente. «‘Ognuno ha un posto nel Disegno’» parodiò «‘e il posto di ciascuno dev’essere subito evidente.’ Quella vecchiaccia di Mulaen si è stufata di non sapere quale fosse il mio e ha deciso che facevo parte delle cameriere. Mi ha dato la scelta. Dovresti vedere gli abiti delle cameriere Seanchan al servizio dei nobili! Sarebbe divertente, se non fossi fidanzata, o meglio ancora, maritata. Be’, non si può tornare indietro. Mulaen mi ha bruciato giubba e brache.» Con una smorfia, tolse un ciottolo dal mucchietto sul tavolo e lo passò da una mano all’altra. «Non è poi così brutto» disse, con una risata. «Ma non portavo le sottane da tanto di quel tempo che continuo a inciampare.»

Anche Egwene aveva assistito alla distruzione dei propri abiti e ora indossava una veste grigio scuro, come tutte le damane. Una damane non possiede niente, le avevano spiegato: gli abiti, il cibo, il letto, erano tutti regali della sua sul’dam. Se la sul’dam decideva che la damane dormisse sul pavimento o nella stalla, bene, era una decisione che riguardava solo lei. Mulaen, responsabile degli alloggi delle damane, aveva una voce nasale e monotona, che diventava però secca e aspra, con le damane che non ricordavano ogni parola delle sue noiose lezioni.

«Non credo che per me ci sarà ritorno» disse Egwene, con un sospiro. Si lasciò cadere sul letto e indicò i ciottoli sul tavolo. «Renna mi ha fatto fare un esperimento, ieri. A occhi bendati, ho preso sempre il minerale di ferro e di rame, ogni volta che lei mischiava quei sassi. Li ha lasciati lì perché mi ricordi del successo. A quanto pare, lo considera una sorta di premio.»

«Non mi sembra peggio del resto... meno brutto di far esplodere gli oggetti come se fossero fuochi d’artificio. Non potevi mentire? Dire che non sapevi distinguerli?»

«Ancora non sai com’è la storia» disse Egwene, con uno strattone al collare: gli strattoni non avevano migliore risultato dei tentativi col Potere. «Quando Renna porta al polso il bracciale, sa che cosa faccio col Potere. A volte pare saperlo anche se non ha il bracciale. Col tempo, la sul’dam sviluppa un’affinità con la damane, dice lei.» Sospirò. «Nessuno aveva mai pensato di farmi fare questa prova. Terra è uno dei Cinque Poteri più forti negli uomini. Quando ho scelto quelle pietre, mi ha condotto fuori città e sono stata in grado d’indicare il punto esatto d’una miniera di ferro abbandonata. Era coperta di vegetazione e non si vedevano aperture, ma sentivo il minerale di ferro ancora nel terreno. Da cento anni non valeva più la pena estrarre il poco che c’era, ma io sapevo che era lì. Non potevo mentire con Renna, Min: ha capito subito che avevo percepito la miniera. Per l’entusiasmo mi ha promesso un dolce a cena.» Si sentì arrossire, di collera e d’imbarazzo. «A quanto pare» soggiunse con amarezza «sono troppo preziosa per essere sprecata a far esplodere oggetti. Ogni damane può farlo. Ma solo poche sanno trovare giacimenti di minerale. Luce santa, odio le esplosioni, ma vorrei saper fare solo questo.»

Divenne ancora più rossa. Odiava davvero far scoppiare gli alberi e far eruttare la terra: servivano per le battaglie, per le uccisioni, e non voleva esserci coinvolta. Tuttavia, così aveva la possibilità di toccare Saldar, di sentire in sé il flusso del Potere. Odiava gli esercizi che le imponevano Renna e altre sul’dam, ma sapeva di poter manipolare ora una maggiore quantità di Potere.

«Forse non dovrai più preoccupartene» disse Min, con un sorriso. «Ho trovato una nave. Il capitano è stato trattenuto qui dai Seanchan ed è quasi pronto a salpare, con o senza permesso.»

«Se ti prende a bordo, vai pure» disse stancamente Egwene. «Sono preziosa, adesso. Renna mi ha fatto sapere che fra alcuni giorni manderanno nel Seanchan una nave. Solo per portare me.»

Min perdette di colpo il sorriso e le due rimasero a fissarsi. All’improvviso Min tirò il ciottolo contro il mucchietto sul tavolo, sparpagliandolo. «Dev’esserci una via d’uscita» disse. «Dev’esserci un modo di toglierti dal collo quel maledetto affare!»

Egwene appoggiò la testa contro la parete. «I Seanchan hanno preso ogni donna in grado d’incanalare anche una sola goccia di Potere. Non solo a Falme, ma nei villaggi di pescatori e nei paesi di contadini. E donne tarabonesi e domanesi, passeggere di navi da loro bloccate. Fra di loro ci sono due Aes Sedai.»

«Aes Sedai!» esclamò Min. Per abitudine si guardò intorno per accertarsi che nessun Seanchan avesse udito. «Egwene, se qui ci sono delle Aes Sedai, possono aiutarci. Lascia che vada a parlare con loro e...»

«Non possono aiutare nemmeno se stesse. Ho parlato con una di loro, una certa Ryma. La sul’dam non la chiama così, ma Ryma è il suo nome: voleva essere sicura che lo sapessi e m’ha detto che ce n’è un’altra. Me l’ha detto fra le lacrime. Lei, un’Aes Sedai, piangeva! Ha un collare, deve rispondere al nome di Pura, non può fare niente più di me. L’hanno catturata quando Falme è caduta. Piangeva perché ormai smette di ribellarsi, perché non riesce più a sopportare le punizioni. Piangeva perché vuole uccidersi e non può fare nemmeno questo, senza permesso. Luce santa, so benissimo cosa prova!»

Min cambiò posizione, a disagio, e si lisciò la veste, con gesti a un tratto nervosi. «Egwene, non vorrai... non devi nemmeno pensare a ucciderti. Troverò il modo di farti uscire di qui. Te lo prometto!»

«Non mi ucciderò» replicò Egwene, asciutta. «Nemmeno se potessi. Dammi il coltello. Su, tanto non mi uccido. Dammelo.»

Min esitò, poi tolse lentamente dal fodero il coltello. Lo tese con cautela, pronta a intervenire se Egwene avesse fatto una mossa sospetta.

Egwene inspirò a fondo e allungò la mano. Un tremito le percorse i muscoli del braccio. Quando la mano fu a una spanna dal coltello, un crampo improvviso le contrasse le dita. Egwene cercò d’avvicinare la mano. Il crampo le afferrò tutto il braccio, le annodò i muscoli fino alla spalla. Con un gemito lei si lasciò andare, si massaggiò il braccio e concentrò il pensiero sul fatto che non avrebbe toccato il coltello. Piano piano il dolore diminuì.

Min la fissò, incredula. «Cosa... Non capisco.»

«Alle damane è proibito toccare armi di qualsiasi genere.» Continuò a massaggiarsi il braccio e sentì i muscoli sciogliersi. «La carne ce la danno già tagliata! Anche se volessi, non riuscirei mai a ferirmi. Non lasciano mai da sole le damane dove potrebbero gettarsi da una certa altezza... la finestra ha gli scuri inchiodati... o buttarsi in un fiume.»

«Be’, è un’ottima cosa. Cioè... Oh, non so più cosa dico.»

Egwene continuò come se Min non avesse parlato. «Mi addestrano, Min. Le sul’dam e l’a’dam mi addestrano. Non posso toccare niente che pensi d’usare come arma. L’altra settimana pensavo di rompere la brocca in testa a Renna: per tre giorni non ho potuto versare l’acqua per lavarmi. Non solo ho dovuto smettere di pensare di colpirla con la brocca, ma ho dovuto convincere me stessa che in nessuna circostanza l’avrei colpita, prima di poter toccare di nuovo la brocca. Renna ha capito cos’era accaduto, mi ha spiegato cosa dovevo fare e mi ha permesso di lavarmi solo se usavo quella brocca e quel catino. Sei fortunata che è accaduto fra una tua visita e l’altra. Renna ha fatto in modo che passassi quei giorni a sudare, da quando mi svegliavo a quando andavo a dormire, esausta. Cerco di combatterle, ma mi addestrano con la stessa sicurezza con cui addestrano Pura.» Si portò alla bocca la mano, gemendo a denti stretti. «No, si chiama Ryma. Devo ricordare il suo vero nome, non quello che le hanno dato. Si chiama Ryma e appartiene all’Ajah Gialla e si è ribellata con tutte le sue forze. Non è colpa sua, se non ha più la forza di ribellarsi. Vorrei sapere chi è l’altra Sorella, vorrei conoscerne il nome. Ricorda i nostri nomi, Min. Ryma dell’Ajah Gialla e Egwene al’Vere. Non Egwene la damane: Egwene al’Vere di Emond’s Field. Te ne ricorderai?»

«Piantala!» replicò Min, brusca. «Piantala subito! Se ti mandano nel Seanchan, vengo con te. Ma non credo che ci andrai. Ti ho letto, Egwene. Non capisco la maggior parte di quel che ho letto, ma vedo cose che ti collegano a Rand, a Perrin, a Mat e, sì, perfino a Galad, la Luce aiuti gli sciocchi. Com’è possibile, se i Seanchan ti portano dall’altra parte dell’oceano?»

«Forse conquisteranno il mondo intero. In questo caso, non c’è motivo per cui anche Rand e Galad e gli altri non finiscano nel Seanchan.»

«Sciocca!»

«Sono pratica» la rimbeccò Egwene. «Non smetterò di lottare, finché avrò fiato. Ma non vedo la possibilità di levarmi di dosso il collare. Né che qualcuno fermi i Seanchan. Min, se quel tuo capitano ti prende a bordo, vai con lui. Almeno una di noi sarà libera.»

La porta si spalancò ed entrò Renna.

Egwene balzò in piedi e fece un profondo inchino, imitata da Min. Nella stanzetta non c’era molto spazio per gli inchini, ma i Seanchan badavano più al protocollo che alla comodità.

«Giorno di visita, eh?» disse Renna. «Me n’ero dimenticata. Be’, l’insegnamento va fatto anche nei giorni di visita.»

Egwene guardò attentamente la sul’dam staccare dal piolo il bracciale, aprirlo e metterlo al polso. Non riuscì a vedere come l’aveva aperto. Se avesse usato il Potere, l’avrebbe scoperto, ma Renna se ne sarebbe accorta all’istante. Mentre il bracciale si chiudeva intorno al polso, sul viso della sul’dam comparve un’espressione che fece sprofondare il cuore a Egwene.

«Hai incanalato il Potere» disse Renna, con voce ingannevolmente dolce e una scintilla di collera negli occhi. «Sai che è proibito, se non quando siamo unite.» Egwene si umettò le labbra. «Forse con te sono stata troppo indulgente. Forse ti sei convinta che ti saranno concesse licenze, visto che ora sei preziosa. Ho sbagliato a lasciarti tenere il vecchio nome. Quand’ero bambina, avevo un gatto di nome Tuli. D’ora in poi, il tuo nome è Tuli. Puoi andare, Min. Il giorno di visita a Tuli è terminato.»

Min indugiò solo il tempo necessario a rivolgere a Egwene un’occhiata piena d’angoscia. Qualsiasi cosa avesse detto o fatto, avrebbe solo peggiorato la situazione. Ma Egwene non poté fare a meno di guardare con rimpianto la porta che si chiudeva alle spalle dell’amica.

Accigliata, Renna prese la sedia e guardò Egwene. «Devo punirti severamente, per questa trasgressione. Saremo chiamate alla Corte delle Nove Lune... tu, per quel che puoi fare; io, in qualità della sul’dam che ti ha addestrato. Non ti permetterò di farmi fare brutte figure di fronte all’Imperatrice. Mi fermerò solo quando mi dirai quanto ti piace essere damane e quanto ubbidiente sarai da oggi in poi. E, Tuli, fai in modo di convincermi della sincerità d’ogni tua parola.»

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