40 Damane

Egwene smontò mentre la Porta già si apriva. Liandrin le indicò di passare e lei guidò cautamente all’esterno la giumenta. Malgrado la prudenza, quando all’improvviso ebbero l’impressione di muoversi con esagerata lentezza, lei e Bela inciamparono negli arbusti schiacciati dall’apertura della Porta. Uno schermo di fitti cespugli circondava e nascondeva la Porta delle Vie. Nelle vicinanze c’erano soltanto alcuni alberi; la brezza del mattino muoveva foglie con un po’ più di colore di quelle di Tar Valon.

Egwene guardò le sue amiche emergere dalla Porta e solo dopo qualche minuto s’accorse che c’erano altre persone in attesa, poco lontano: il gruppo più bizzarro che avesse mai visto, Restò incerta, anche perché aveva udito troppe voci sulla guerra in corso a Capo Toman.

Uomini in armatura, cinquanta almeno, con corazze a piastre di ferro parzialmente sovrapposte ed elmi d’un nero opaco a forma di testa d’insetto, fermi in arcione o accanto al proprio cavallo, fissavano Egwene, le altre donne, la Porta stessa, e borbottavano fra loro. L’unico a capo scoperto, un tipo alto, dalla faccia scura e dal naso a becco, che teneva contro il fianco l’elmo dorato e dipinto, guardava attonito la scena. Tra i soldati c’erano anche alcune donne; due, con vesti comuni grigio scuro e larghi collari d’argento, fissavano le persone che uscivano dalla Porta; ciascuna aveva alle spalle un’altra donna che pareva pronta a dare ordini. Altre due, un po’ in disparte, indossavano ampie vesti adatte a cavalcare, lunghe fino alle caviglie, ed emblemi col disegno di fulmini sul petto e sulle sottane. La più bizzarra era l’ultima, che stava reclinata in una portantina sorretta da otto uomini muscolosi, a petto nudo, con ampie brache nere. Aveva i capelli rasati ai lati in modo da formare una larga cresta nera che le scendeva sulle spalle. Indossava una lunga sopravveste color crema, ricamata a fiori e a uccelli in ovali azzurri, accuratamente disposta in modo da mostrare la sottana bianca pieghettata. Aveva unghie lunghissime; le prime due erano laccate d’azzurro.

«Liandrin Sedai» disse Egwene, a disagio «sai chi sono?» Le sue amiche tormentarono le redini, quasi a domandarsi se conveniva montare in sella e fuggire, ma Liandrin rimise a posto la foglia d’Avendesora e, mentre la Porta cominciava a chiudersi, mosse fiduciosamente qualche passo.

«La Gran Dama Suroth?» disse, rendendo la frase una via di mezzo fra domanda e constatazione.

La donna sulla portantina annuì in modo appena visibile. «E tu sei Liandrin» disse, con pronuncia strascicata, tanto che Egwene impiegò un momento a capire le parole. «Aes Sedai» soggiunse Suroth con una smorfia, provocando un mormorio fra i soldati. «Dobbiamo sbrigarci, Liandrin. Ci sono in giro delle pattuglie e non è bene farsi scoprire. Anche tu ti divertiresti quanto me per le attenzioni dei Cercatori di Verità. Voglio tornare a Falme prima che Turak noti la mia assenza.»

«Cosa significano questi discorsi?» disse Nynaeve. «E quella lì, Liandrin, di cosa parla?»

Liandrin posò la mano sulla spalla di Nynaeve e di Egwene. «Queste sono le due di cui ti è stato parlato. E qui ce n’è un’altra.» Indicò con un cenno Elayne. «L’Erede dell’Andor.»

Le due donne con l’emblema del fulmine si avvicinavano al gruppetto davanti alla Porta — reggevano, notò Egwene, un rotolo di filo metallico argenteo — accompagnate dal soldato a testa scoperta. L’uomo non portò la mano all’elsa che sporgeva da sopra la spalla; sorrideva con distacco, ma Egwene lo fissò ugualmente con diffidenza. Liandrin non diede segno d’agitazione: in caso contrario, Egwene sarebbe saltata in groppa a Bela, senza pensarci due volte.

«Liandrin Sedai» disse in tono pressante «chi sono queste persone? Aiuteranno anche loro Rand e gli altri?»

All’improvviso, l’uomo dal naso a becco afferrò per la collottola Min e Elayne; poi, tutto parve accadere nello stesso istante: l’uomo imprecò, una donna strillò, di colpo la brezza divenne vento di tempesta che portò via tra polvere e foglie le grida furibonde di Liandrin, mentre gli alberi si piegavano e gemevano; cavalli s’impennarono e nitrirono. Una donna allungò la mano e agganciò qualcosa al collo di Egwene.

Col mantello che schioccava come vela, Egwene piantò i piedi per resistere al vento e diede uno strattone a quel che pareva un collare di metallo liscio. Non riuscì a toglierselo: pareva tutto d’un pezzo, anche se di certo aveva qualche sorta di fibbia. Il rotolo argenteo che la donna reggeva si allungò sulle spalle di Egwene: terminava in un lucido bracciale al polso sinistro della donna. Egwene strinse il pugno e, con tutta la forza che aveva, colpì la donna in pieno nell’occhio... e barcollò, cadde sulle ginocchia, con la testa che le ronzava, come se un uomo grande e grosso le avesse dato un ceffone.

Quando le si schiarì la vista, il vento era cessato. Diversi cavalli, fra cui Bela e la giumenta di Elayne, giravano in libertà; alcuni soldati imprecavano rialzandosi da terra. Liandrin si toglieva con calma dalla veste polvere e foglie. Min, ginocchioni, si reggeva sulle mani e con aria intontita cercava di alzarsi. L’uomo dal naso a becco, in piedi accanto a lei, perdeva sangue dalla mano. Il pugnale di Min, con la lama macchiata, era poco distante, fuori portata. Nynaeve ed Elayne erano sparite, come pure la giumenta di Nynaeve. Erano scomparsi anche alcuni soldati e una delle due coppie di donne. L’altra coppia, vide ora Egwene, era formata da una donna legata all’altra mediante una fune argentea, simile a quella che la univa alla donna in piedi al suo fianco.

Quest’ultima si strofinò la guancia e si accoccolò accanto a Egwene: un livido scuro già le segnava l’occhio sinistro. Era graziosa, con capelli lunghi e scuri, grandi occhi castani; aveva forse una decina d’anni più di Nynaeve. «La tua prima lezione» disse con enfasi. Non mostrò animosità, anzi parve quasi amichevole. «Questa volta non ti punirò, perché dovevo stare in guardia, con una damane appena presa. Sappi che ora sei una damane, l’Incatenata, e io sono una sul’dam, Colei che Regge il Guinzaglio. Una volta legate, se la sul’dam riceve un colpo, la damane lo patisce doppio. Fino alla morte. Perciò ricorda di non colpire mai una sul’dam e proteggi la tua sul’dam anche più di te stessa. Mi chiamo Renna. E tu?»

«Non sono... come hai detto» brontolò Egwene. Diede ancora uno strattone al collare, senza risultato. Pensò di stordire la donna e di strapparle il bracciale, ma cambiò idea. Ammesso che i soldati non intervenissero (fino a quel momento parevano non badare affatto a lei e a Renna) aveva la sconfortante impressione che la donna avesse detto la verità. Si toccò l’occhio sinistro e trasalì: non era gonfio (forse non le sarebbe venuto un livido uguale a quello di Renna) ma le doleva. L’occhio sinistro, come l’occhio sinistro di Renna. Egwene alzò la voce. «Liandrin Sedai? Perché non intervieni?»

Liandrin si ripulì le mani, senza guardare dalla sua parte.

«La prima cosa che devi imparare» disse Renna «è questa: devi fare esattamente quel che ti si ordina e senza perdere tempo.»

Egwene ansimò. All’improvviso la pelle le bruciava e le prudeva, dalla pianta dei piedi al cuoio capelluto, come se si fosse rotolata nelle ortiche. Agitò la testa: bruciore e prurito aumentarono.

«Molte sul’dam» proseguì Renna, nello stesso tono quasi amichevole «non ritengono che alle damane si debba dare un nome, o almeno solo il nome scelto da loro. Ma sono stata io a prenderti e sarò responsabile del tuo addestramento; ti permetterò di conservare il tuo nome. Se non mi fai arrabbiare troppo. Al momento sono un po’ irritata con te. Vuoi continuare finché non m’arrabbio sul serio?»

Egwene digrignò i denti e si conficcò nel palmo le unghie per non grattarsi come una pazza. Era un’idiota: in fin dei conti, si trattava solo del nome. «Egwene» riuscì a dire. «Mi chiamo Egwene al’Vere.» Subito bruciore e prurito scomparvero. Egwene emise un sospiro lungo e incerto.

«Egwene» ripeté Renna. «Un bel nome.» E, con orrore di Egwene, le diede colpetti sulla testa, come si farebbe con un cane.

Ecco che cosa aveva percepito nella voce della donna, si disse Egwene: una certa buona disposizione, come per l’addestramento dei cani, non il tono amichevole che si userebbe verso un altro essere umano.

Renna ridacchiò. «Ora sei più arrabbiata di prima. Se pensi di colpirmi di nuovo, ricorda di picchiare piano, perché sentirai un dolore doppio del mio. Non provare a incanalare il Potere: non dovrai mai farlo, senza un mio preciso ordine.»

Egwene sentiva l’occhio pulsare di dolore sordo. Si rialzò e cercò d’ignorare Renna, come se fosse possibile ignorare la donna a cui era incatenata. Arrossì, quando l’altra rise di nuovo. Voleva andare da Min, ma il guinzaglio non glielo consentiva. «Min?» chiamò piano. «Stai bene?»

Min si mise lentamente a sedere sui talloni e annuì; subito si toccò la testa, quasi rimpiangesse d’averla mossa.

Un fulmine ramificato rombò nel cielo sereno e cadde tra gli alberi, a una certa distanza dal gruppo. Egwene sobbalzò, poi sorrise: Nynaeve era ancora libera; e con lei, Elayne. Se c’era qualcuno che poteva liberare lei e Min, quel qualcuno era Nynaeve. Mutò il sorriso in un’occhiata d’odio a Liandrin. Quale che fosse il motivo del tradimento dell’Aes Sedai, prima o poi sarebbe giunta la resa dei conti. L’occhiata non sortì effetto: Liandrin non distolse lo sguardo dalla portantina.

Gli otto uomini a torso nudo piegarono il ginocchio e posarono a terra la portantina; Suroth ne scese, si aggiustò con cura la sopravveste e si accostò a Liandrin, camminando con prudenza nelle morbide pantofole. Le due donne, della stessa statura, si guardarono negli occhi.

«Dovevi portarmene due» disse Suroth. «Invece ne ho soltanto una, mentre altre due sono fuggite in libertà; e una di loro è di gran lunga più potente di quanto mi è stato detto. Attirerà ogni nostra pattuglia nel giro di due leghe.»

«Te ne ho portate tre» replicò Liandrin, calma. «Se non sei capace di tenerle, forse il nostro padrone dovrebbe cercare fra di voi un altro in grado di servirlo. Ti spaventi a un muover di foglia. Se vengono delle pattuglie, distruggile.»

Il fulmine balenò di nuovo non molto lontano: dopo qualche istante, ci fu un rombo come di tuono, nel punto dov’era caduto; nell’aria si levò una nube di polvere. Né Liandrin né Suroth mostrarono d’accorgersene.

«Potrei ancora tornare a Falme con due nuove damane» disse Suroth. «Mi piange il cuore, al pensiero di lasciare che una... Aes Sedai» distorse le due parole come se fossero un’imprecazione «giri in libertà.»

Liandrin non mutò espressione, ma Egwene vide all’improvviso che un nimbo risplendeva intorno a lei.

«Attenta, Gran Dama» intervenne Renna. «Lei è pronta!»

I soldati si agitarono, allungarono la mano verso spade e lance; ma Suroth si limitò a congiungere le dita e a sorridere. «Non farai alcuna mossa contro di me, Liandrin» disse. «Il nostro padrone disapproverebbe, con la stessa certezza con cui io sono più necessaria di te e tu hai più paura di lui che di diventare damane.»

Liandrin sorrise, anche se due chiazze bianche sulle guance tradivano quanto fosse infuriata. «E tu, Suroth, hai più paura di lui che d’essere ridotta in cenere da me, qui sul posto.»

«Già. Tutt’e due abbiamo paura di lui. Tuttavia, col tempo anche le necessità del nostro padrone cambieranno. Alla fine tutte le marath’damane saranno messe al guinzaglio. Forse sarò proprio io, quella che metterà il collare intorno alla tua graziosa gola.»

«Come hai appena detto, Suroth, le necessità del nostro padrone cambieranno. Te lo ricorderò, il giorno in cui t’inginocchierai ai miei piedi.»

Un’alta ericacea, forse a un miglio di distanza, divenne una torcia ruggente.

«Questa storia comincia a stancarmi» disse Suroth. «Elbar, richiamali.»

L’uomo dal naso a becco prese un corno non più grosso del suo pugno e ne trasse un suono stridulo e penetrante.

«Devi trovare la donna di nome Nynaeve» disse Liandrin, brusca. «Elayne non ha importanza, ma sia quella donna, sia questa ragazza, devono essere sulla tua nave, quando salperai.»

«So bene quali sono gli ordini, marath’damane, anche se non so cosa darei per conoscerne i motivi.»

«Quello che t’hanno detto, bambina» replicò Liandrin, beffarda «è tutto ciò che ti è permesso di sapere. Ricorda che servi e ubbidisci. Bisogna che queste due siano portate dall’altra parte dell’oceano Aryth e tenute là.»

Suroth sbuffò. «Non resterò qui ad aspettare che trovino questa Nynaeve. Non sarò più utile al padrone, se Turak mi consegnerà ai Cercatori di Verità.» Liandrin aprì bocca, con rabbia, ma Suroth non le permise di parlare. «Quella donna non resterà libera a lungo. Nessuna delle due. Quando salperemo di nuovo, porteremo con noi, incatenata, ogni donna che abbia anche la minima capacità d’incanalare il Potere. Se vuoi restare a cercarla, fai pure. Presto arriveranno delle pattuglie per eliminare la marmaglia che ancora si nasconde nelle campagne. Alcune pattuglie hanno con sé delle damane e non baderanno a quale padrone servi. Se per caso sopravviverai all’incontro, guinzaglio e collare t’insegneranno un nuovo modo di vivere; e non credo che il nostro padrone si prenderà la briga di liberare un servitore tanto sciocco da lasciarsi catturare.»

«Se una delle due dovesse restare qui» replicò Liandrin, tesa «il nostro padrone se la vedrà con te, Suroth. Portale via tutt’e due o paga il prezzo.» Si diresse alla Porta delle Vie, stringendo le redini della giumenta. Nel giro di qualche minuto, i battenti si chiusero alle sue spalle.

I soldati che avevano inseguito Nynaeve ed Elayne tornarono al galoppo, accompagnati dalle due donne unite da guinzaglio, collare e bracciale, la damane e la sul’dam, che cavalcavano a fianco a fianco. Tre uomini portavano per le redini tre cavalli con un corpo di traverso sulla sella. Egwene sentì un’ondata di speranza, quando vide che i tre cadaveri avevano l’armatura: i soldati non avevano catturato né Nynaeve né Elayne. Min cercò d’alzarsi, ma l’uomo dal naso a becco le piantò tra le scapole il piede e la spinse a terra, dove lei rimase distesa, ansimando e dibattendosi.

«Chiedo il permesso di parlare, Gran Dama» disse l’uomo. Suroth mosse la mano in un gesto d’assenso e lui proseguì: «Questa contadina mi ha ferito, Gran Dama. Se la Gran Dama non sa cosa farsene di lei...» Suroth fece un altro gesto e si girò; l’uomo dal naso a becco allungò la mano verso l’elsa.

«No!» gridò Egwene. Udì l’imprecazione soffocata di Renna e di colpo sentì in tutto il corpo un prurito peggiore del precedente, ma proseguì: «Per favore! Gran Dama, ti prego! È amica mia!» Un dolore atroce si fece strada nel prurito. Ogni muscolo si annodò, preda di crampi; Egwene cadde con la faccia nella polvere, gemendo, ma riuscì ancora a vedere la lama ricurva uscire dal fodero, a vedere l’uomo sollevarla a due mani. «Ti prego! Oh, Min!»

Di colpo il dolore sparì, come se non ci fosse mai stato. Egwene vide comparire le pantofole azzurre di Suroth, ora sporche di terriccio, ma fissava solo Elbar: l’uomo, con la spada alta al di sopra della testa e tutto il peso del corpo sul piede che premeva la schiena di Min, si era bloccato.

«Questa contadina è tua amica?» disse Suroth.

Egwene si mosse per alzarsi, ma vide Suroth inarcare il sopracciglio e allora si limitò a sollevare la testa, restando distesa: doveva salvare Min, anche a costo di strisciare nella polvere. Aprì le labbra e si augurò che l’arrotare di denti passasse per un sorriso. «Sì, Gran Dama» rispose.

«E se la risparmio, se le permetto di farti visita di tanto in tanto, lavorerai con impegno e imparerai quel che ti sarà insegnato?»

«Sì, Gran Dama.» Avrebbe promesso qualsiasi cosa, pur d’impedire che quella spada spaccasse in due il cranio di Min.

«Metti la ragazza in groppa al suo cavallo, Elbar» ordinò Suroth. «Legala, se non si regge in sella. Se questa damane mi delude, forse ti lascerò la testa della ragazza.» Si mosse verso la portantina.

Renna tirò rudemente in piedi Egwene e la spinse verso Bela. Elbar non si mostrò più gentile di Renna, ma Egwene pensò che Min stesse bene: se non altro, si sottrasse al tentativo di legarla sulla sella e quasi senza aiuto montò in groppa al castrone.

Il bizzarro gruppo s’incamminò verso ponente, con Suroth in testa e Elbar un po’ arretrato rispetto alla portantina, ma pronto a rispondere immediatamente a qualsiasi chiamata. Renna e Egwene cavalcarono alla retroguardia, con Min e la coppia di sul’dam e damane, alle spalle dei soldati. La donna che aveva cercato di mettere il collare a Nynaeve accarezzava il guinzaglio arrotolato e pareva furibonda. Alberi radi ricoprivano il territorio ondulato e il fumo dell’ericacea in fiamme ben presto fu solo una macchia nel cielo alle loro spalle.

«Hai avuto un grande onore» disse dopo un certo tempo Renna. «La Gran Dama ti ha rivolto la parola. In altri momenti, t’avrei lasciato portare un nastro per segnare l’onore ricevuto. Ma visto che hai richiamato su di te la sua attenzione...»

Egwene mandò un grido, nel sentire colpi di frusta alla schiena, alle gambe, alle braccia. Le frustate parevano giungere da tutte le direzioni.

Egwene sapeva che non c’era nessuna frusta da bloccare, ma non poté fare a meno d’agitare le braccia come per parare i colpi. Si morsicò le labbra per soffocare i gemiti, ma non riuscì a trattenere le lacrime. Bela nitrì e si agitò, ma la stretta di Renna sul guinzaglio le impedì di portare via Egwene. I soldati non diedero neppure un’occhiata.

«Cosa le fai?» gridò Min. «Egwene? Smettila!»

«Tu vivi di sopportazione... Min, giusto?» disse Renna, in tono mite. «Che questo sia di monito anche a te. Finché cercherai d’interferire, la punizione non cesserà.»

Min alzò il pugno, lo lasciò ricadere. «Non interferirò. Solo, ti prego, smettila. Egwene, scusami.»

I colpi invisibili continuarono ancora per alcuni istanti, quasi a mostrare che l’intervento di Min non aveva ottenuto risultati, poi cessarono; ma Egwene non smise di rabbrividire. Stavolta il dolore continuò. Egwene tirò su la manica della veste, pensando di vedere i lividi: la pelle era intatta, ma la sensazione c’era sempre. «Non è stata colpa tua, Min» disse. Bela agitò la testa, rovesciando gli occhi; Egwene accarezzò il collo irsuto della giumenta. «Nemmeno tua» soggiunse.

«La colpa è tutta tua, Egwene» disse Renna, con pazienza, come se avesse a che fare con una persona troppo stupida per capire. «Una damane è punita sempre per colpa propria, anche se ignora il motivo. Una damane deve anticipare i desideri della sua sul’dam. Ma questa volta tu sai il motivo della punizione. Le damane sono come mobilio o come utensili, sempre pronte a essere usate, ma senza mai mettersi in mostra. Soprattutto agli occhi d’una dama del Sangue.»

Egwene si morsicò le labbra. Quello era un incubo, non poteva trattarsi della realtà. Disse: «Posso... posso fare una domanda?»

«Con me, puoi» sorrise Renna, «Nel corso degli anni, molte sul’dam porteranno il tuo bracciale: ci sono più sul’dam che damane, sempre. Alcune ti farebbero la pelle a striscioline, se osi staccare da terra lo sguardo o aprire bocca senza permesso; ma non vedo motivo di non lasciarti parlare, se stai attenta a quel che dici.»

Una delle altre sul’dam sbuffò rumorosamente; era legata a una donna graziosa, dai capelli scuri, di mezz’età, che teneva gli occhi fissi sulle proprie mani.

«Liandrin...» non l’avrebbe chiamata mai più Liandrin Sedai «e la Gran Dama hanno parlato di un padrone che tutt’e due servono.» Le venne in mente l’immagine d’un uomo col viso segnato da ustioni quasi guarite, occhi e bocca che a volte diventavano caverne fiammeggianti: un’immagine ricorrente nei suoi sogni, ma pur sempre troppo orribile da contemplare. «Chi è? Cosa vuole da me e... e da Min?» Era stupido, e lo sapeva, non fare il nome di Nynaeve (nessuno l’avrebbe dimenticata solo perché non se ne faceva il nome, soprattutto la sul’dam dagli occhi azzurri che continuava ad accarezzare il guinzaglio) ma era anche l’unico modo di controbattere che al momento riusciva a pensare.

«Non tocca a me» rispose Renna «interessarmi di faccende che riguardano il Sangue e di sicuro non tocca neppure a te. La Gran Dama mi dirà ciò che vuole che io sappia e io ti dirò ciò che voglio che tu sappia. Ogni altra cosa, da te udita o vista, dev’essere considerata come mai pronunciata o accaduta. In questo modo la vita è più sicura, in particolare per una damane. Le damane sono troppo preziose per essere uccise senza attenta riflessione, ma potresti ritrovarti non solo punita duramente, ma senza lingua per parlare o mani per scrivere. Anche così le damane possono assolvere i propri compiti.»

Egwene rabbrividì, ma non per il freddo. Si tirò sulle spalle il mantello e sfiorò il guinzaglio; gli diede un paio di strattoni. «È orribile» disse. «Come potete usarlo su delle persone? Quale mente malata l’ha inventato?»

La sul’dam dagli occhi azzurri e dal guinzaglio arrotolato ringhiò: «Quella lì potrebbe già fare a meno della lingua, Renna.»

Renna si limitò a sorridere.

«Orribile? Ma non possiamo lasciare libera chi ha le capacità di damane. A volte nascono uomini che sarebbero marath’damane se fossero donne... avviene anche qui, da quel che ho sentito... e ovviamente devono essere uccisi, ma le donne non impazziscono. Meglio per loro diventare damane che creare guai lottando per il Potere. In quanto alla mente che ha ideato il guinzaglio, cioè l’a’dam, era quella d’una donna che si definiva Aes Sedai.»

Egwene rimase incredula e Renna scoppiò a ridere apertamente. «Quando Luthair Paendrag Mondwin, figlio di Artur Hawkwing, affrontò per la prima volta gli Eserciti della Notte, trovò fra i nemici molte donne che si definivano Aes Sedai. Si disputavano il potere e come arma usavano l’Unico Potere. Una di loro, una certa Deain, ritenne più vantaggioso mettersi al servizio dell’Imperatore... che ovviamente a quel tempo non aveva ancora il titolo... poiché non c’erano Aes Sedai nei suoi eserciti; si presentò a lui e gli mostrò un congegno da lei ideato, il primo a’dam, legato al collo d’una sua consorella. Anche se quest’ultima non voleva servire Luthair, era costretta dal guinzaglio. Deain fabbricò altri a’dam, furono trovate le prime sul’dam, e le Aes Sedai fatte prigioniere scoprirono d’essere in realtà delle semplici marath’damane, Coloro che Devono Essere Legate al Guinzaglio. Si dice che Deain stessa, quando fu legata al guinzaglio, con le sue urla fece tremare la Torre di Mezzanotte, ma ovviamente anche lei era una marath’damane e alle marath’damane non è concessa libertà. Forse tu sarai una di quelle che possiedono l’abilità di fabbricare altri a’dam. In questo caso, sarai trattata con tutti i riguardi, stanne certa.»

Egwene guardò con desiderio il territorio circostante. Cominciavano a comparire basse montagne e le scarse foreste si erano ridotte a boschetti sparpagliati, ma lei era sicura di potersi perdere fra di essi. «Dovrei aspettarmi d’essere coccolata come un cucciolo?» replicò, in tono amaro. «Tutta una vita, legata a uomini e donne che mi ritengono una sorta d’animale?»

«Uomini, no» ridacchiò Renna. «Tutte le sul’dam sono donne. Mettere il bracciale a un uomo nella maggior parte dei casi equivale ad appenderlo a un piolo.»

«E a volte» intervenne in tono aspro la sul’dam dagli occhi azzurri «tu e lui morireste fra mille sofferenze.» La donna aveva lineamenti spigolosi e labbra sottili, espressione perennemente arrabbiata. «Di tanto in tanto l’Imperatrice gioca con i nobili, legandoli a una damane. Un gioco che fa sudare freddo i nobili e divertire la Corte delle Nove Lune. Fino al termine, il prescelto non sa se vivrà o morirà, e neppure la damane.» Rise con cattiveria.

«Solo l’Imperatrice può permettersi di sprecare così le damane, Alwhin» disse Renna, brusca. «E io non intendo addestrare questa damane solo per vederla sprecata.»

«Per ora non ho visto nessun addestramento, Renna. Solo un mucchio di chiacchiere, come se tu e questa damane foste amiche d’infanzia.»

«Forse è ora di vedere che cosa può fare» ammise Renna, esaminando Egwene. «Hai già controllo sufficiente a incanalare a quella distanza?» Indicò un’alta quercia solitaria in cima a una collina.

Egwene corrugò la fronte e guardò l’albero, forse a mezzo miglio dal percorso seguito dai soldati e dalla portantina di Suroth. Non aveva tentato mai niente che non fosse a distanza d’un braccio, ma pensava che fosse possibile. «Non so» riconobbe.

«Prova» disse Renna. «Senti l’albero. Senti la linfa nell’albero. Voglio che tu lo renda non solo caldo, ma così caldo che ogni goccia di linfa in ogni ramo si vaporizzi in un istante. Forza!»

Sconvolta, Egwene sentì l’impulso di fare come Renna ordinava. Negli ultimi due giorni non aveva incanalato il Potere, non aveva neppure toccato Saidar; il desiderio di riempire se stessa dell’Unico Potere le provocò un brivido. «Non...» All’ultimo istante scartò la parola ‘voglio’: i lividi invisibili le bruciavano ancora. «Non posso» disse invece. «L’albero è troppo lontano e non ho mai fatto una cosa del genere.»

Una sul’dam rise e Alwhin commentò: «Non ha mai neppure provato.»

Renna scosse la testa, quasi mestamente. «Quando si è state sul’dam abbastanza a lungo» disse a Egwene «s’impara a dire molte cose delle damane, anche senza bracciale; ma col bracciale si capisce sempre se una damane ha cercato d’incanalare il Potere. Non devi mai mentire, né a me, né ad altre sul’dam, nemmeno nelle inezie.»

All’improvviso Egwene sentì di nuovo in tutto il corpo i colpi della frusta invisibile. Strillò e cercò di colpire Renna, ma la sul’dam le scostò con noncuranza il pugno e Egwene ebbe l’impressione di ricevere sul braccio una randellata. Diede di tallone a Bela, ma rischiò di farsi disarcionare, perché la sul’dam reggeva con forza il guinzaglio. Frenetica, si protese verso Saidar, con l’intenzione di colpire Renna e di farla smettere, di renderle i colpi ricevuti. La sul’dam scosse ironicamente la testa. Egwene ululò come se le bruciassero la pelle. Solo quando abbandonò del tutto Saidar, sentì il bruciore attenuarsi, ma le frustate non smisero né rallentarono. Cercò di gridare che avrebbe provato, se Renna avesse smesso, ma riuscì solo a strillare e a contorcersi.

Confusamente s’accorse che Min gridava con rabbia e cercava di accorrere al suo fianco, che Alwhin strappava di mano a Min le redini, che un’altra sul’dam dava ordini secchi alla propria damane, la quale guardò Min. E anche Min si mise a strillare e a muovere le braccia come per parare colpi o scacciare insetti fastidiosi.

Ai loro strilli, alcuni soldati si girarono; dopo un’occhiata, si misero a ridere e non badarono più alle due donne. Non era affar loro, il modo come le sul’dam trattavano le damane.

Il supplizio parve durare per sempre, ma dopo un poco terminò. Egwene si lasciò andare contro il pomo della sella, con le guance bagnate di lacrime, e singhiozzò nascondendo il viso contro la criniera di Bela. La giumenta nitrì, inquieta.

«È bene che tu abbia personalità» disse Renna, con calma. «Le migliori damane sono quelle che hanno una personalità da modellare.»

Egwene chiuse gli occhi. Avrebbe voluto anche poter chiudere le orecchie, per non udire la voce di Renna. Doveva fuggire, pensò. Ma come? Con l’aiuto di Nynaeve, Luce santa! Di uno qualsiasi!

«Sarai una delle migliori» proseguì Renna, in tono soddisfatto. Accarezzò i capelli di Egwene, come una padrona che calmi il proprio cane.

Nynaeve si sporse dalla sella e scrutò da dietro il riparo formato da cespugli pieni di foglie pungenti. Vide alberi sparsi, alcuni con foglie già ingiallite. I tratti d’erba e d’arbusti parevano deserti. Niente si muoveva, a parte la colonna di fumo dell’ericacea bruciata, sempre più sottile, che si piegava sotto la brezza.

Era stata opera sua, l’albero in fiamme, e una volta anche il fulmine a del sereno, e alcune altre cose che non aveva mai pensato di tentare, finché quelle due donne non le avevano tentate su di lei. Le due, legate al guinzaglio, operavano insieme, anche se lei non capiva bene il loro rapporto. Una portava il collare, ma anche l’altra era legata. Di una cosa era sicura: almeno una delle due era Aes Sedai. Non le aveva viste tanto chiaramente da scorgere l’alone di chi usa il Potere, ma non c’erano altre spiegazioni.

Ne avrebbe parlato con piacere a Sheriam, pensò; le Aes Sedai non usavano come arma il Potere... o no?

Lei, invece, l’aveva usato. Aveva sbattuto a terra le due donne, con quel colpo di fulmine, e un soldato era morto nella palla di fuoco che lei aveva scagliato contro di loro. Ma da qualche tempo non vedeva più nessuno di quegli stranieri.

Aveva la fronte imperlata di sudore, non solo per lo sforzo. Aveva perduto il contatto con Saidar e non riusciva a ripristinarlo. In quel primo accesso di furia alla scoperta che Liandrin le aveva tradite, aveva toccato Saidar quasi ancora prima di rendersene conto ed era stata inondata dall’Unico Potere.

Le era parso di poter fare qualsiasi cosa. E mentre le davano la caccia, la rabbia d’essere ridotta al livello d’un animale le aveva fornito energie. Ora la caccia era terminata. Più andava avanti senza vedere nemici, più si preoccupava che qualcuno potesse sorprenderla e più tempo aveva per pensare alla sorte di Egwene, di Elayne, di Min. Adesso aveva paura. Paura per le sue amiche, paura per se stessa. E lei aveva bisogno di collera, non di paura.

Dietro un albero ci fu un movimento.

Nynaeve trattenne il fiato e cercò di toccare Saidar; ma tutti gli esercizi appresi da Sheriam e dalle altre non le servirono a niente. Percepiva la Vera Fonte, ma non riusciva a toccarla.

Da dietro l’albero sbucò, piegata in due, Elayne. Nynaeve si accasciò di sollievo. L’Erede aveva la veste sporca di terriccio e strappata, i capelli aggrovigliati e pieni di foglie, occhi sgranati come quelli d’un daino impaurito, ma reggeva con mano ferma un corto pugnale. Nynaeve avanzò allo scoperto.

Elayne sobbalzò, poi si portò la mano alla gola e inspirò a fondo, Nynaeve smontò e le due si abbracciarono, confortandosi a vicenda.

«Per un attimo» disse infine Elayne «ho pensato che fossi... Sai chi sono? Due uomini mi hanno inseguita. Ancora qualche minuto e mi avrebbero catturata, ma si è udito uno squillo di corno e loro hanno girato il cavallo e sono corsi via al galoppo. Già mi avevano vista, Nynaeve, eppure se ne sono andati.»

«Anch’io ho udito il corno e da allora non ho più visto nessuno. Hai visto Egwene o Min?»

Elayne scosse la testa e si lasciò cadere seduta. «Non dopo... L’uomo ha colpito Min, l’ha gettata a terra. E una donna cercava di mettere qualcosa al collo di Egwene. Non ho visto altro, prima di fuggire. Non credo che siano riuscite a scappare, Nynaeve. Avrei dovuto fare qualcosa. Min ha ferito la mano che mi teneva e Egwene... Invece ho pensato solo a fuggire. Ho capito d’essere libera e sono scappata. Mia madre farà meglio a sposare Gareth Bryne e ad avere al più presto un’altra figlia. Non sono adatta a salire sul trono.»

«Non essere sciocca» disse Nynaeve, brusca. «Ricorda che tra le mie erbe ho un pacchetto di radice di linguapecora.» Elayne, con la testa fra le mani, non reagì alla battuta scherzosa. «Ascolta, ragazza. Sono forse rimasta a combattere contro una trentina d’uomini armati, senza contare le Aes Sedai? Se tu fossi rimasta, a quest’ora avrebbero catturato anche te. O t’avrebbero ucciso. Per chissà quale motivo, parevano interessati solo a Egwene e a me. Forse a loro non importava, se restavi viva o morivi,» Ma perché erano interessati proprio a Egwene e a lei? Perché Liandrin aveva organizzato quella trappola? Anche adesso erano domande senza risposta.

«Se fossi morta nel tentativo d’aiutarle...» cominciò Elayne.

«Ora saresti cadavere e basta. Senza alcun vantaggio né per te né per loro. Tirati in piedi e datti una ripulita.» Cercò nelle bisacce la spazzola per capelli. «E una pettinata.»

Elayne si rialzò lentamente e prese la spazzola. «Sembri quasi Lini, la mia vecchia nutrice» disse con una risatina. Cominciò a spazzolarsi i capelli e, fra le smorfie, a districare i nodi. «Ma come facciamo ad aiutarle, Nynaeve? Quando sei in collera, diventi forte come uria Sorella, ma anche loro hanno donne capaci d’incanalare il Potere. Per quanto assurdo, forse sono Aes Sedai. Non sappiamo neppure in quale direzione le hanno portate.»

«A ponente» disse Nynaeve. «Quella Suroth ha accennato a Falme, che si trova nel punto più occidentale di Capo Toman. Andremo a Falme. Mi auguro che ci sia Liandrin. Le farò maledire il giorno in cui sua madre ha messo gli occhi su suo padre. Ma per prima cosa faremo meglio a trovare qualche vestito locale. Nella Torre ho visto donne tarabonesi e domanesi: si vestono in maniera assai diversa dalla nostra. A Falme capirebbero subito che siamo forestiere.»

«Un vestito domanese per me va bene... anche se mia madre avrebbe una crisi isterica, scoprendo che l’ho indossato. Ma, pur trovando un villaggio, possiamo permetterci di comprare dei vestiti? Non so quanto denaro hai tu, ma io ho soltanto dieci marchi d’oro e forse venti d’argento. Bastano a mantenerci per un paio di settimane, ma dopo cosa faremo?»

«Alcuni mesi da novizia a Tar Valon» disse Nynaeve, ridendo «non t’hanno impedito di continuare a ragionare come l’erede al trono. Non ho neppure un decimo del tuo denaro, ma i tuoi marchi basteranno comodamente per tre mesi. Anche di più, se staremo attente. Non ho intenzione di comprare vestiti e in ogni caso non vanno bene, nuovi. La mia veste di seta grigia ci tornerà utile, con le perline e i fili d’oro. Se trovo una donna che ci dia in cambio due o tre buone vesti, ti passo l’anello e faccio la parte della novizia.» Rimontò in sella e allungò la mano per aiutare Elayne a montare dietro di lei.

«Cosa faremo, una volta a Falme?»

«Ci penseremo quando ci saremo. Sei sicura di voler venire con me? Sarà pericoloso.»

«Egwene e Min verrebbero a cercarci, se fossero nei nostri panni. Allora, ci muoviamo?» Diede di tallone e la giumenta si avviò.

Nynaeve fece girare il cavallo in modo da avere alle spalle il sole: non era ancora mezzodì. «Dobbiamo essere prudenti» disse. «Le nostre Aes Sedai possono riconoscere una donna in grado d’incanalare il Potere solo passandole accanto. Forse queste altre sono in grado di notarci anche in mezzo alla folla, se ci cercano. Ed è meglio presumere che ci cerchino.» Di sicuro cercavano Egwene e lei, ma per quale motivo?

«Sì, prudenti. Hai detto bene prima: se catturano anche noi, loro non avranno alcun vantaggio.» Restò in silenzio per qualche istante. «Credi che quelle di Liandrin fossero tutte menzogne, Nynaeve? La storia di Rand e degli altri in pericolo? Le Aes Sedai non mentono.»

Fu la volta di Nynaeve a restare in silenzio, ma tutti sapevano che la verità detta da un’Aes Sedai poteva anche non essere la verità che si pensava d’ascoltare. «Secondo me, a quest’ora Rand si scalda i piedi davanti al camino di lord Agelmar, a Fal Dara» disse infine Nynaeve. Non poteva preoccuparsi per lui, al momento: doveva pensare a Egwene e a Min.

«Credo anch’io» sospirò Elayne. Cambiò posizione. «Se Falme è assai distante, Nynaeve, faremo a turno a stare in sella. E non arriveremo mai a Falme, se lasci che il cavallo decida l’andatura.»

Nynaeve incitò la giumenta; con uno strillo, Elayne si afferrò al mantello dell’amica. Nynaeve si disse che avrebbero fatto a turno a sedere dietro la sella e non badò agli ansiti di Elayne che sobbalzava sul posteriore del cavallo. Era troppo impegnata a scacciare la paura: non voleva arrivare a Falme impaurita, ma furibonda.

La brezza divenne fresca e pungente, primo segno dell’inverno in arrivo.

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