3 Amici e nemici

Rand corse solo fino alla porta secondaria, girato l’angolo della stalla. Poi rallentò e cercò d’assumere un’aria indifferente e tranquilla.

La porta ad arco, ben sbarrata, consentiva appena il passaggio di due cavalieri affiancati; come tutte le porte nelle mura esterne, era rinforzata da larghe strisce di ferro e bloccata da una robusta sbarra. Era sorvegliata da due soldati in elmo conico e corazza a piastre e a maglia, armati di una lunga spada portata sulla schiena. I due avevano la sopravveste color oro, col Falco Nero sul petto. Rand ne conosceva di vista uno, Ragan, che aveva sulla guancia, dietro le barre della visiera, una cicatrice biancastra, triangolare, ricordo di una freccia Trolloc. Nel vedere Rand, il soldato sorrise.

«La pace ti favorisca, Rand al’Thor» gridò quasi, per farsi sentire al di sopra dello scampanio. «Vuoi sempre dare bastonate in testa ai conigli o insisti che quel randello è un arco?» Il secondo soldato cambiò posizione per mettersi proprio davanti alla porta.

«La pace ti favorisca, Ragan» rispose Rand, fermandosi di fronte ai due, con uno sforzo per mantenere calma la voce. «Lo sai che è un arco. Mi hai visto tirare.»

«Non va bene, da cavallo» commentò acidamente il secondo soldato, con occhi neri e incassati che parevano sempre fissi. Ora Rand lo riconobbe e imprecò contro la sfortuna: solo una Aes Sedai di guardia alla porta era peggio di Masema. «Troppo lungo» soggiunse Masema. «Io faccio in tempo a scagliare da cavallo tre frecce, mentre tu ne tiri una, con quel mostro.»

Rand si costrinse a sogghignare, come se fosse una battuta. Che sapesse, Masema non aveva mai detto frasi scherzose né riso alle battute. I soldati di Fal Dara, per la maggior parte, avevano accettato Rand: si allenava con Lan, sedeva alla tavola di lord Agelmar e, soprattutto, era giunto in compagnia di Moiraine, una Aes Sedai. Però alcuni parevano incapaci di dimenticare che era un forestiero e gli rivolgevano a malapena la parola, solo se costretti. Masema era il peggiore di costoro.

«Per me va benissimo» replicò Rand. «A proposito di conigli, Ragan, mi fai uscire? Frastuono e confusione non mi piacciono. Meglio andare a caccia di conigli, a costo di non vederne neppure uno.»

Ragan si girò a mezzo per guardare il compagno e Rand sentì crescere la speranza. Ragan era un bonaccione, che col proprio comportamento smentiva la cicatrice, e pareva avere in simpatia Rand. Masema però scuoteva già la testa. Ragan sospirò. «Impossibile, Rand al’Thor.» Accennò a Masema, come per giustificarsi: se fosse dipeso solo da lui... «Nessuno può uscire senza un lasciapassare scritto. Peccato, se venivi qualche minuto fa... Abbiamo appena avuto l’ordine di sbarrare le porte.»

«Ma perché lord Agelmar dovrebbe tenere dentro proprio me?» replicò Rand. Intanto Masema guardava i fagotti e le bisacce. Rand cercò di ignorarlo. «Sono suo ospite» prosegui. «Sul mio onore, potevo andarmene in qualsiasi momento, in queste ultime settimane. L’ordine viene da lord Agelmar, no?» A quest’ultima frase, Masema ebbe un moto di sorpresa e si accigliò più del solito; quasi dimenticò i fagotti di Rand.

Ragan rise. «E chi potrebbe dare un ordine del genere, Rand al’Thor? Be’, a noi l’ha detto Huno, ma di chi vuoi che sia?»

Masema fissò Rand in viso, senza battere ciglio. «Volevo starmene un po’ da solo, tutto qui» spiegò Rand. «Proverò i giardini: non ci saranno conigli, ma neppure folla. La Luce vi illumini e la pace vi favorisca.»

Si allontanò senza aspettare risposta, ben deciso a non avvicinarsi neppure ai giardini. Terminate le cerimonie, poteva esserci qualche Aes Sedai. Consapevole dello sguardo di Masema, mantenne un passo normale.

A un tratto le campane smisero di suonare e Rand trasalì. Il tempo volava. A quest’ora l’Amyrlin Seat era già nelle sue stanze e avrebbe mandato a chiamare Rand; se non lo trovavano, avrebbe dato inizio alla ricerca. Appena fuori vista della porta, si rimise a correre.

Accanto alla cucina delle caserme, la Porta dei Carrettieri, dalla quale entravano i vettovagliamenti della rocca, era sbarrata e sorvegliata da due soldati. Rand proseguì per il cortile delle cucine, come se non avesse mai avuto intenzione di fermarsi alla porta.

Anche la Porta del Cane, sul retro della rocca, alta e ampia solo quanto bastava al passaggio d’un uomo a piedi, era sorvegliata. Rand scantonò, prima che i due soldati lo vedessero. Per quanto la rocca fosse vasta, non c’erano molte porte; e se perfino la Porta del Cane era sorvegliata, di sicuro anche tutte le altre avevano soldati di guardia.

Forse, se trovava una fune... Salì in cima alle mura di cinta, sull’ampio camminamento col parapetto merlato. Non era in posizione ottimale, così in alto e allo scoperto, nel caso fosse tornato il vento di poco prima; ma dall’alto scorgeva, al di sopra dei comignoli e dei tetti a punta, le mura della città. Anche dopo quasi un mese, a lui che era abituato ai Fiumi Gemelli, le case parevano ancora bizzarre, con i tetti spioventi che toccavano quasi terra e comignoli di sbieco per far scivolare la neve. La rocca era circondata da un’ampia piazza a lastrico, ma a soli cento passi delle mura c’erano vie piene di gente impegnata nelle faccende quotidiane: bottegai in grembiule sotto il tendone davanti alla bottega, contadini in abiti rozzi venuti in città a fare mercato, venditori ambulanti e mercanti attorniati di capannelli e senza dubbio occupati a discutere dell’arrivo a sorpresa dell’Amyrlin Seat. Rand notò che da una porta della città uscivano carretti e persone. Evidentemente lì le guardie non avevano ordine di bloccare la gente.

Alzò gli occhi verso la torre di guardia più vicina: un soldato gli rivolse un cenno di saluto. Con una risata amara, Rand gli rispose agitando il braccio. Tutto il muro di cinta era sotto gli occhi delle guardie. Rand si sporse da una strombatura e scrutò, oltre le feritoie nella pietra per fissare le palizzate, il tratto a strapiombo fino al fossato asciutto, ampio venti passi e profondo dieci, rivestito di pietra levigata. Un muretto inclinato per non offrire riparo circondava il fossato e impediva che qualcuno vi cadesse accidentalmente; il fondo era cosparso di punte affilate come rasoio. Anche con una fune per calarsi e senza soldati a guardare, era impossibile attraversare il fossato: in situazioni disperate, teneva fuori i Trolloc; in questo caso, teneva dentro lui.

A un tratto Rand si sentì prosciugato, esausto. L’Amyrlin Seat si trovava nella rocca e non c’era modo d’uscire. Se l’Amyrlin sapeva che lui era lì, se aveva mandato lei quel vento, allora già gli dava la caccia, con i poteri d’una Aes Sedai. Avevano più possibilità i conigli contro il suo arco, si disse. Però non voleva cedere. C’era chi diceva che la gente dei Fiumi Gemelli poteva insegnare alle pietre e dar lezione ai muli. Quando non rimaneva altro, la gente dei Fiumi Gemelli si aggrappava alla propria testardaggine.

Rand lasciò le mura e vagabondò per la rocca. Evitò di andare in posti dove l’avrebbero cercato di sicuro, come la sua stanza, le stalle, le porte (forse Masema avrebbe rischiato i rimproveri di Huno e gli avrebbe riferito il suo tentativo d’uscire) e i giardini. Riusciva solo a pensare di tenersi lontano da qualsiasi Aes Sedai, Moiraine compresa. Moiraine sapeva di lui, ma non aveva fatto niente contro di lui. Per il momento. Ma se avesse cambiato idea? Forse era stata lei a far venire l’Amyrlin Seat.

Per un attimo, scoraggiato, Rand si appoggiò con la spalla alla dura pietra della parete. Volevano domarlo: sarebbe stato tanto brutto, porre fine a quella faccenda? Mettervi fine davvero? Chiuse gli occhi, ma continuò a vedersi rannicchiato come un coniglio, senza un posto dove scappare, mentre le Aes Sedai, simili a corvi, stringevano il cerchio intorno a lui. Quasi sempre gli uomini domati morivano a breve distanza di tempo: perdevano la voglia di vivere. Rand ricordava troppo bene le parole di Thom Merrilin, per affrontare una situazione del genere. Si scosse bruscamente e percorse in fretta il corridoio. Non aveva senso stare fermo in un posto, col rischio di farsi trovare. Ma prima o poi l’avrebbero trovato comunque. Come una pecora nel recinto. Toccò l’elsa: no, non una pecora, né per le Aes Sedai né per altri. Si sentì un po’ sciocco, ma ben deciso.

Ormai la gente tornava ai propri lavori. Confusione di voci e acciottolio di terraglie riempivano la cucina nei pressi della Grande Sala, dove quella sera l’Amyrlin Seat e il suo gruppo avrebbero cenato. Cuoche e sguattere lavoravano quasi di corsa; i cani trotterellavano dentro le ruote di giunco per girare gli spiedi. Rand attraversò in fretta il locale caldo e pieno di vapore e di aromi di spezie e di cucina. Nessuno gli rivolse una seconda occhiata: erano tutti troppo occupati.

I corridoi sul retro, dove c’erano i piccoli alloggi della servitù, parevano formicai presi a calci: uomini e donne si affrettavano a indossare la livrea migliore. I bambini giocavano negli angoli, per tenersi fuori dei piedi: i maschi agitavano spade di legno, le femmine giocavano con bambole intagliate e alcune dicevano già che la propria bambola era l’Amyrlin Seat. La maggior parte delle porte era aperta e i vani erano chiusi da tendaggi a perline. Di norma questo indicava che i visitatori potevano entrare, ma in quel momento rivelava solo che gli inquilini avevano fretta. Anche quelli che rivolsero a Rand un inchino, quasi non si fermarono.

Se uno di loro, durante il servizio, avesse udito che cercavano Rand, avrebbe detto d’averlo visto lì? Avrebbe osato rivolgere la parola a una Aes Sedai? A un tratto Rand ebbe l’impressione che tutti lo esaminassero di nascosto, lo soppesassero, riflettessero alle sue spalle. Perfino gli sguardi dei bambini gli parvero più penetranti. Era solo uno scherzo della sua immaginazione, lo sapeva; ma quando lasciò gli alloggi della servitù, si sentì come chi evita una trappola l’attimo prima che scatti.

Alcune parti della rocca erano deserte per l’improvvisa vacanza di chi abitualmente vi lavorava. Come la fucina per le corazze, con i fuochi spenti e le incudini silenziose. Fredda. Senza vita. Eppure non deserta. Rand sentì un formicolio e si girò di scatto. Nessuno. Solo i grandi armadi quadrati per gli utensili e i barili per la tempra, pieni d’olio. Si sentì rizzare i capelli e tornò a girarsi. Martelli e corregge appesi alla parete. Guardò con ira l’ampio locale. Non c’era nessuno, era solo immaginazione. Il vento di poco prima e l’arrivo dell’Amyrlin Seat erano più che sufficienti a giustificare il nervosismo.

Per un attimo, nel cortile dell’armeria, fu sferzato dal vento e sobbalzò, pensando che l’aria volesse afferrarlo. Per un istante sentì di nuovo il debole lezzo di marciume e udì dietro di sé una risatina maliziosa. Spaventato, si girò tutt’intorno, scrutando cautamente ogni cosa. Nella corte, lastricata con pietre scabre, c’era solo lui. Si allontanò di corsa, ma credette di udire ancora alle spalle la risata, anche se non c’era più il vento.

Nella corte della legnaia sentì di nuovo la presenza di qualcuno che lo scrutava da dietro i mucchi di legna da ardere tenuti sotto le lunghe tettoie o da sopra le cataste di tavole stagionate davanti alla bottega del falegname, al momento chiusa, dalla parte opposta. Si rifiutò di guardarsi intorno, di pensare a come un paio d’occhi si muovesse così rapidamente da un punto all’altro. Sempre lo stesso paio d’occhi, ne era sicuro. Diventava già pazzo? Ebbe un brivido. No, Luce santa, ancora no! Con la schiena rigida, percorse cautamente la corte della legnaia e l’invisibile presenza lo seguì.

Giù nei corridoi illuminati solo da qualche torcia di giunchi, nei magazzini pieni di sacchi di fagioli e piselli secchi, di rastrelliere con rape e bietole raggrinzite, di botti di vino e barili di carne salata e barilotti di birra chiara, gli occhi erano sempre lì, a volte seguendolo, a volte già in attesa che entrasse. Non udì mai rumore di passi, se non dei propri, mai uno scricchiolio di porta, tranne quando era lui ad aprirla o a chiuderla, ma gli occhi erano lì. Luce santa, diventava davvero pazzo!

Poi aprì la porta di un altro magazzino e udì con sollievo voci umane. Lì non ci sarebbero stati occhi invisibili. Entrò.

Metà locale era pieno di sacchi di granaglie impilati fino al soffitto. Nell’altra metà, c’era un gruppetto d’uomini in ginocchio a semicerchio verso la parete. Dal farsetto di pelle e dal taglio di capelli parevano tutti servitori: nessuno aveva il ciuffo dei soldati né la livrea dei domestici. Ma che cosa combinavano? Fra i mormorii si udì il rumore di dadi e una risatina rauca dopo il tiro.

Loial li guardava giocare a dadi e si lisciava il mento, pensieroso, con un dito più grosso d’un pollice umano e la testa che sfiorava le travi del soffitto. I giocatori non lo degnavano di un’occhiata. A dire il vero, gli Ogier non erano comuni, nelle Marche di Confine o in qualsiasi altra regione, ma nello Shienar erano conosciuti e accettati e poi Loial si trovava a Fal Dara da parecchio tempo, tanto da non suscitare più commenti. L’Ogier indossava una veste scura, dal colletto rigido, abbottonata fino al collo e svasata in vita, sopra stivali alti; una delle ampie tasche era rigonfia e conteneva roba pesante. Un libro, si disse Rand, che conosceva bene Loial. Anche se guardava giocare, l’Ogier aveva sempre un libro a portata di mano.

Suo malgrado, Rand sorrise. Loial aveva spesso questo effetto, su di lui. L’Ogier sapeva molto di certe cose e poco di altre, ma pareva ansioso di apprendere tutto. Rand ricordava il loro primo incontro, quando nel vedere le orecchie pelose, le sopracciglia cadenti simili a un paio di baffoni e il naso largo quasi quanto il viso, aveva creduto d’avere di fronte un Trolloc. Se ne vergognava ancora. Ogier e Trolloc. Myrddraal e mostri delle favole per spaventare i bambini. Creature uscite da storie e leggende: così li considerava, prima di lasciare Emond’s Field. Ma da allora aveva visto in carne e ossa numerose creature leggendarie, per cui non era più sicuro di niente. Aes Sedai e occhi invisibili e vento che afferrava e non mollava la presa. Perdette il sorriso.

«Le storie sono tutte vere» mormorò.

Loial agitò le orecchie e girò la testa; vide Rand e con un sorriso gli si avvicinò. «Ah, sei qui» disse, con voce simile al basso ronzio dei calabroni. «Non ti ho visto, al Benvenuto. Uno spettacolo al quale non avevo mai assistito. Due cose insieme: il Benvenuto dello Shienar e l’Amyrlin Seat. L’Amyrlin ha l’aria stanca, non ti pare? Non è facile, ricoprire la sua carica. Peggio che essere un Anziano, immagino.» S’interruppe, con aria pensierosa, ma solo per un attimo. «Dimmi, Rand, giochi a dadi anche tu? Qui fanno un gioco semplice, con soli tre dadi. Nello stedding ne usiamo quattro. Non mi lasciano giocare, sai? Dicono solo: “Gloria ai Costruttori” e non scommettono contro di me. Non mi sembra giusto. Usano dadi piuttosto piccoli.» Si guardò la mano, larga quanto bastava a coprire una testa. «Ma penso ancora che...»

Colpito da un’idea, Rand lo afferrò per il braccio. «Loial» disse in fretta «gli Ogier hanno edificato Fal Dara, vero? Conosci una via per uscire dalla rocca senza usare le porte? Un cunicolo, una tubazione di scarico, qualsiasi cosa che permetta il passaggio d’un uomo?»

Loial gli rivolse uno sguardo addolorato. «Rand, gli Ogier edificarono Mafal Dadaranell, ma la città fu distrutta durante le Guerre Trolloc. Questa città fu costruita dagli uomini. Potrei disegnarti una piantina di Mafal Dadaranell, perché una volta ho visto le mappe, in un vecchio libro a Stedding Shangtai, ma di Fal Dara so quanto te. Però è costruita bene, vero? Rozza, ma funzionale.»

Rand si lasciò andare contro la parete e chiuse gli occhi, «Devo trovare un modo per uscire» mormorò. «Le porte sono sbarrate e non lasciano passare nessuno, ma devo uscire di qui.»

«Perché? Qui nessuno ti farà niente. Ti senti bene? Rand?» Alzò la voce. «Mat! Perrin! Credo che Rand stia male.»

Rand aprì gli occhi in tempo per vedere i suoi due amici alzarsi dal gruppetto di giocatori. Mat Cauthon, lungo di gambe come una cicogna, aveva sempre un mezzo sorriso, come di chi veda qualcosa di divertente che sfugge a tutti gli altri. Perrin Aybara, dai capelli ispidi, aveva spalle robuste e braccia muscolose, grazie al lavoro d’apprendista fabbro. Tutt’e due indossavano ancora l’abbigliamento tipico dei Fiumi Gemelli, semplice e resistente, ma ormai logoro.

Mat sì staccò dal gruppetto di giocatori e gettò per terra i dadi. Uno lo* apostrofò: «Ehi, meridionale, non puoi andartene quando vinci.»

«Meglio in vincita che in perdita» replicò Mat, con una risata. Senza accorgersene, si toccò la giubba all’altezza della cintola e Rand trasalì. Mat aveva un pugnale con l’elsa di rubino, che non abbandonava mai: era una lama proveniente dalla città morta di Shadar Logoth, contaminata da un male brutto quasi quanto il Tenebroso, lo stesso male che duemila anni prima aveva ucciso Shadar Logoth e che ancora viveva fra le rovine abbandonate. La contaminazione avrebbe ucciso Mat, se il giovane teneva con sé il pugnale; l’avrebbe ucciso ancora più in fretta, se lui l’avesse messo da parte. «Vi darò la possibilità di rifarvi.» I giocatori sbuffarono di storto, perché non credevano d’averne molte.

Anche Perrin, a occhi bassi, si avvicinò a Rand. Negli ultimi tempi teneva sempre gli occhi bassi e le spalle chine come se portasse un peso eccessivo anche per la sua robustezza.

«Cosa c’è, Rand?» disse Mat. «Sei bianco come la tua camicia. Ehi! Dove hai preso quei vestiti? Sei diventato shienarese? Forse mi comprerò anch’io una giacca come la tua e una bella camicia.» Scosse la tasca della giubba, provocando un tintinnio di monete. «A quanto pare, ho fortuna, con i dadi. Appena li tocco, vinco.»

«Non devi comprare niente» rispose Rand, con aria stanca, «Moiraine ha fatto sostituire tutti i nostri indumenti. Per quanto ne so, li avranno già bruciati, tranne quelli che avete addosso. Elansu sarà lì ad aspettare di prendere anche gli ultimi, perciò, se fossi in voi, mi cambierei in fretta, prima che lei stessa ve li tolga di dosso.» Perrin continuò a tenere bassi gli occhi, ma arrossì; il sorriso di Mat divenne più marcato, anche se parve poco spontaneo. «E sto benissimo» proseguì Rand. «Devo solo uscire di qui. Nella rocca c’è l’Amyrlin Seat. Lan ha detto... ha detto che, con lei qui, per me sarebbe meglio essere via da una settimana. Devo andarmene, ma tutte le porte sono sbarrate.»

«Ha detto così?» replicò Mat. «Non capisco. Lan non ha mai parlato male di nessuna Aes Sedai. Perché proprio ora? Senti, Rand, anche a me le Aes Sedai piacciono poco, ma non ci faranno niente.» Nel dire queste parole, abbassò il tono di voce e si guardò alle spalle per vedere se qualcuno dei giocatori stesse ad ascoltare. Forse altrove le Aes Sedai incutevano paura, ma nelle Marche di Confine erano tutt’altro che odiate; un commento irrispettoso nei loro riguardi poteva terminare in una zuffa a suon di pugni o peggio. «Guarda Moiraine: non è poi cattiva, anche se è Aes Sedai. Ti comporti come il vecchio Cenn Buie, con le sue storie alla Locanda della Fonte di Vino. Voglio dire, Moiraine non ci ha fatto niente e nemmeno le altre ci faranno niente. Giusto?»

Perrin alzò gli occhi. Occhi giallastri, che brillavano nella penombra come oro brunito. “Moiraine non ci ha fatto niente?" pensò Rand. Quando loro tre avevano lasciato i Fiumi Gemelli, gli occhi di Perrin erano marrone come quelli di Mat. Non sapeva come fosse avvenuto il cambiamento: Perrin non ne parlava; anzi, da allora era diventato taciturno, si teneva ingobbito e si comportava con un certo distacco, quasi si sentisse isolato anche in compagnia degli amici. Gli occhi di Perrin e il pugnale di Mat. Non sarebbe accaduto, se non avessero lasciato Emond’s Field; ed era stata Moiraine a farli andare via. Ma era un pensiero ingiusto: se lei non fosse venuta nel loro villaggio, a quest’ora loro tre sarebbero morti per mano dei Trolloc. Però questa considerazione non ridava a Perrin l’allegria d’un tempo, né toglieva dalla cintura di Mat il pugnale. E lui? Se fosse rimasto a casa, e se fosse stato ancora vivo, sarebbe diventato quel che era adesso? Forse. Ma almeno non avrebbe dovuto preoccuparsi di quel che le Aes Sedai gli avrebbero fatto.

Mat continuava a guardarlo con aria perplessa e Perrin aveva alzato la testa quanto bastava per fissarlo da sotto le sopracciglia. Loial aspettava, paziente. Rand non poteva dire loro perché doveva stare lontano dall’Amyrlin Seat. I suoi amici non sapevano che cosa era diventato. Lan lo sapeva, Moiraine anche. Egwene e Nynaeve pure. Rand rimpianse che sapessero, soprattutto Egwene; ma almeno Mat e Perrin, e anche Loial, lo credevano lo stesso di prima. Avrebbe preferito morire, anziché informarli e vedere nei loro occhi la preoccupazione che a volte scorgeva in quelli di Egwene e di Nynaeve, anche quando cercavano di non mostrarla.

«Qualcuno... mi tiene d’occhio» disse infine. «Mi segue. Ma... ma non c’è nessuno.»

Perrin mosse di scatto la testa; Mat si umettò le labbra e mormorò: «Un Fade?»

«No, certo» sbuffò Loial. «Un Senza Occhi non potrebbe mai entrare a Fal Dara. Per legge, fra le mura della città nessuno può nascondere il viso e gli addetti alle lampade tengono illuminate le vie per tutta la notte, in modo che non ci siano zone d’ombra dove i Myrddraal possano nascondersi.»

«Le mura non fermano un Fade deciso a entrare» brontolò Mat. «E non so se leggi e lampade hanno miglior risultato.» Non parevano le parole di uno che, solo sei mesi prima, considerava i Fade semplici personaggi delle storie dei menestrelli.

«E poi c’è stato il vento» disse Rand. Raccontò che cosa gli era accaduto in cima alla torre. Perrin serrò i pugni fino a far crocchiare le nocche. «Voglio solo andarmene di qui» concluse Rand. «A meridione. Lontano. In un posto qualsiasi.»

«Ma se le porte sono chiuse» obiettò Mat «come usciamo?»

Rand lo fissò. «Usciamo?» Doveva andare da solo. Alla fine, chi gli stava intorno si sarebbe trovato in pericolo. Nemmeno Moiraine poteva dire quanto tempo mancava. «Mat» replicò «tu devi andare con Moiraine a Tar Valon e lo sai. L’unico posto dove puoi essere separato da quel maledetto pugnale senza morirne. E sai che cosa accadrà, se continui a tenerlo.»

Mat si toccò la giubba, quasi senza accorgersene. «Un dono delle Aes Sedai è esca per pesci» citò. «Be’, forse non voglio abboccare all’amo. Forse quel che lei vuole farmi a Tar Valon è peggiore della sorte che mi toccherà se non ci vado. Forse mente.» E citò ancora: «La verità di una Aes Sedai non è mai la verità come la intendi.»

«Hai altri vecchi proverbi di cui liberarti?» replicò Rand. «Vento di meridione porta l’ospite, vento di settentrione vuota la casa? Un maiale dipinto d’oro è sempre un maiale? Oppure: Lingua non tosa pecore? La parola d’uno sciocco è polvere?»

«Calma, Rand» intervenne piano Perrin. «Non c’è bisogno d’essere così scorbutico.»

«Ah, no? Forse non voglio che voi due veniate con me, per avervi sempre tra i piedi e vedere che vi cacciate nei pasticci aspettandovi che sia io a tirarvene fuori. Non avete mai pensato che potrei essere stufo di vedervi da qualsiasi parte mi giri? Sono stufo di vedervi sempre intorno.» Fu ferito dall’aria offesa sul viso di Perrin, ma continuò, inflessibile. «Qui alcuni mi ritengono un lord. Forse l’idea mi piace. Ma voi giocate a dadi con i mozzi di stalla. Quando andrò via, andrò da solo. Voi due potete andarvene a Tar Valon o a farvi impiccare, ma me ne andrò da solo.»

Il viso di Mat si era irrigidito e le dita che serravano l’elsa sotto la giubba erano sbiancate. «Se la pensi così...» disse il giovane, in tono gelido. «Credevo che fossimo... Come vuoi, Rand al’Thor. Ma se decido di andarmene nello stesso tuo momento, me ne vado e tu Stammi lontano.»

«Nessuno andrà da nessuna parte» disse Perrin «se le porte sono sbarrate.» Aveva ripreso a tenere gli occhi bassi. Dal gruppetto di giocatori contro la parete giunsero risate di derisione per chi aveva perduto.

«Che andiate via o restiate, da soli o insieme, non importa» disse Loial. «Tutt’e tre siete ta’veren. Me ne accorgo perfino io che non possiedo il Talento, solo notando quel che avviene intorno a voi. E lo dice anche Moiraine Sedai.»

Mat alzò le braccia. «Basta, Loial. Non voglio più sentirne parlare.»

Loial scosse la testa. «Ti piaccia o no, è vero. La Ruota del Tempo tesse il disegno dell’Epoca e usa come fili le vite degli uomini. E voi tre siete ta’veren, punti centrali della trama.» Basta, Loial.

«Per un certo periodo, la Ruota piegherà il Disegno intorno a voi, qualsiasi cosa facciate. E quel che farete è scelto dalla Ruota, più che da voi stessi. Col semplice fatto d’esistere, i ta’veren trascinano dietro di sé la storia e danno forma al Disegno, ma la Ruota intesse i ta’veren con un ordito più fitto degli altri uomini. Dovunque andiate e qualsiasi cosa facciate, finché la Ruota non decide diversamente, sarete...»

«Basta!» gridò Mat. I giocatori di dadi si girarono a guardare; Mat rivolse loro un’occhiata feroce, finché non tornarono a occuparsi del gioco.

«Scusami, Mat» rombò Loial. «So di parlare troppo, ma non intendevo.,.»

«Non me ne starò qui» disse Mat, alzando gli occhi verso le travi del soffitto «con un Ogier linguacciuto e uno sciocco la cui testa è troppo grande per il berretto che porta. Vieni, Perrin?» Perrin sospirò, diede un’occhiata a Rand, annuì.

Con un groppo in gola, Rand li guardò allontanarsi. Ma doveva andarsene da solo, non poteva farci niente.

Anche Loial li guardò, con aria preoccupata. «Rand, davvero non intendevo...»

«Cosa aspetti?» replicò Rand, aspro, «Vai con loro! Non capisco perché stai ancora qui, Non mi servi a niente, se non conosci una via per uscire dalla rocca. Vai! Vattene a trovare i tuoi alberi e i tuoi preziosi boschetti, se non li hanno già tagliati tutti, ed è una bella liberazione, se li hanno tagliati.»

Loial parve sorpreso e ferito. «Se vuoi così, Rand al’Thor...» rispose in tono sostenuto. Eseguì un rigido inchino e si allontanò dietro Mat e Perrin.

Rand si abbandonò contro una pila di sacchi di granaglie. Ormai aveva fatto il passo, si disse; i suoi amici sarebbero stati in pericolo, perché lui sarebbe impazzito, se avesse usato il Potere, e aveva un bel ripromettersi di non usarlo: non poteva correre il rischio.

Si accorse che i giocatori, ancora in ginocchio davanti alla parete, si erano girati a fissarlo. Gli shienaresi di qualsiasi classe sociale erano quasi sempre educati e cortesi, anche verso i nemici di sangue, e gli Ogier non erano mai stati nemici dello Shienar. I giocatori erano sconvolti e la loro espressione diceva che lui aveva sbagliato a comportarsi in quel modo con un Ogier, Si limitarono a fissarlo, ma Rand uscì dal magazzino, a passo malfermo, quasi l’avessero scacciato.

Come intontito attraversò altri magazzini in cerca di un luogo dove nascondersi finché non avessero riaperto le porte della rocca. Allora forse poteva nascondersi sul fondo d’un carro di provviste, ammesso che non esaminassero i carri in uscita e che non frugassero i magazzini e tutta la rocca. Cocciutamente si rifiutò di pensare a questa ipotesi e si concentrò nella ricerca d’un nascondiglio sicuro. Ma tutti — una cavità nei sacchi impilati, uno stretto passaggio tra la parete e le botti, un magazzino abbandonato per metà pieno di casse vuote e d’ombre — gli davano l’impressione che sarebbero stati frugati. E che lì non avrebbe trovato difficoltà a scoprirlo neppure il paio d’occhi che lo sorvegliava. Perciò continuò la ricerca, assetato, impolverato, con i capelli pieni di ragnatele.

E poi imboccò un corridoio scarsamente illuminato e scorse Egwene che veniva dalla sua parte e si soffermava a scrutare nei magazzini. Si era legata con un nastro rosso i capelli, lunghi fino alla cintola, e indossava, alla maniera dello Shienar, una veste grigia bordata di rosso. Nel vederla, Rand si sentì sopraffare dalla tristezza e da un senso di perdita assai peggiori di quando aveva scacciato Mat, Perrin e Loial. Era cresciuto col pensiero di sposare un giorno Egwene, pensiero da lei condiviso. Ma ora...

Egwene sobbalzò, quando Rand sbucò davanti a lei, ma si limitò a dire; «Ah, ecco dov’eri. Mat e Perrin mi hanno raccontato tutto. E anche Loial. Rand, so cosa cerchi di fare. Ma ti comporti proprio da sciocco.» Incrociò le braccia e lo guardò con severità. Rand si meravigliava sempre di come riuscisse a guardarlo dall’alto in basso, quando gli arrivava appena al petto e per giunta era di due anni più giovane.

«Bene» disse. A un tratto, nel vedere i capelli sciolti, si arrabbiò: nei Fiumi Gemelli, le donne adulte portavano la treccia e le ragazze non vedevano l’ora che la Cerchia delle Donne del villaggio dicesse loro che potevano portarla. «Vattene anche tu e lasciami in pace. Ormai la compagnia d’un pastore non ti serve più. Ci sono Aes Sedai in quantità. E non dire a nessuna d’avermi visto. Mi cercano e non mi va che le aiuti.»

Egwene divenne rossa di collera. «Credi che farei...»

Rand si girò per andarsene: Egwene, con un grido, si lanciò contro di lui e lo afferrò per le gambe. Ruzzolarono insieme sul pavimento di pietra e Rand si lasciò scappare di mano bisacce e fagotti. Brontolò per il colpo e per il dolore dell’elsa contro il fianco, e poi di nuovo quando lei si rialzò e si lasciò cadere sulla sua schiena come se fosse una poltrona. «Mia madre me lo diceva sempre: il modo migliore per imparare a trattare un uomo è imparare a cavalcare un mulo; la maggior parte delle volte hanno lo stesso cervello. Le altre, il mulo è più intelligente.»

Rand alzò la testa a guardarla. «Togliti di lì! Togliti! Egwene, se non ti togli» abbassò la voce, in tono minaccioso «ti farò qualcosa. Sai cosa sono,» Per buona misura le scoccò un’occhiataccia.

Egwene tirò su col naso. «Non lo faresti nemmeno se potessi. Non faresti male a nessuno. Comunque, non sei in grado d’incanalare a piacimento l’Unico Potere. Invece io prendo lezioni da Moiraine e se non ti mostri ragionevole, Rand al’Thor, ti do fuoco alle brache. Posso farlo benissimo. Mettimi alla prova.» All’improvviso, per un attimo la torcia più vicina contro la parete ebbe un rumoroso scoppio di fiamma. Egwene strillò, sorpresa, e guardò da quella parte.

Rand si rigirò, afferrò Egwene per il braccio, se la tolse di dosso e la spinse a sedere contro la parete. Si alzò a sedere anche lui e si ritrovarono l’uno davanti all’altra: Egwene si massaggiava vigorosamente il braccio.

«L’avresti fatto sul serio, eh?» l’assalì Rand, con rabbia. «Fai la stupida, con le cose che non capisci. Potevi ridurre tutt’e due a carbonella.»

«Gli uomini! Quando non riescono ad avere la meglio in una discussione, scappano o ricorrono alla forza.»

«Un momento! Chi mi ha fatto lo sgambetto? Chi mi si è seduta sulla schiena? E mi hai minacciato... hai provato a minacciarmi di...» Alzò le mani al soffitto. «No, con me lo fai sempre: appena ti accorgi che la discussione non va nel verso che piace a te, cambi argomento. Stavolta no.»

«Non sto discutendo» replicò Egwene, calma «e neppure cambio argomento. Nascondersi non è altro che fuggire. E dopo esserti nascosto, fuggirai davvero. E poi, come mai hai ferito Mat e Perrin e Loial? E me? Lo so, il motivo. Hai paura di fare male a qualcuno, se lasci che ti stia vicino. Se non fai quel che non dovresti fare, non hai niente da preoccuparti. Continui a scappare e a colpire, ma non sai nemmeno se esiste una ragione. Perché l’Amyrlin o una qualsiasi Aes Sedai, a parte Moiraine, dovrebbe sapere che esisti?»

Per un momento Rand la fissò. Più tempo Egwene trascorreva con Moiraine e con Nynaeve, più acquistava il loro modo di fare, almeno quando le tornava comodo. A volte erano molto simili, l’Aes Sedai e la Sapiente, distaccate e sapute. Questo stesso atteggiamento, in Egwene, era sconcertante. Alla fine Rand si decise a riferirle le parole di Lan. «Cos’altro vuoi che significhi?» concluse.

Tenendolo per il braccio, Egwene rifletté. «Moiraine sa di te e non ha fatto niente; quindi l’Amyrlin dovrebbe essere all’oscuro. Ma se Lan...» Lo guardò negli occhi. «I magazzini saranno il primo posto dove cercheranno. Finché non sapremo con esattezza che ti cercano, dobbiamo tenerti in un luogo dove a nessuno verrà in mente di guardare. Ecco: la prigione sotterranea.»

Rand balzò in piedi. «La prigione!»

«Non in cella, sciocco. A volte di sera scendo nella prigione a trovare Padan Fain. Anche Nynaeve. Nessuno si stupirà se ci vado un po’ più presto del solito. Anzi, non ci noteranno nemmeno. Sono tutti interessati all’Amyrlin.»

«Ma Moiraine...»

«Lei non scende nei sotterranei per interrogare mastro Fain; chiede che lo portino alla sua presenza. E l’ha fatto di rado, nelle ultime settimane. Credi a me, laggiù sarai al sicuro.»

Rand esitava ancora. Padan Fain, il venditore ambulante. «Ma perché lo vai a trovare? È un Amico delle Tenebre, per sua stessa ammissione; un uomo malvagio. Luce santa, Egwene, è stato lui a portare a Emond’s Field i Trolloc! Si è definito il cane da caccia del Tenebroso e, dalla Notte d’Inverno, ha continuato a fiutare le mie tracce.»

«Be’, al momento è al sicuro dietro sbarre di ferro.» Lo guardò, esitante, con aria quasi supplichevole. «Rand, ogni primavera, prima ancora che nascessi, portava nei Fiumi Gemelli il suo carro. Conosce tutte le persone che conosco io, tutti i luoghi. Più sta rinchiuso, più si tranquillizza. Come se si staccasse dal Tenebroso. Ride di nuovo, racconta storie buffe sulla gente di Emond’s Field e a volte su luoghi di cui non ho mai sentito parlare. Certe sere pare di nuovo quello d’una volta. Mi piace parlare con uno che mi ricorda casa mia.»

"Dal momento che io ti evito” pensò Rand “e che Perrin evita tutti e che Mat trascorre il tempo a giocare a dadi e a far baldoria." Brontolò: «Non dovevo starmene sempre appartato.» Sospirò. «Be’, se Moiraine ritiene che sia sicuro per te, lo sarà anche per me, immagino. Ma non c’è bisogno di coinvolgere anche te in questa faccenda.»

Egwene si alzò e s’impegnò a spazzolarsi il vestito, evitando di guardarlo negli occhi.

«Moiraine ha detto davvero che è sicuro? Egwene?»

«Moiraine Sedai non mi ha mai detto di non fare visita a mastro Fain» precisò lei.

Rand la fissò, poi esplose: «Non gliel’hai mai chiesto. Lei non ne sa niente. Egwene, sei una stupida. Padan Fain è un Amico delle Tenebre, e anche uno dei peggiori.»

«È chiuso in una cella» replicò lei, sulle sue. «E non devo chiedere il permesso a Moiraine per tutto quel che faccio. È un po’ tardi perché ti preoccupi se faccio quel che pensa una Aes Sedai, no? Allora, vieni?»

«So trovare le prigioni anche senza di te. Mi cercano, o mi cercheranno; non ti conviene farti trovare con me.»

«Senza di me» replicò lei, secca «finirai per inciampare nei tuoi stessi piedi, cadere in grembo all’Amyrlin Seat e confessare tutto cercando una giustificazione.»

«Sangue e ceneri, dovresti fare parte della Cerchia delle Donne, a casa. Se gli uomini fossero incapaci come credi tu, non avremmo mai...»

«Vuoi rimanere qui a parlare finché non ti trovano? Raccogli la tua roba e vieni con me.» Senza aspettare risposta, si girò e si avviò. Borbottando sottovoce, Rand ubbidì di malavoglia.

Durante il percorso incontrarono poche persone, soprattutto servitori, ma Rand aveva l’impressione che tutti lo notassero. Era uno scherzo dell’immaginazione, ma anche così non provò sollievo, quando si fermarono in un passaggio nei sotterranei della rocca, davanti a una porta con una piccola grata, rinforzata di strisce di ferro come quelle esterne, Sotto la grata c’era un battaglio.

Dalla grata Rand scorse pareti nude e due soldati a testa scoperta, seduti a un tavolo sul quale c’era una lampada. Uno dei due affilava a colpi di cote un pugnale e non trasalì nemmeno quando Egwene bussò, provocando un frastuono di ferro su ferro. L’altro, arcigno, diede alla porta una lunga occhiata, poi si alzò e si avvicinò: basso e tozzo, riusciva appena a guardare dalla grata.

«Cosa vuoi? Ah, sei di nuovo tu, ragazza. Sei venuta a trovare l’Amico delle Tenebre? E chi è, quello?» Non fece alcun gesto d’aprire la porta.

«Un mio amico, Changu. Anche lui vuol vedere mastro Fain.»

Il soldato esaminò Rand, arricciò le labbra in una smorfia che forse era un sorriso. «Be’» disse infine «sei alto, eh? E vesti in modo buffo, per la tua razza. T’hanno catturato da giovane nelle Marche Orientali e t’hanno addomesticato?» Tolse i chiavistelli e spalancò la porta. «Be’ entrate, se dovete.» Assunse un tono ironico. «E attento a non sbattere la testa, milord.»

Non c’era pericolo, perché la porta era abbastanza alta anche per Loial. Rand seguì Egwene, chiedendosi se Changu avrebbe causato guai. Era il primo shienarese villano che avesse conosciuto: persino Masema era freddo, non sgarbato. Ma Changu sbatté la porta, la chiuse, rimise a posto i paletti, poi andò a prendere una lampada dallo scaffale contro la parete opposta. L’altro soldato continuò ad affilare il pugnale e non alzò nemmeno gli occhi. Nella stanza c’erano solo il tavolo, le panche e gli scaffali, paglia per terra e una porta interna listata di ferro.

«Ti farà comodo un po’ di luce, là dentro nel buio col tuo amico Amico delle Tenebre» disse Changu. Rise, in tono rauco e privo d’allegria, e accese la lampada. «Ti aspetta.» Mise la lampada in mano a Egwene e aprì la porta interna, quasi con ansia. «Aspetta te. Là dentro, nel buio.»

Rand esitò a disagio sulla soglia, con Changu che sogghignava alle sue spalle; ma Egwene lo tirò per la manica. La porta si richiuse con un tonfo, quasi pizzicandogli il tallone; seguì il rumore di paletti rimessi a posto. C’era solo la luce della lampada, una piccola pozza nelle tenebre.

«Sei sicura che ci lascerà uscire?» disse Rand. L’uomo non aveva dato neppure un’occhiata alla spada e all’arco, non gli aveva chiesto che cosa contenessero i fagotti. «Non sono buone guardie. Per quel che ne sa lui, potremmo essere qui per liberare Fain.»

«Mi conoscono bene» rispose Egwene, ma parve turbata. «Sembrano peggiorare, ogni volta che vengo. Tutte. Più cattive e più imbronciate. Changu raccontava storielle divertenti, la prima volta che sono venuta; e Nidao ormai non parla più. Ma immagino che sorvegliare un luogo come questo non rallegri molto lo spirito.» Nonostante le parole, lo guidò con fiducia nel buio. Rand tenne sulla spada la mano libera.

La fioca luce della lampada mostrò un ampio corridoio con inferriate ai lati, davanti a celle dalle pareti di pietra. Solo due erano occupate: ciascun prigioniero sedeva su di una stretta brandina e, colpito dalla luce, si schermò gli occhi e lanciò occhiate astiose.

«A quello piace bere e fare a pugni» mormorò Egwene, indicando un tipo massiccio con le guance infossate. «Questa volta ha fatto a pezzi la sala comune di una locanda e ha ferito gravemente alcuni avventori.» Il secondo carcerato indossava una giubba ricamata in oro, ampia di maniche, e stivali bassi e lucidi. «Ha cercato di lasciare la città senza pagare il conto della locanda» spiegò Egwene; e tirò su col naso, perché suo padre era il padrone della locanda di Emond’s Field, oltre che sindaco del villaggio «e il dovuto a cinque fra bottegai e mercanti.»

I due carcerati li apostrofarono con le peggiori imprecazioni che Rand avesse mai sentito dalle guardie dei mercanti.

«Anche questi due peggiorano di giorno in giorno» disse Egwene, con voce tesa. Allungò il passo.

Lo precedeva un poco, quando arrivarono alla cella di Padan Fain, proprio in fondo al corridoio; Rand si fermò al limitare della pozza di luce.

Fain sedeva sulla brandina, chino in avanti, come in attesa. Era un uomo ossuto, dagli occhi acuti, braccia lunghe e naso grosso, ancora più magro di quanto Rand non ricordasse. Dimagrito non per la prigionia (i carcerati avevano lo stesso cibo della servitù e nemmeno il peggiore era tenuto a pane e acqua), ma per quel che aveva fatto prima di giungere a Fal Dara.

La vista dell’ex ambulante riportò a Rand ricordi di cui il giovane avrebbe fatto a meno volentieri. Fain a cassetta del grosso carro, che attraversava il Ponte Carraio ed entrava a Emond’s Field il giorno del Mezzo Inverno. E la Notte d’Inverno in cui erano giunti i Trolloc, a uccidere, incendiare, dare la caccia. La caccia a tre ragazzi, aveva detto Moiraine. La caccia a lui, se solo avessero saputo. Usando Fain come segugio.

All’arrivo di Egwene, Fain si alzò, senza schermarsi gli occhi né battere le palpebre alla luce. Le rivolse un sorriso che toccava solo le labbra, poi alzò gli occhi e guardò sopra di lei, direttamente verso Rand, nascosto nel buio. Puntò il dito. «Sento che sei lì nascosto, Rand al’Thor» disse, come se recitasse una cantilena. «Non puoi nasconderti, né da me, né da loro. Credevi che fosse finita, vero? Ma la battaglia ancora non c’è stata, al’Thor. Vengono per me, vengono per te, e la guerra continua. Che tu viva o muoia, per te non è mai finita. Mai.» All’improvviso si mise a canticchiare:

Presto arriverà il giorno in cui

saran tutti liberi, anche tu, anch’io.

Presto arriverà il giorno in cui

saran tutti morti, certo tu, giammai io.

Lasciò ricadere il braccio e alzò gli occhi a fissare il buio. Con un sorriso storto increspò le labbra e ridacchiò di gola, come se vedesse uno spettacolo divertente. «Mordeth sa più di voi tutti. Mordeth sa.»

Egwene indietreggiò fino a trovarsi accanto a Rand e solo il cerchio di luce sfiorò le sbarre della cella. Il buio nascose l’ambulante, ma si udiva ancora la sua risatina. Anche senza vederlo, Rand era sicuro che Fain fissasse ancora il vuoto.

Con un brivido staccò le dita dall’elsa. «Luce santa!» disse con voce rauca. «Secondo te, sarebbe quello di prima?»

«A volte sta meglio, a volte peggio» replicò Egwene, con voce incerta. «Stavolta è peggio... molto peggio del solito.»

«Mi chiedo cosa veda. È pazzo, a fissare il soffitto nel buio.» Non ci fossero state le pietre, avrebbe guardato dritto nelle stanze delle donne. Dove c’erano Moiraine e l’Amyrlin Seat. Rand rabbrividì di nuovo. «È pazzo.»

«Non era una buona idea, Rand» disse Egwene, con un’occhiata alla cella; lo tirò più lontano e abbassò la voce, quasi timorosa che Fain ascoltasse. Il ridacchiare di Fain li seguì. «Anche se qui non ti cercheranno» riprese «non puoi restare con lui, visto lo stato in cui è ridotto. Oggi in lui c’è qualcosa che...» Trasse un sospiro incerto. «C’è un solo posto più sicuro di questo. Non te ne ho parlato perché era più facile farti entrare qui. Gli alloggi delle donne. Lì non ti cercheranno mai.»

«Gli alloggi delle... Egwene, Fain sarà pazzo, ma tu sei più pazza di lui! Per sfuggire alle vespe non ci si nasconde nel vespaio.»

«Quale posto migliore? L’unica zona della rocca dove un uomo, fosse anche lord Agelmar, non entrerebbe senza l’invito d’una donna. L’unico posto in cui non verrebbe neppure in mente di cercare un uomo.»

«L’unico posto della rocca sicuramente pieno di Aes Sedai. Che idea folle, Egwene.»

Con una spinta ai fagotti, Egwene parlò come se fosse tutto già deciso. «Devi avvolgere nel mantello spada e arco, così sembrerà che porti della roba per me. Non sarà difficile trovarti una giubba e una camicia un po’ meno eleganti. Però dovrai camminare a spalle basse.»

«Te l’ho detto, niente da fare.»

«Sei più testardo d’un mulo, quindi ti si addice di sicuro fare la parte del mio facchino. Se non vuoi proprio stare qui sotto con lui.»

Dal buio giunse la risatina di Fain. «La battaglia ancora non c’è stata, al’Thor. Mordeth sa.»

«Avrei migliori possibilità saltando dalle mura» brontolò Rand. Ma si tolse di tracolla i fagotti e cominciò ad avvolgere nel mantello spada, arco e faretra, come aveva suggerito Egwene.

Nel buio, Fain scoppiò a ridere. «Non è mai finita, al’Thor. Mai.»

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